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Strana storia
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CAPITOLO V.


Strana storia.


Ell’era figlia unica di una sorella del conte Cesare e del marchese Filippo Crusnelli di Malombra, gentiluomo lombardo che visse in Parigi tra il 49 e il 59, sciupandovi un pingue patrimonio, mobilizzato in fretta e in furia dopo Novara. Marina perdette colà sua madre e passò dalle mani di una severa istitutrice belga a quelle di una governess inglese, giovane, bella e vivace. Quando il marchese tornò a Milano, nel novembre del 59, Marina aveva diciott’anni, una flora romantica in testa, una guida stordita al fianco e sulle labbra un sorriso sarcastico che le faceva pochi amici. In quell’inverno 1859-60 che lasciò a Milano splendida memoria di sè, lo spensierato marchese Filippo volle rientrare da Parigi nella società milanese col fracasso d’una vettura da posta che tuona per le borgate. Diede pranzi, balli e cene dove miss Sarah faceva gli onori di casa. Alcune vecchie dame parenti del marchese mossero gravi rimostranze al «caro Filippo» con la solennità di chi adempie un alto ufficio ed esprime in pari tempo il giudizio di una casta venerabile. Cadute a vuoto le loro parole, ruppero le relazioni diplomatiche e non vollero più saperne di quel «povero Filippo». Così almeno usavano dire agli amici, provocandone la maldicenza adulatrice a carico del marchese, di miss Sarah e di Marina: sopratutto di miss Sarah. E gli amici venivano spesso a portar loro qualche ghiotta primizia di scandalo, tutta avvolta di parole blande. — La X e la Y hanno rifiutati gli inviti del marchese; altre lettere dell’alfabeto li accettano, ma sono sempre d’un freddo con miss Sarah! La R. le ne ha fatte intendere di ben chiare, come sa far lei. Pare che miss ricondurrà presto Filippo a Parigi; forse con l’esercito francese. Corrono dei mauvais propos che sentono il punch e i sigari; si dice che miss partirà con la cavalleria, donna Marina con l’artiglieria, e Filippo, povero Filippo! lo fanno partire con la fanteria.

Perchè con la fanteria?

Perchè nei suoi affari si comincia a non veder chiaro, anzi a vederci molto scuro, un buco nero, un pozzo, una voragine. Pare che questo grand train gli pesi, che lo subisca, che sia voluto da Sarah, la quale non sa il vero stato delle cose e amerebbe gittar Marina sulla testa di qualcheduno e poi fare il gran colpo... si capisce! S’è fatto avanti per Marina quello sventurato del ragazzo Ratti; ma suo padre, avute certe informazioni da Parigi, lo ha spedito a Costantinopoli. Quell’eterno freddurista di R... ha detto che se i ratt scappano, è segno che casa Crusnelli sta per affondare.

Queste cose raccontavano alle vecchie dame gli amici. Infatti si cominciava a parlar così, in Milano, delle condizioni economiche del marchese; ma erano voci timide ancora, vaghe e non credute da molti. Dicevano, in gran parte, il vero; tuttavia Dio sa quanto champagne avrebbe potuto scorrere ancora in onore di donna Marina, se un temuto aneurisma di suo padre non fosse scoppiato come la folgore portando via lui, lo champagne e miss Sarah.

Il conte Cesare d’Ormengo fu chiamato a far parte del Consiglio di famiglia per Marina. Il Consiglio fu ancora in tempo di salvare l’onore del nome e una piccola dote. Il conte Cesare e il defunto marchese non erano mai stati amici; da moltissimi anni non si vedevano neppure. Ma il conte era il parente più prossimo di Marina e fu il solo che le offrisse la propria casa. Marina avrebbe rifiutato se le fosse stato possibile. L’aspetto, i modi, i discorsi austeri dello zio le ripugnavano; ma gli amici del tempo felice s’erano dileguati; i parenti di suo padre le mostravano certa grave commiserazione con un nocciolo nascosto di rimproveri che ella indovinava fremendo di sdegno; sola non poteva vivere; quindi accettò. Accettò freddamente, senza ombra di gratitudine, come se il conte Cesare, suo zio materno, adempisse un dovere e si procacciasse per giunta il beneficio di una compagna nella tetra solitudine che abitava. Ella non vi era andata mai; aveva però inteso descrivere più volte la tana dell’orso come diceva suo padre, che l’orso aveva abbandonata nel 1831, per tornarvi ventott’anni dopo nel 1859. Non si sgomentava della futura dimora, anzi si compiaceva nell’idea di questo palazzo perduto fra le montagne, dove vivrebbe come una regina bandita che si prepari nell’ombra e nel silenzio a riprendere il trono. Il pericolo di seppellirvisi per sempre non si affacciava neppure al suo pensiero, perchè ella aveva una fede cieca e profonda nella fortuna, sentivasi nata agli splendori della vita, era disposta ad aspettarne con altera indolenza il ritorno.

Arrivò al Palazzo con suo zio una sera burrascosa. Il conte l’accompagnò egli stesso alle camere che le aveva assegnato nell’ala di levante, verso il monte. Le aveva fatte arredare con semplicità elegante, aveva provveduto al loro riscaldamento per l’inverno e nella camera da letto aveva collocato il ritratto di sua sorella, lavoro dell’Hayez. Marina vi si lasciò accompagnare, guardò senz’aprir bocca le pareti, il soffitto, gli arredi, il quadro, ascoltò le spiegazioni di suo zio su questo e su quello, aperse le finestre e disse tranquillamente che voleva una camera sul lago.

Ella amava le onde e la tempesta, nè le fecero paura la fronte corrugata e gli occhi lampeggianti del conte; tenne fermo freddamente contro le osservazioni, sempre più acri ch’egli le venne facendo e che troncò a grande sorpresa di lei, con un risoluto: sta bene.

Dato a bassa voce un ordine a Giovanna, la sua vecchia governante, il conte uscì. Allora la governante si pose in cammino, con il lume in mano, seguita da un lugubre corteo di servi e di bauli. Marina volle venir ultima con Fanny, la sua giovane cameriera. Attraversarono tutto il palazzo da capo a fondo. Spesso, nel passare da una camera a un’altra Marina si fermava a guardar indietro nel buio, costringeva la intera carovana a sostare. Tutte le faccie si voltavano a lei, quella della vecchia governante seria seria, quelle dei servi tra torbide e sgomente.

Quando il convoglio entrò nella loggia che congiunge le due ali del palazzo, Marina affacciossi alla balaustrata verso il lago, diede un’occhiata alla scura costa che fronteggia l’ala di ponente, aggrottò le ciglia e disse alla governante:

— Dove mi porti?

Immediatamente gli uomini posero a terra i bauli. La vecchia posò il lume sopra un baule, s’accostò a Marina, giunse le mani e, crollando il capo chino sulla spalla destra, sussurrò con accento di commiserazione profonda:

— In un gran brutto sito, cara la mia bella signorina.

— Allora non ci vado.

— Sarebbe ben meglio — interruppe uno dei portatori.

— Oh sì, voialtri — gli rispose la vecchia in aria severa — e il signor padrone? Dio ce ne guardi.

— Ma insomma — esclamò Marina con impazienza — è un granaio, è un armadio, è un pozzo questa camera?

— Oh, la camera è bella.

— Ma dunque?

— Ma dunque — saltò su l’oratore di prima, un vecchio contadino, mezzo letterato — mi perdoni se mi prendo l’arbitrio di loquire in tre; c’è dentro il diavolo, eccola; non so se mi spiego.

— Zitto, voi, andiamo, prudenza! Che c’entrate voialtri!

— Prudenza? L’è così già, signora Giovanna: la prudenza insegna che non c’entriamo nè noi nè lei.

— Avanti tutti! — disse Marina. — Obbedite al signor conte.

E andò con Giovanna.

Colui si volse a’ compagni e fe’ con la mano destra l’atto di cacciarsi le mosche dalla fronte.

Entrarono in un lungo corridoio e, percorsane la metà, si misero per una scala a sinistra, salirono ad un altro corridoio, nel piano superiore.

Quando Giovanna aperse l’uscio temuto, Marina le strappò di mano il lume ed entrò rapidamente. Vide una stanza discretamente ampia, molto alta, con il pavimento di mattoni, le pareti mal vestite d’una sdrucita tappezzeria gialla, il soffitto a mezza volta con un affresco nel mezzo, un gran carcame di letto, con il suo padiglione che pareva una corona di vecchio nobile spiantato, e pochi seggioloni antichi, fidi compagni di quella grandezza decaduta. Marina fece aprir le imposte e si gittò sul davanzale di una finestra, tuffando il capo nel buio, nel vento, nel fragore misto delle onde e dei boschi, tutto voci di rampogna e di minaccia che le parevano amiche dell’irritato conte; piene in pari tempo di una potenza superiore e malvagia.

Marina restò lì lungo tempo, affascinata, senz’avvedersi dell’affaccendarsi febbrile, delle commosse esclamazioni di coloro che, dietro a lei, mettevano all’ordine la camera, vi portavano masserizie e biancherie. Più volte in passato le erano comparse immagini non evocate di luoghi solitari e selvaggi in cui il suo pensiero posava un momento, senza desiderio nè ribrezzo. Adesso le tornavano a mente. Ricordava qualche cosa di simile a questo nero deserto. Alla Scala? Sì, una notte, al veglione della Scala; un’altra notte, in casa sua, coricandosi dopo una gran festa, le era balenata una tetra visione di solitudini montane. Non s’era curata di quei fantasmi. Ed ora, ecco il vero.

— Signora — disse timidamente Giovanna.

Marina non rispose.

— Signora!

Silenzio.

— Signora donna Marina!

Questa trasalì e si voltò bruscamente.

Non c’era più che la vecchia in camera; gli altri se n’erano andati.

— Ebbene? — diss’ella.

— Per questa sera avrà pazienza così. Domani speriamo che il signor padrone cambierà idea. Se no, cercheremo di fare un po’ meglio. Comanda qualche cosa?

— Sicuro.

Data questa laconica risposta, Marina piantò lì l’attonita vecchierella, fece due o tre giri per la stanza e le tornò davanti.

— Questo diavolo? Dov’è questo diavolo?

— Ah, cara Madonna, non lo so, io. Son cose che si dicono così... sa bene. Io non so.

— Cosa dicono?

— Oh, non abbia paura, sa!

— Cosa dicono?

— Dicono che qui dentro c’è l’anima d’un povero morto che sarebbe poi il padre del signor conte, il suo papà grande di lei.

Marina rise.

— Dunque mio zio è figlio del diavolo!

— Ah Signore, cosa dice mai questa signora qui! No che non era il diavolo il papà del padrone; però era forse un poco suo parente. Ha da sapere ch’egli tenne qui dentro, come in prigione, la signora contessa, mica la mamma del padrone, la prima ch’era una genovese, giovane un bel pezzo più di lui. C’era un vecchio qui a R... che si ricordava di averla veduta e diceva che era così bella che somigliava un bambino.

È bene che questa povera signora è venuta matta; e alla notte, neh, faceva dei versi e cantava delle ore e delle ore sulla stessa musica, che i pescatori di R... quando andavano fuori di notte la sentivano lontano un miglio. Si figuri che hanno persino dovuto mettere le inferriate alle finestre. Mi ricordo io quando il povero conte vecchio la fece tirar giù. Perchè io, la vede, sono nata qui, al Palazzo. Questa povera signora se ne andò presto all’altro mondo. Quando, degli anni dopo, è morto anche lui, il signor papà grande, la gente cominciò a dire che nella casa ci si sentiva e che i rumori venivano proprio da questa camera. E dissero che l’anima del marito, in pena d’essere stata così cattiva, il Signore l’aveva condannata a star qui dentro settantasette volte tanti anni quanti vi era stata la moglie. Ancora adesso non c’è uno di questi paesani che si possa far dormire qui per un milione.

— Storia insipida — mormorò Marina. — Cosa c’è qui sotto?

— Una camera da letto ch’era poi quella della sua nonna: dopo non c’è stato più nessuno.

— E sopra?

— La stanza delle frutta.

— E quella finestra lì dove guarda?

— Guarda verso il largo del lago, perchè qui siamo sull’angolo.

— E quella porta lì?

— Quella porta lì mette a una camera grande come questa, sulla facciata come questa, dove potrà dormire la Sua signora donzella.

A questo punto s’udì nel corridoio vicino uno scoppio di pianti e di lamenti. Era Fanny che singhiozzava disperatamente addossata al muro. Ripeteva fra i singhiozzi di voler andar via, di voler andare a Milano subito subito.

Giovanna rimase stupefatta della pazienza, della bontà, della grazia che Marina pose in opera con quella ragazza caparbia e irragionevole, riducendola poco a poco alla calma senza ottenerne mai una risposta diretta. Voleva andare a Milano a casa sua; casa sua, è vero, non l’aveva, ma sarebbe andata a casa di qualchedun altro: a Milano c’erano almeno cinquanta case di signori da carrozza, dove andare lei, sarebbe come pioverci la manna dal cielo, e le si erano già fatte, prima di lasciar Milano, delle magnifiche offerte; un luogo simile non lo avrebbe mai potuto immaginare; più di una settimana non resterebbe per tutto l’oro del mondo; l’idea di dormire in quell’orrore di camera l’avea fatta impazzire; i regali eran belli e buoni, ma più di quindici giorni o di un mese lei non resterebbe per tutti i regali della terra anche in un’altra stanza; del salario a lei non importava nulla; se restasse, resterebbe per affetto alla sua padrona e non per aumento di salario; del resto, non si sentiva poi neanche bene; provava un gran bisogno di mangiare qualche cosa di sostanzioso e di bere qualche cosa di forte. Così, lasciato a Giovanna l’incarico di trovare per Fanny una camera da letto meno vicina alla dimora degli spettri, fu fatta la pace, e Marina prese possesso del suo appartamento.

Anche il burbero zio fu in seguito ammansato da Marina, senza umili scuse nè moine a cui non avrebbero piegato nè lui nè lei, ma con un riserbo dignitoso, e, quando il rigido conte cominciò a dar qualche segno di sgelo, con certi discorsi studiati, con certe attenzioni appena accennate che lo ruppero e lo sconvolsero affatto. Sulle prime l’atteggiarsi di Marina gli riusciva misterioso e sospetto; poi fu il bizzarro contegno di lei in quella sera burrascosa, che diventò nella sua memoria un enigma inesplicabile. Allora offerse a Marina un’altra stanza più gaia nell’ala sinistra del Palazzo. Marina rifiutò; si compiaceva della leggenda paurosa narrata da Giovanna. La solitudine stessa, la tristezza del vecchio Palazzo pigliavano fra le pareti della sua camera un che di fantastico e di patetico; ed ella sentiva gli occhi de’ domestici e de’ contadini che bazzicavano per casa seguire la sua persona con ammirazione mista di spavento. Ottenne invece dal conte, che alla Giovanna parve opera di stregoneria, di fare alto e basso nella sua camera a piacer suo. Ne strappò le sdrucite tappezzerie gialle e vi stese in luogo loro certi bellissimi arazzi che il conte serbava in granaio, stimandoli poco o nulla; sovrappose ai mattoni un tavolato lucido a scacchiera, cui gittò su, di fianco al letto e a piè di una greppina di velluto marrone, dei tappeti di arazzo. Il vecchio letto coronato rimase, ma la sua corte venne ruvidamente congedata. Una combriccola più pomposa di suppellettili, dame e cavalieri dell’antico regime, tutti boria e sorrisi studiati, ultimo avanzo invenduto degli splendori di casa Crusnelli, venne da Milano a pavoneggiarsi intorno al malinconico monarca.

Quando si moveva tra queste eleganze invecchiate e tetre la delicata figura di Marina nell’abito celeste a lungo strascico, che talvolta indossava per capriccio nelle sue camere, ella pareva caduta dall’affresco del soffitto, da quel cielo sereno, dal gaio seguito di un’Aurora ignuda che vi guidava i balli delle Oreadi e delle Naiadi; caduta in un tenebroso regno sotterraneo dove il suo fiore giovanile brillava ancora, ma di bellezza meno gaia e meno ingenua. Quella dea lassù, tutta rosea da capo a piedi, non aveva negli occhi come questa il fuoco della vita terrena nè il fuoco del pensiero; e benchè pigliasse nel cielo uno slancio superbo con tutti i simboli della sua divinità, pareva, rispetto a Marina, una guattera glorificata.

Nella stanza vicina, che aveva ispirato tanto orrore a Fanny, Marina fece collocare il suo Erard, ricordo del soggiorno di Parigi, e i suoi libri, un fascio di ogni erba, molto più di velenose che di salubri. D’inglese non aveva che Byron e Shakespeare in magnifiche edizioni illustrate, regali di suo padre, Poe e tutti i romanzi di Disraeli, suo autore favorito. Di tedeschi non ne aveva alcuno. Il solo libro italiano era una Monografia storica della famiglia Crusnelli pubblicata in Milano per le nozze del marchese Filippo, nella quale si facean risalire le origini della famiglia a un signore Kerosnel venuto in Italia al seguito della prima moglie di Giovan Galeazzo Visconti, Isabella di Francia contessa di Vertu. C’era pure un Dante, ma nella tonaca francese dell’abate di Lamennais, che lo rendeva molto più simpatico a Marina, diceva lei. Non le mancava un solo romanzo della Sand; ne aveva parecchi di Balzac; aveva tutto Musset, tutto Stendhal, le Fleurs du mal di Baudelaire, Renè di Chateaubriand, Chamfort, parecchi volumi dei Chefs d’oeuvre des littératures étrangéres o dei Chefs d’oeuvre des littératures anciennes pubblicati dall’Hachette, scelti da lei con uno spirito curioso e poco curante di certi pericoli; parecchi fascicoli della Revue des deux Mondes.

La grossa barca di casa dovette stringersi alla parete per far largo a Saetta, lancia elegante venuta dal lago di Como, che ci aveva l’aria di un’allieva della scuola di ballo accompagnata dalla mamma. Il signor Enrico, detto Rico, figlio del giardiniere, diventò ammiraglio della squadra. Sperò, sulle prime, in una divisa degna di Saetta, sollecitata da Marina; ma su questo punto il conte, un aristocratico pieno di generose contraddizioni, fu irremovibile; dichiarò che per l’onore della dignità umana avrebbe preferito un Rico senza calzoni e senza scarpe a un Rico in livrea, fosse pure livrea di battelliere. E lo stesso Rico, essendosi un giorno arrischiato a dirgli che a Como e a Lecco aveva veduto parecchi suoi simili molto contenti della loro livrea, si udì rispondere, in onore della dignità umana, ch’era un grandissimo asino. Marina gli fece allestire un abito scuro da signorino, nel quale il vanitoso Rico entrava, rosso come un gambero, sprizzando riso da tutti i pori: fino a che gli diventò famigliare come le solite brache paterne ad usum delphini. Anche il vecchio giardino ebbe un ritorno di giovinezza e di civetteria dopo la venuta di Marina. Nuovi fiori si addensarono nelle aiuole, una fascia di ghiaia immacolata le cinse. E foglie e fiori furono composti dall’ossequioso giardiniere nel nome della marchesina, in mezzo alla grande aiuola ovale tra l’aranciera e il viale lungo il lago. Perchè il giardiniere e gli altri servi guardavano a lei come all’avvenire e gareggiavano di zelo per conciliarsene il favore. Tranne Giovanna, però. Giovanna non guardava così lontano, non aveva timori nè speranze, devota al padrone, rispettosa verso «la signora donna Marina», seguitava quietamente la sua via.

Del conte non si può dire che andasse rimettendosi a nuovo come parte della sua casa, nè che rifiorisse come il suo giardino. Ma pure anche la sua persona e il suo volto riflettevano qualche nuovo lume, perchè la gioventù, la bellezza e la eleganza, unite in una persona, irradiano intorno a sè, volere o non volere, uomini e cose. Si radeva più spesso, non gli si vedevano più certi cappelli archeologici da spaventare le passere, certi zimarroni ereditati in apparenza dall’antenato di ferro.

Steinegge, con Marina, era ossequioso e freddo. L’aveva preceduta al Palazzo d’un mese appena: strano segretario, incapace di scrivere due righe di italiano corretto. Il conte l’aveva preso sulla raccomandazione del Marchese F. S. di Crema, per spogli e traduzioni sì dal tedesco che dall’inglese, la quale ultima lingua, Steinegge, figlio di una istitutrice di Bath, conosceva perfettamente. All’arrivo di Marina il pover’uomo si era creduto in dovere di fare lo spiritoso e il galante. Tante amarezze, tante miserie patite non avean potuto spegnere del tutto in lui i sentimenti cavallereschi della sua gioventù. Era stato un ardito ufficiale, de’ primi a cavallo, de’ primi con la sciabola in pugno, de’ primi nei nobili amori; poteva egli diportarsi con Marina da scriba melenso? Si diede a sfoderarle complimenti antiquati e galanterie fuori di corso, versi di Schiller e di Goethe. Il successo non fu splendido. Marina non degnava avvedersi del segretario che per significargli con un gesto del viso, con una parola ironica, quanto poco stimasse le sue cortesie, il suo spirito, la sua vecchia e magra persona; e che, se le piaceva di essere amabile col conte, non voleva dire che lo sarebbe con tutti. Da quanto lo zio le aveva detto di Steinegge, ella lo giudicava un avventuriero volgare; a lei vissuta a Parigi tra una società spesso mescolata di queste figure torbide, il tipo non ispirava curiosità di sorta. Aveva in odio, per giunta, la lingua tedesca, lo spirito tedesco, l’amore tedesco, la musica tedesca, la gente, il paese, il nome, tutto. Diceva d’immaginare la Germania come una pipa, una enorme testa rotta di gesso, dal muso di borghese obeso, a cui bruci senza fiamma nel cervello aperto del tabacco umido, malsano, e n’escano spire di fumo denso, forme azzurrognole, mobili, dal grottesco al sentimentale, nuvolette che diventano nuvole, nuvoloni; i quali poco a poco vi calano addosso, vi avviluppano, vi tolgono di vedere e di respirare. Un giorno, mentre Steinegge le parlava con molto calore d’ideali femminili tedeschi, di Margherita e di Carlotta, ella gli disse con la sua indifferenza aristocratica: «Sa che effetto mi fanno Loro tedeschi?» E gli espose quell’amabile paragone. Mentre parlava, sul viso giallastro di Steinegge correva fuoco sino alla radice dei capelli, e gli occhi gli si stringevano in due scintille. Quando Marina ebbe finito rispose: «Signora Marchesina, questa vecchia pipa rotta ha avuto fiamma e avrà: intanto io vi consiglio molto non toccare perchè brucia.» Da quel giorno Steinegge tenne per sè complimenti e squarci poetici.

Marina aveva il suo disegno: conquistar lo zio, impadronirsene del tutto, farsi portare almeno per qualche mese a Parigi o a Torino o a Napoli, in qualunque gran corrente di vita e di piacere che non fosse Milano; navigare con questa e commettere il resto alla fortuna. Lo aveva concepito la sera stessa del suo arrivo al Palazzo, dopo essersi misurata con il conte e averne assaggiato il metallo. Lottò prima di decidersi, con il cuore altero che non voleva piegarsi a simulazioni, benchè si sentisse morire, lì dentro, di scoramento. Rimediato allo strappo di quella prima sera con un contegno dignitoso e tranquillo, cominciò poco a poco a lodare il Palazzo, il giardino, i cipressi aristocratici, il lago, le montagne, il soggiorno, come persona che s’adagia in un riposo nuovo, ne piglia volentieri le abitudini e sente penetrarsi di benevolenza per le cose stesse che la circondano. Lasciò cadere ad una ad una quasi tutte le numerosissime corrispondenze. Il conte non ebbe più ad aggrottar le ciglia sulla pioggia di lettere cifrate, stemmate e profumate che il Rico portava dalla Posta nei primi tempi. Le parole pungenti sfuggitegli qualche volta all’indirizzo di queste amiche, di queste complici delle follie passate, per poco non avevano scompigliato i disegni di Marina, cui facevano groppo alla gola, in quei momenti, risposte sdegnose da soffiar via d’un colpo il lavoro paziente di mesi. I suoi cari libri francesi, romanzi e poesie, non uscirono dalla loro stanza che di soppiatto o quando il conte non avrebbe potuto vederli. Egli era un fiero dispregiatore d’ogni cosa francese, salvo che del vino di Borgogna e di Bordeaux. Alto repubblicano, soleva dire che i Francesi fanno all’amore con le idee belle e grandi, le guastano senza rispetto come fantesche; e finalmente le piantano malconce e svergognate per modo che gli altri perdono la voglia di toccarle. Li detestava come inventori della formola: liberté, egalité, fraternité, dove il secondo termine, diceva lui, si caccia dietro al primo per ammazzarlo a tradimento. E poichè nel disprezzo come nell’ammirazione non aveva misura, diceva che tutti gli scrittori francesi insieme non valevano la nota del bucato di Giovanna; che Voltaire, per esempio, era uno smisurato buffone; che lo scriba Thiers con la sua strategia era un ridicolo retore Formione e sarebbe insultato da Bonaparte, se tornasse al mondo, come colui lo fu da Annibale. Quando parlava di Lamartine «questa gran chitarra che una repubblica ebete si pose in capo sul serio», certi rudi e gagliardi paroloni piemontesi mezzo sepolti nella memoria gli si smuovevano dentro, venivan su con lo sdegno e gli uscivano come cannonate. Picchiava poi sodo sulla folla, picchiava su i poeti e i romanzieri francesi con furore, perchè la poesia moderna e il romanzo, in qualunque lingua, gli erano odiosi. «La società è inferma», soleva dire, «e questi asini poltroni di letterati non fanno che eterizzarla continuamente». Per questo Marina non gli faceva vedere i suoi libri francesi. Gli parlava invece spesso e sinceramente di religione.

Il conte aveva una religione tutta propria, forse non troppo logica, ma ben salda e tenace come le altre sue opinioni. Credente in Dio e nello spirito immortale, partiva dal testo «gloria in excelsis Deo et in terra pax hominibus bonae voluntatis» per dividere nettamente le cose del cielo dalle cose della terra, e operare, secondo la sua espressione, il decentramento religioso. «Sappia — disse una volta ad un cattolico troppo zelante, — sappia che Domeneddio, per festeggiare la nascita di suo figlio, ha dato agli uomini la costituzione.» E poi, per dimostrargli che Dio regna glorioso in excelsis e non governa in terra, gli citò imperturbabilmente Lucrezio come se costui fosse un redattore della Civiltà Cattolica. Ciò posto, affermava che gli uomini sono liberi di vivere sulla terra seguendo quella idea del vero e del bene che ciascuno è in grado di formarsi.

Le opinioni di Marina non erano così nette e precise. Aveva seguite le pratiche cattoliche per inconscio moto del sangue, per l’impulso della vigorosa fede di lontani antenati. Tali fredde pratiche eran bastate lungo tempo a far si credesse cattolica e bastarono perchè le ribellioni del pensiero e del senso cui fu presto in grado di conoscere sia nei libri, sia nel vero, le comparissero gloriose e calde di gagliarda vita di fronte al suo sterile cattolicismo, come la divina ribellione di foglie e di fiori che rompe i vincoli dell’inverno. Nel suo nuovo soggiorno troncò risolutamente ogni pratica religiosa. Ella vedeva che suo zio non ne seguiva alcuna ed era curiosa di penetrarne le ragioni, desiderava udirsi approvare, confermare nel suo proposito, scoprire tanti sicuri argomenti di non credere, onde il pensiero moderno, ella lo sentiva, doveva esser padrone. Ma il conte secondava poco e male i suoi desideri: non era forte in filosofia religiosa, giudicava la religione piuttosto storicamente che filosoficamente. Erano i mali recati dalla lotta delle religioni positive e l’aspetto delle loro evoluzioni regolari, conformi ad una legge generale di sviluppo e di decadenza, che lo avevano reso scettico. Non amava però fare propaganda del suo scetticismo; anzi gli avvenne una volta di dire a Marina che non sarebbe forse un gran male se tutte le donne andassero a messa. Ella rispose che oramai, se credesse e andasse a messa, vorrebbe anche poterla dire; ma che la parte attiva dell’impostura era tutta presa dagli uomini.

A lei la uguaglianza della chiesa ripugnava quanto a suo zio la uguaglianza politica. Non era irreligiosa di natura; pensava qualche volta che vi dovrebbe essere una religione speciale per le classi più alte, una religione liberissima, senza pratiche, quasi senza legge morale o almeno con una legge morale trasformata, dove al concetto del bene e del male fosse sostituito il concetto meno volgare del bello e del brutto, del buono e del cattivo gusto. Lo squisito intelletto della bellezza e dell’armonia starebbe invece della coscienza morale; i sensi non sarebbero combattuti, ma governati con l’intelletto della loro poesia. Un Dio, sì, ci vorrebbe per l’altra gioventù, per l’altra bellezza al di là della tomba.

Il conte abborriva la musica, e Marina si guardava bene dal toccare il suo piano quand’egli era in biblioteca. Però gli contraddiceva risolutamente in fatto di pittura, esprimendo senza ritegno la sua ammirazione pei quadri ch’egli apprezzava meno. Marina si compiaceva d’un dipinto arcaico come d’una suppellettile di lusso, ma comprendeva soltanto le opere del gran secolo dello splendore e della forza. Quelle dei migliori maestri veneziani le affrettavano il sangue nelle vene, le ispiravano uno strano turbamento di ambizioni e di desideri ch’ella non sapeva spiegare a sè stessa. Il conte aveva in salotto uno stupendo ritratto di gentildonna attribuito a Palma il Vecchio. Gli occhi di Marina scintillavano posando su quella bellezza dal viso ardito e sorridente, dalle spalle possenti ch’emergevano col seno dall’abito sfarzoso di broccato giallo. In questo argomento dell’arte il conte si mostrava assai mansueto; neppure le contraddizioni vivaci lo irritavano; anzi gli avveniva spesso di guardar Marina con dolcezza mentr’ella combatteva focosamente per suoi pittori prediletti; il vecchio si ricordava allora della propria madre e taceva.

Malgrado il favore che veniva acquistando presso lo zio, Marina provava un’avversione sempre crescente per quest’uomo austero, sprezzatore delle lettere, delle arti, d’ogni eleganza, che le infliggeva la vergogna di nascondere, almeno in parte, l’animo suo. Ella non era nata ipocrita e fu mille volte per prorompere e dire al conte che non lo poteva soffrire, che non intendeva dovergli gratitudine alcuna, nè rispetto, nè ubbidienza. Ma non lo fece. Dopo quest’impeti frenati a fatica, pigliava Saetta e partiva, ora sola, ora col Rico, si gettava a qualche riva solitaria e saliva rapidamente la montagna con un vigore cui nessuno avrebbe attribuito alla sua graziosa persona. I contadini che la incontravano ne stupivano. Gli uomini e le ragazze la salutavano, le donne no. Dicevano tra loro che colei andava sempre per demoni di boschi e di sassi, e a messa non ci aveva mai portati i piedi: ch’era un’altra scomunicata come la Matta del Palazzo, quella di una volta.

Quando era giunta a chetare i nervi con la stanchezza, Marina ridiscendeva al lago, dove Saetta l’attendeva pazientemente, custodita spesso dal giubboncello e dalle scarpe del Rico; mentre questo operoso signore correva i dintorni a coglier frutta, o a disporre trappole per ghiri, archetti per gli uccelli, con una destrezza che tutti i monelli del paese gli invidiavano.

Curioso ragazzo, quel Rico. Era il primo de’ primi alla caccia, alla pesca, al nuoto, alle sassate e alla scuola. Leggeva e rileggeva con passione i libriccini toccati in premio e il Guerrin Meschino, principio e fine della biblioteca di famiglia. Copriva qualche volta con grande onore le funzioni di chierico della parrocchia e si vantava di declamare il suo latino come «on scior curât»; per cui passava sdegnoso e altero nella sua tonachella bianca fra la minor caterva dei sudici marmocchi ammucchiati alla balaustrata dell’altare maggiore. Ai padroni era devoto ciecamente. Diceva di voler bene prima al Signore, poi alla mamma, poi ai «sciori», poi al papà, poi alla «sciora maestra», poi al «scior curât». Non c’erano per lui altri «sciori» al mondo che quelli del Palazzo. Ne parlava come se fosse una cosa sola con essi, opponendo sempre «il nostro palazzo», il «nostro giardino», la «nostra lancia» alle cose di cui gli si raccontavano meraviglie. Aveva la lingua d’un passero; giuocasse, lavorasse o mangiasse, gli era uno scoppiettìo continuo di chiacchiere e di risa, salvo quando si trovava in presenza del conte, che allora ammutoliva. Conosceva tutti i pettegolezzi del paese e possedeva un fondo inesauribile di fiabe, di leggende popolari. Marina lo interrogava spesso sulle tradizioni relative alla Matta del Palazzo. Egli le raccontava in mille modi, intrecciandovi il lavoro della sua capricciosa e poetica fantasia, specialmente nella catastrofe del dramma. Un giorno l’eroina scompariva insalutato hospite, per andarsene «drizza» a casa del diavolo; un altro giorno il marito la faceva buttar giù nel Pozzo dell’Aquafonda in Val Malombra, come la gente del paese chiamava un vallone deserto della montagna di fronte al Palazzo, l’ultimo feudo di Marina, diceva lei. Ma lo scioglimento preferito dal poeta era questo: l’infelice prigioniera usciva di notte dal suo carcere attorcigliata intorno a un raggio di luna e si dileguava nell’azzurro.

Marina si divertiva di questi racconti e della cronaca del paese che il ragazzo le narrava con una mistura incredibile di malizia e d’ingenuità. Ella era da quasi un anno al Palazzo e di viaggio non si parlava. La sua salute se ne risentiva veramente. Sofferenze nervose non gravi, ma frequenti, cominciarono a travagliarla. Ella disegnò subito di trarne profitto; intanto ogni lieve distrazione le era cara, persin quelle che le fornivano le chiacchiere del Rico.

Giunse così l’aprile del 1863; giunse, nei tranquilli splendori del tramonto, una sera sinistra per Marina.

Laggiù a ponente, nubi colossali ardevano nel cielo e nel lago divisi dall’umile striscia nera dei colli; ardevano le cime verdi in faccia al Palazzo, e a levante i picchi inaccessibili dell’Alpe dei Fiori. Al basso durava nell’ombra un qualche lume, un tepore del sole recente, vestigia risus<nowiki>; e da ogni valloncello calavano ad increspar il lago, per breve tratto, soffi pregni degli odori primaverili. Vi si spandeva pure ed entrava per tutti gli echi delle valli il suono festoso delle campane di R... La gran porta nera della chiesa parrocchiale versava sul sagrato, che tocca a levante il ciglio della costa verso il lago, un lento fiume di gente accalcata che si spandeva poi rapidamente. Gli era un rimescolio, uno schiamazzo come d’una gran frotta di pulcini, di paperi cui la gastalda abbia aperto l’uscio de' campi. Folla e grida intorno ai rivenditori di zufoli e di ciambelle che si spargevano sonando dappertutto. Sotto i noci e fra le macchie d’alloro che pendono sopra la chiesa, strepitavano bevitori e mangiatori. Un po’ in disparte si raccoglieva il fiore del bel sesso di R... e dei dintorni; mamme e nonne tutte linde, ridenti nelle loro cuffie, spose poderose chiuse in certe campane di seta nera con tanto di catena d’oro, di pendenti d’oro, di spilloni d’oro, ragazze serie e pudibonde sotto i cappellini a nastri di una civetteria furiosa. I preti giravano lentamente tra le ondate della folla, pettoruti, accesi in faccia, col berretto a croce sulla nuca, e il sigaro di virginia in bocca. Un branco di monelli s’era precipitato per l’uscio del campanile ad avvinghiar freneticamente le corde delle tre campane che suonarono e suonarono senza misura nè decoro, come vecchie impazzite, sinchè il sagrestano assalì quei demoni a moccoli, a scappellotti, a strappate; e fattili rotolar fuori dall’uscio in un mucchio, assestò loro un calcio collettivo e diede alla chiave una furibonda mandata. Il Rico, ch’era lì presso col suo zufolo in bocca aiutò, ci duole dirlo, le prepotenze dell’autorità ecclesiastica, e si mise ad inseguire i rei gridando: «Aspetta me! Aspetta me!». Ma nessuno lo aspettò, ed egli, correndo all’impazzata, capitò invece come un montone tra le gambe del cappellano di..., il quale gli diede del «maledetto asino», una buona scrollata e uno scapaccione di congedo. Il Rico se ne andò mogio mogio, a guardar gli strumenti della banda di V... che aveva suonato in chiesa, alla brava, fior di polke e di galopp e s’era attavolata a bere lì presso. Il ragazzo, fiutando gli ottoni sfolgoranti, udì quella gente che parlava d’andar più tardi al lago a suonare. Gli venne in mente di domandare subito alla sua padrona se volesse prendere Saetta e godere lo spettacolo. Corse via come una lepre, saltò il muricciuolo del sagrato e sparve giù pel bosco verso il sentiero del Palazzo, che passa a mezza costa.

Marina passeggiava quella sera in giardino lungo la balaustrata del lago con un signore piccolo dal lungo soprabito scuro, dai vasti piedi, che non sapeva come camminare nè dove tener le mani e sorrideva di continuo. Era il povero mediconzolo di R... che tutti chiamavano el pittòr per la sua debolezza di tingersi la barba.

— Che peccato, dottore — diceva ella appoggiandosi alla balaustrata e guardando il tramonto — che peccato che quest’aria mi faccia così male! Com’è cattivo Lei a non metterci dentro qualche cosa per me!

Il «pittòr» ci mise dentro un sospiro, giunse le mani, piegò il capo sulla spalla destra, e cominciò col suo solito risolino:

— Se potessi, signora marchesina, se potessi...

E non potè dir altro.

— Pensi. Non si potrebbe farmi una casina di ferro e vetro come si fanno per le palme e per le muse e soffiarvi dentro un’aria molle, un’aria tenera e non celestiale? Perchè non parla, dottore? Dica, se non mi fanno la casina, cosa succederà del mio cuore e dei miei nervi?

— Non si può sapere, signora marchesina, non si può sapere: possono soffrir molto, specialmente il cuore. (Se non fossi tanto asino — pensò il «pittòr» — qui potrei dire qualche cosa di grazioso). Sicuro; quando, la vede, si ha un cuore sensibile...

— All’aria... — suggerì Marina.

— All’aria — capitombolò il pover’uomo — si può andar soggetti, nei paesi di montagna, a frequenti palpitazioni, che poi, neh, rinnovandosi spesso e con violenza, finiscono con generare una viziatura organica, la quale può condurre quando che sia a un precipizio.

— Quanto è amabile, dottore! E i nervi?

— Ma sicuro, ci sono anche i nervi. I suoi nervi, stando sempre in quest’aria farebbero, La vede, la rivoluzione. Vorrebbero comandar loro e far da prepotenti, La mi capisce? Quest’aria Le va benissimo per tre o quattro mesetti l’anno, mica di più.

— Proprio così, dottore?

— Proprio così.

— Si guardi bene, disse Marina facendo il viso serio, — si guardi bene dal ripetere queste cose a mio zio. Mio zio penserebbe che io desideri cambiare soggiorno. Io non gli chiederò mai questo sacrificio, caro dottore; respirerò piuttosto il veleno della buona madre natura. Non sono nè vecchia nè brutta e non ci tengo affatto a diventarlo. Ci tiene Lei, dottore, a invecchiare?

Come un zuccherino di menta inglese al primo posarsi sulla punta della vostra lingua vi irradia per le viscere un’aura non capite bene se di fuoco o di gelo, una specie di puro lume sensibile al gusto, che sembra invader tutto l’esser vostro, così le ultime inattese parole di Marina e lo sguardo che lo accompagnò, irradiarono nelle viscere del turbato «pittòr» un’aura di refrigerio insieme e di ardore, un arcano lume sensibile a quell’occhio interno che ciascuno di noi possiede, Dio sa in quale recondita occhiaia. Benchè vecchio e brutto, egli era di temperamento amoroso; inclinato a spiccie e caute galanterie campagnole, era pur capace di fiamme donchisciottesche. Si figurava di essere innamorato di Fanny, una ghiottoneria squisita per lui; ma ora quel complimento di Marina, di una dea a cui non aveva mai osato alzare il pensiero, gli fece perdere il lume dell’intelletto. E non vide agli angoli della bocca di lei l’impercettibile riso. Non vide neppure il conte Cesare che si accostava lentamente, a capo chino, con le mani congiunte tra la schiena e il soprabito tutto aperto e rovesciato all’indietro.

— Che sta scritto sulla ghiaia, zio? — gli disse Marina sorridendo.

— Vi sta scritto — rispose il conte — che voi avete camminato troppo e che questo diabolico dottore vi ha fatto furiosamente la corte. Non è vero, dottore? Metta, metta il Suo cappello. Dunque, come ha trovato mia nipote?

— Quasi benissimo — interruppe questa. — Glielo dimostri Lei con i suoi termini, dottore. Quanto a me non posso soffrire il discorso orribile ch’Ella farà, e Le do la buona sera.

Così dicendo, Marina stese al dottore una sottile manina profumata, ricca nel suo candore quasi trasparente, di occulte malizie, di elettricità senza nome, di espressioni potenti e rapide oltre alla parola: e, significatogli con essa di non parlare, mosse verso casa. Ell’aveva un lume singolare negli occhi. Si teneva sicura che il dottore avrebbe rappresentato al conte la necessità di portarla per qualche tempo in aria diversa, e non avrebbe taciuta la eroica abnegazione di lei che si disponeva di affrontare una legione di malattie pur di non chiedere sacrifizî allo zio. Da questo sperava molto.

Stava per entrare in casa quando le comparve davanti il Rico trafelato, che buttò fuori in fretta e in furia le sue luminose idee, e, avuta la risposta, saltò nel vestibolo, ricomparve carico di cuscini e di scialli, e via come il lampo alla darsena, seguito lentamente da Marina. Quanto era dolce la sera e come scivolava bene sull’acqua chiara la piccola Saetta! Il Rico era in lena; la sottile prora nera pareva volare tra cielo e cielo e la poppa correva tra i grandi ovali segnati dai remi. Ad ogni tratto il rematore si fermava a guardare verso la riva di R... Le barche non venivano, ma si udivano dall’alto ondate di musica or più or meno sonore. Certo la banda s’era fermata in piazza a far ballare le ragazze e i giovanotti. Il Rico propone di andar verso riva, ma donna Marina gli ordina di fermarsi al largo e di aspettare. Egli comincia un’enfatica apologia della banda forestiera, del famoso suonatore che ha imparato a Como, di quell’altro prodigio che ha imparato a Lecco, dei loro strumenti; donna Marina gli ordina di tacere. Tacere lui? — Non suonano più, ecco, vengono, son qua; no, non vengono ancora, adesso s’imbarcano; oh, dei lumi! Son lanterne! Son palloni! Ora sì che vengono proprio! Suonano, suonano!

— Rema — disse Marina — verso la musica.

Vengono prima a paro due barche illuminate, piene zeppe di suonatori ritti in piedi che soffiano a più potere nei flauti, nei clarinetti, nelle trombe, tenuti in riga a cannonate di gran cassa: poi vengono altre barche oscure col pubblico. Dopo ogni pezzo scoppia da quest’ultime barche un subisso di grida, di applausi, di apostrofi ai rematori, ai timonieri, all’uno, all’altro, di strilli modulati, acutissimi. La flottiglia si avanza lenta per la quiete del lago tutto bruno, passa davanti a Marina.

Suonano un pout-pourri di canzoni popolari lombarde e a tutta quella buona gente ci si rimescola il sangue di tenerezza e d’orgoglio. Sono i loro amori, le loro allegrezze, è il loro fiore d’un giorno; è il canto uscito dalle loro viscere che si spande glorioso e potente fra le care montagne. I suonatori vi mettono uno slancio, un fuoco insolito, i remi rompono l’acqua tuonando, le vecchie barche saltano avanti, tutti cantano colla musica:

L’è sett’anni che son maridada
Perchè s’era la bella biondin.

Forza ai remi! Anche quel vecchio battelliere di poppa si ricorda del suo buon tempo, e si mette a remar con l’arco della schiena e mette fuori anche lui la sua voce sconnessa:

Passeggiando per Milan

L’era un giorno ch’el pioveva
La mia bella la piangeva

Per vedermi andà soldà.

Canta, canta, vecchio battelliere di poppa. Spendi nel canto l’ultimo vigore della tua voce, l’ultimo fuoco del tuo cuore. Non fosti chiuso tu pure, quand’eri giovane e bello, da due braccia amorose?

Il Rico si lascia trasportare dall’entusiasmo, e dimentico dei doveri del proprio stato, mette a profitto i suoi polmoni di acciaio per remare e cantare ad un punto:

Oh che pena, oh che dolore,
Che brutta bestia, che l’è l’amore.

Non si muove un atomo d’aria. Sui fianchi ombrosi delle montagne ogni fil d’erba, ogni fogliolina recente ascolta immobile la dolce musica lontana che parla d’amore; sui pioppi dei prati ascoltano gli usignoli; al chiarore delle fiaccole e delle lanterne salgono a fior d’acqua grossi pesci attoniti; e il lago, zitto come olio, palpita lievemente tra la scia delle barche rigata dal raggio azzurrino di Vespero.

Quella sera l’aria dei monti non nuoceva a Marina. Ell’avrebbe forse preferito seguire un fresco sul Canalgrande o una serenata a Bellagio, dove la fragranza, per così dire, delle più squisite voluttà mondane è nell’aria ed entra sino al cuore: ma tuttavia sapeva apprezzare l’agreste poesia di quella sera di aprile sul lago e la ingenua semplicità, non sempre volgare, dei canti usciti dalla fantasia del popolo. E, pensando che probabilmente avrebbe presto lasciato lago e montagne, pensiero pieno d’inique speranze, li giudicava senza inimicizia, assaporava la musica e ammirava la scena come ghiottonerie rare, gratissime per una volta a palati fini e curiosi come il suo; così avrebbe gustato un quadrettino fiammingo, un’aria di Cimarosa.

Poi, quando i suoni e i canti si andarono dileguando da lontano e Saetta mosse lentamente, quasi a malincuore, verso il Palazzo, le impressioni di quella sera si addentravano poco a poco nell’anima sua rammollita dal voluttuoso languore che l’aprile ispira: e vi si mesceva una gran sensazione di sgomento, simile a certe doglie che ci saettano e passano e passano e poi ce ne scordiamo; e si trova in seguito ch’erano frettolose messaggiere di un grosso male in cammino. L’orologio di R... suonò le nove. Non le parve la solita campana. Come poteva avere un’altra voce? Stette in ascolto. Le balenò alla mente d’essersi trovata un’altra volta sul lago, esattamente nello stesso luogo e alla stess’ora, d’aver ascoltata la campana e fatto lo stesso pensiero che il suono era diverso del consueto. Ma quando?

Le era accaduto parecchie altre volte, specialmente nell’adolescenza, di venir sorpresa da simili riproduzioni di circostanze e di pensieri, senza poter ricordare l’epoca del loro primo passaggio. Ne aveva parlato. Suo padre s’era stretto nelle spalle: che si ha a fare attenzione a simili sciocchezze? Miss Sarah aveva detto: «E dunque?» Le amiche l’avevano assicurata che a loro succedeva la stessa cosa ogni giorno. Marina non ne parlò più, ma ci pensò ancora.

Questi lampi di reminiscenza solevano riferirsi a circostanze tra le più indifferenti della vita. Le rimaneva perciò sempre dubbio se si trattasse di reminiscenze vere e proprie o di allucinazioni. Stavolta non era così. Pensando e ripensando, si persuase di non essersi trovata mai sul lago a quell’ora; era dunque un’allucinazione.

Quando scese al Palazzo, il conte si era già ritirato. Ella passeggiò un tratto su e giù per la loggia, entrò nelle sue stanze, prese un libro, lo gettò via, ne prese un altro, gittò via anche quello, si provò a scrivere una lettera e, dopo aver pensato alquanto con la penna in mano, stracciò il foglio, si trasse due anellini, li buttò sulla ribalta abbassata dello stipo antico che le serviva di scrivania, e andò al pianoforte. Suonò uno dei suoi pezzi prediletti, la gran scena dell’evocazione delle monache nel Roberto. Ella non intendeva, non suonava che musica d’opera.

Suonò come se gli ardori delle peccatrici spettrali fossero entrati in lei più violenti. Alla tentazione dell’amore si fermò, non potè proseguire. Quel foco interno era più forte di lei, la opprimeva, le toglieva il respiro. Chinò la fronte sul leggìo. Pareva che ardesse anche quello. Si alzò in piedi, guardando nel vuoto. La divina musica vibrava ancora nell’aria, le pareva di respirarla, di sentirla nel petto; ne le correva uno spasimo voluttuoso per le braccia.

Finalmente abbassò gli occhi sul pavimento, li posò involontariamente su qualche cosa che brillava a’ suoi piedi. Guardò, senz’averne coscienza, quel punto brillante che a poco a poco le venne fermando la fantasia, finchè lo vide e lo raccolse. Era uno degli anellini buttati da lei sulla ribalta dello stipo. Cercò l’altro. Sulla ribalta non c’era, nell’interno dello stipo non c’era, sul pavimento neppure. Marina s’irritò, frugò persino sotto lo stipo. Nulla. Cacciò ancora la mano nel vuoto che si apriva sotto il piano stesso della ribalta, fra due ordini di cassettini. Frugando là dentro si accorse di un piano, e, introdottovi l’indice, vi sentì l’anello. Non potendovi entrare con due dita, cercò levarnelo serrandolo tra il polpastrello dell’indice e il legno. Con sua meraviglia non le riuscì: l’anello pareva preso e trattenuto da un uncino. Mentre Marina faceva ogni sforzo di vincere questa resistenza, s’udì lo scatto di una molla; il piano, dove posava la mano di Marina cadde di alcuni centimetri, l’anello vi ruzzolò su. Marina, sorpresa, ritirò la mano in fretta; poi, rifrugando trovò che, in fondo, la mano entrava più addentro di prima e che v’erano in quell’ultima cavità degli oggetti.

Ne li trasse ad uno ad uno. Erano un libro di preghiere, uno specchietto piccolissimo con la cornice d’argento, una ciocca di capelli biondi legata con un brandello di seta nera, e un guanto.

Marina, attonita, faceva passare e ripassare ciascun oggetto sotto la fiammella di una candela. I capelli erano finissimi; parevano d’un bambino. Il guanto, a un bottone solo, era piccolo, stretto, allungato; aveva l’atto di una cosa viva: conteneva ancora, per così dire, lo spirito della mano delicata che l’aveva portato un giorno. A chi erano appartenuti quegli oggetti? Quale amore, quale occulto disegno li aveva nascosti là dentro? Marina frugò da capo nella cavità misteriosa, sperando trovare uno scritto, ma senza frutto. Riprese ad esaminare gli oggetti. Le pareva che ciascuno d’essi si struggesse di parlare, di gridare: intendi! Finalmente, voltando e rivoltando per ogni verso lo specchietto, s’avvide di qualche segno tracciato a punta di diamante sul vetro. Erano lettere e cifre segnate da una mano incerta. Con paziente attenzione Marina arrivò a leggere la seguente laconica scritta:


«Io — 2 maggio 1802.»


Parve a Marina che una luce lontana e fioca sorgesse nell’anima sua. 1802! Non viveva in quel tempo al palazzo la infelice prigioniera, la pazza della leggenda? Forse era lei. Quel guanto, quei capelli erano reliquie sue.

Ma nascoste da chi?

Marina, quasi senza sapere che si facesse, afferrò il libro di preghiere e ne sfogliò le pagine.

Ne cade un foglio ripiegato, tutto, tutto coperto di caratteri giallognoli, sbiaditissimi. Ella lo apre e vi legge:


«2 maggio 1802.»


«per ricordarmi»


«Ch’io mi ricordi, nel nome di Dio! Altrimenti perchè rinascere? Ho pregato la Vergine e Santa Cecilia di rivelarmi il nome che mi sarà imposto allora. Non vollero. Ebbene, qualunque sia il tuo nome, tu che hai ritrovato e leggi queste parole, conosci in te l’anima mia infelice. Avanti di nascere hai sofferto tanto tanto (questa parola era ripetuta dieci volte in caratteri assai grandi) col nome di Cecilia.

«Ricordati! Maria Cecilia Varrega di Camogli, infelice moglie del conte Emanuele d’Ormengo.

«Ricordati la sera del 10 gennaio 1797 a Genova in casa Brignole: ricordati il viso bianco, il neo sulla guancia destra della santa zia, suor Pellegrina Concetta.

«Ricordati il nome Renato, l’uniforme rosso e azzurro, gli spallini e i ricami d’oro al collo e la rosa bianca del ballo Doria.

«Ricordati il carrozzone nero, la neve e la donna di Busalla che mi ha promesso di pregare per me.

«Ricordati la visione avuta in questa camera, due ore dopo mezzanotte, le parole di fuoco sfolgoranti sulla parete, parole di una lingua ignota e tuttavia chiarissime in quel punto alla mia intelligenza che vi intese il conforto e la promessa divina. Mi è impossibile trascrivere quei segni, non ne ricordo che il senso. Dicevano che rinascerei, che vivrei ancora qui, amerei Renato e sarei riamata da lui; dicevano un’altra cosa buia, incomprensibile, indecifrabile; forse il nome che egli porterà allora.

«Vorrei scrivere la mia vita intera, non ne ho la forza; bastino quei cenni.

«Cambiati nome! Che io torni a essere Cecilia. Ch’egli ami Cecilia!

«Questo stipo era di mia madre; nessuno conosce il segreto. Vi pongo lo specchietto a cornice d’argento che la mamma ha avuto a Parigi da Cagliostro. Mi vi sono guardata a lungo, a lungo; lo specchietto ritiene la fisonomia dell’ultima persona che vi si è guardata. Vi ho incisa la data con la pietra del mio anello.

«Questi sono i miei capelli. Non li conosci? Pensa. Strana cosa parlare a te come se tu non fossi io stessa! Come son belli e fini i miei capelli! Vanno sotterra senza un bacio d’amore, senza una carezza. Come son biondi! Vanno sotterra.

«Anche tu, piccola mano mia! Metto coi capelli un guanto per ricordarmi di te, piccola mano. Nota che il pollice del guanto mi è corto. Chi sa se avrò una manina così bella, così morbida? La bacio. Addio!!

«Ho pochi giorni a vivere. È la sera del 2 maggio 1802. Non so l’ora, non ho orologio.

«Le finestre sono aperte. Ecco le mie sensazioni: un’aria tepida, un odor di bosco, un cielo verdognolo, così soave! E queste voci sul lago e queste campane e queste lagrime mie calde, possibile non le ricordi?

«Anima mia, imprimi bene in te stessa questo. Il conte Emanuele d’Ormengo e sua madre sono i miei assassini. Ogni pietra di questa casa mi odia. Nessuno ha pietà! Per un fiore, per un sorriso, per una calunnia! Oh, ma adesso no! Adesso con la volontà, col desiderio immenso, son tutta sua, tutta!

«Son cinque anni e quattro mesi che son qui, che essi non parlano a me e che io non parlo ad essi. Quando mi porteranno in chiesa ci verranno anche loro, forse. Saranno vestiti a lutto, mostreranno alla gente un viso triste e risponderanno ai preti: lux perpetua luceat ei. Allora, allora vorrei rizzarmi sul cataletto e parlare!

«Madre mia, padre mio, è vero che siete morti, che non potete difendermi? Ah, d’Ormengo, vili, vili, vili! Almeno non soffrono.

«Debbo arrestarmi un momento. I miei pensieri non mi obbediscono, si muovono tutti in una volta, si aggruppano qui in mezzo alla fronte, vi fanno una smania che non ha sollievo.

«Addio, sole: a rivederci.

«Porta nera, porta nera, non aprirti ancora!

«Calma. Alcune regole per quel giorno.

«Quando nella seconda vita avrò ritrovato e letto il presente manoscritto, m’inginocchierò immediatamente a ringraziar Dio; quindi, paragonati i miei capelli d’adesso a quelli d’allora, provato il guanto e, guardata la immagine nello specchio, spezzerò a quest’ultimo il vetro che dev’essere rinnovato per poter servire un’altra volta, e riporrò tutto nel segreto. Poi converrà premere sull’uncino per far tornar su il piano orizzontale.

«Aver fede cieca nella divina promessa: lasciar fare a Dio.

«Sieno figli, sieno nipoti, sieno parenti, la vendetta sarà buona per tutti. Qui aspettarla, qui.

«Cecilia».


Marina lesse avidamente e non intese.

Rilesse. Al passo: «Tu che hai ritrovato e leggi queste parole, conosci in te l’anima mia infelice», si fermò. Prima non le aveva notate.

L’occhio suo si fermò su quelle parole, e le mani, che tenevano il foglio, tremarono. Ma per poco. Ella proseguì a leggere e le bianche mani tremanti parvero pietrificate.

Giunta alle parole «m’inginocchierò immediatamente a ringraziar Dio» chiuse il manoscritto tenendovi dentro l’indice della mano destra e rimase immobile in piedi, con la testa china sul petto.

Riaperse il manoscritto, lo rilesse per la terza volta. Poi lo depose e riprese la ciocca di capelli. Le sue mani si movevano lentamente, non avevan più nulla di nervoso. La fisonomia era marmorea: non v’erano scritte nè incredulità, nè fede, nè pietà, nè paura, nè meraviglia.

Un passo pesante nel corridoio. Marina si trasformò. I suoi occhi scintillarono, il sangue le corse al viso; chiuse con impeto la ribalta dello stipo e si slanciò alla porta.

Era Fanny, che aveva un passo da corazziere.

— Vattene — disse Marina.

— Ah, Signore, che furia, cos’è accaduto?

— Nulla, non ho bisogno di te stasera, vattene a letto — ripetè Marina più ricomposta nella voce e nel viso. Fanny se ne andò.

Marina stette in ascolto de’ suoi passi finchè la udì scendere le scale. Allora tornò allo stipo.

Esitò a riaprirlo, ne considerò i geroglifici, le figure enigmatiche d’avorio intarsiato nell’ebano, che avevano in quel momento per lei la espressione funebre di spettri saliti a galla in una corrente nera infernale. Si decise e riabbassò la ribalta.

Trasalì; lo stipo era stato chiuso in furia e lo specchietto era andato in pezzi secondo la volontà di Cecilia. Rilesse l’ultima pagina del manoscritto, si sciolse i capelli, ne tolse in mano una treccia e l’accostò alla ciocca di Cecilia; i vivi e i morti non si rassomigliavano affatto.

Prese il guanto. Come n’era fredda la pelle! Metteva i brividi. No, neppure il guanto andava bene: era troppo piccolo.

Marina ripose nel segreto il manoscritto, il libro, il guanto, i capelli, la cornice con i pezzi dello specchietto e premette forte sull’uncino. La molla scattò, il piano risalì a posto. Ciò fatto, cadde ginocchioni, appoggiò le braccia sulla ribalta dello stipo e si nascose il viso. La candela che ardeva sopra di lei e le illuminava di riflessi dorati le onde diffuse dei capelli, parve allora la sola cosa viva nella camera. La fiamma aveva delle strane inquietudini, dei sussulti, degli slanci e dei languori inesplicabili; si veniva lentamente abbassando come se fosse ansiosa di calare all’orecchio di Marina e sussurrarle: «Che hai?» Ma neppure se lo spirito di luce avesse parlato così al piccolo orecchio di rose, si sarebbe udita risposta. Quella figura inginocchiata non aveva più sensi nè voce. Il cuore le batteva appena: il sangue stesso, forse, era quasi fermo. La sua forte intelligenza e la sua volontà, chiuse nel cervello, fatto intorno a sè un gran silenzio, combattevano il fantasma uscito davanti alla graziosa persona col truce proposito d’infiltrarlesi nel sangue, di avvinghiarlesi alle ossa, di suggerle la vita e l’anima per mettersi al loro posto. In altri momenti lo scetticismo che Marina teneva dall’uso del mondo non l’avrebbe nemmeno lasciata accostare da qualsiasi fantasma; ma quel sottile velo di scetticismo che copriva sempre il pensiero in tempo di calma come una crittogama di acque stagnanti, si era squarciato e disperso nell’incomprensibile turbamento di spirito che l’aveva assalita tornando al Palazzo.

La sua prima impressione nell’afferrare la strana idea suggerita nel manoscritto era stata di sgomento.

L’aveva vinta subito con un atto di volontà, con il proposito di esaminar freddamente, d’intender ogni parola. Raccoltasi poi nella meditazione intensa di quanto aveva letto, udì una imperiosa voce interiore che le disse:

— No, non è vero.

E subito dopo diffidò di questa voce stessa che non parlava più. Ella non poteva aver valore che per essere la conclusione di efficaci argomenti attraverso i quali fosse passato il suo pensiero con la rapidità del fulmine. Bisognava far tornare indietro, fargli rifare, passo passo, la via.

Quella donna non era sana di mente. Lo diceva la tradizione, lo confessava lei stessa, lo significava la concitazione, il disordine febbrile delle sue idee, quand’anche il concetto sostanziale dello scritto non bastasse per sè a dimostrarlo. Questo concetto di una seconda esistenza terrena aveva essa almeno qualche cosa di originale che potesse far sospettare un’ispirazione superiore, far prendere sul serio le visioni di Cecilia? No, era una ipotesi antica come il mondo, notissima, che l’infelice poteva assai facilmente avere udita o letta, che aveva trovato, al dì del dolore, nella propria memoria. Allora essa l’avea afferrata, ne aveva tratto il suo ristoro, ne aveva vissuto: l’idea era diventata, a questo modo, sangue del suo sangue. Visioni? Le pareti avevano risposto alla povera demente ciò che ella chiedeva loro con la più grande energia di volontà e di immaginazione. Avean risposto con fuoco, sì. Con chiarezza? No. Che significavano i capelli, il guanto, lo specchio? perchè far paragonare la mano, i capelli morti con la mano e i capelli vivi? Sperava costei di rinascere o di risorgere?

Lo scritto era dunque un frutto del delirio. Solo qualche ricordo della vita anteriore che si destasse ora nell’animo di lei, Marina, potrebbe dimostrare l’opposto.

Apriti, anima! Ella interrogò sè stessa sui ricordi accennati nel manoscritto come chi si curva sopra un pozzo buio e profondo e chiama e sta in ascolto se qualche voce, se qualche eco risponda.

Camogli? Nessuna eco, nessuna memoria. Genova? Silenzio. Suor Pellegrina Concetta, Renato? Silenzio. Palazzo Doria, palazzo Brignole, Busalla, Oleggio? Silenzio, sempre silenzio. Così talvolta, ad alta notte, in qualche sala d’aspetto ingombra di gente e male illuminata da un fumoso lume a petrolio, si grida una sequela di nomi di paesi e di città lontane; nessuno si move, nessuno risponde. Aspettano un altro treno. Ma chi sa se vi hanno viaggiatori per quella linea che non hanno udito perchè dormono nei loro mantelli, laggiù all’altro capo della sala, seduti dietro la gente ritta?

— È una pazzia — disse Marina, — e io che mi stillo il cervello a questo modo sono ridicola! Ridicola! — ripetè ad alta voce e balzò in piedi.

La parola uscita dalle labbra le parve più aspra della parola stessa concepita nel pensiero. Più aspra, non solo; anche eccessiva e falsa. Ne rimase ferita come se non l’avesse pronunciata lei. In pari tempo le entrò prima nel cuore, poi per tutte le membra una agitazione sorda, un’alternativa di stanchezza e d’impaziente ardore, una cupa resistenza alla volontà.

Meraviglioso il caso che l’aveva portata, nel fiore della gioventù e della bellezza, da Parigi, a quella stanza disabitata da settant’anni! Meraviglioso il caso che aveva appiccato l’anello all’uncino del segreto, sì che ella potesse leggere: «Tu che hai ritrovato e leggi queste parole, conosci in te l’anima mia infelice!»

Delirio! Ma dove era una traccia di vaniloquio in quello scritto? Concitazione sì, disordine sì, ma una prigionia di cinque anni, un concetto così straordinario nella mente! Concetto antico! Ma non sarebbe questa una ragione di credere? Marina tremò, le parve sentirsi chiamare, pregare da tante anime ignote che avevano avuta questa fede, le parve seguire un momento il loro slancio. E il sangue le correva sempre più tempestoso, la intelligenza, la volontà venivano mancando.

Non ricordava Camogli nè Genova, Renato nè Pellegrina Concetta, non un giorno della esistenza precedente, non un’ora; ma quanti istanti! Quante volte non le era balenata la ricordanza di istanti perduti fra le tenebre d’un passato ignoto! Quella sera stessa, le campane! Le corse un ghiaccio nel sangue, un’oppressione indicibile la strinse la gola. Ebbe allora lo sgomento di affogare, l’istinto di salvarsi. Abbracciò quest’idea che non poteva esser lei Cecilia, perchè c’era del sangue d’Ormengo nelle sue vene; ma il cuore implacabile disse — no, che importa il sangue? Tu odii, hai sempre odiato tuo zio, la vendetta è più squisita così; Dio, perchè tu la compia meglio, ti ha posto dentro, irriconoscibile, alla famiglia del nemico.

Ma ella adesso aveva paura, voleva sottrarsi alla lotta; diè di piglio al lume e passò nella camera da letto. Le finestre erano aperte; un soffio di vento le spense la candela. Volle riaccenderla, ma non sapeva che si facesse, e non vi riuscì. Si gittò spossata alla finestra per aver ristoro. Colà le tornò subito a mente come, la sera del suo arrivo al Palazzo, guardando da quella finestra, nella notte, avesse creduto riconoscere un antico sogno, una immagine sinistra, apparsale altre volte nelle ore gaie della sua vita mondana. Fu l’ultimo colpo; una commozione senza nome le oscurò il pensiero e la vista, credette udire mille sussurri levarsi intorno a lei, mescolarsi per l’aria, confondersi in una voce sola; si portò ambe le mani alla fronte e cadde a terra.

Nell’oscuro lume delle stelle diffuso sul pavimento davanti alla finestra, giaceva la bianca persona come sciolta dal sonno. Chi avrebbe detto che vi fosse là una donna svenuta? Nel palazzo tutti dormivano; i grilli e gli usignoli cantavano allegramente; i soffi brevi e vivaci della chiara notte di aprile entravano curiosi per le finestre aperte, frugavano, bisbigliavano dappertutto; e da una barca lontana indugiatasi più delle altre sul lago veniva il canto spensierato:


E cossa l’è sta Merica?
L’è un mazzolin di fiori
Cattato alla mattina
Par darlo alla Mariettina
Che siamo di bandonar.

Solo lo zampillo del cortile raccontava in aria di mistero agli arum una storia lunga lunga ch’era ascoltata con religioso silenzio. In tutto il cortile non si moveva fronda. Era forse la storia della donna svenuta là presso, ma non riusciva possibile a orecchio umano intenderne sillaba, nè sapere, perciò, se la donna vi fosse chiamata Marina di Malombra o Cecilia Varrega.

Conseguenza di quella notte fu per Marina una violenta febbre cerebrale di cui nessuno potè indovinare la causa. È quasi impossibile che l’inferma non si sia fatta sfuggire durante il delirio qualche allusione al fatto straordinario onde avea riportato impressioni sì gravi; ma quelle allusioni dovettero essere assai rade e vaghe, perchè non fecero sospettare di nulla. La volontà gagliarda di Marina, benchè sconnessa e rotta dal male, lavorava ancora per un impulso ricevuto prima. Essa voleva tacere. La presenza del conte Cesare era il più terribile cimento per lei. Quando vedeva il conte, e anche solo all’udirne i passi pel corridoio vicino, l’ammalata diventava furibonda, urlava, smaniava senza articolar parola; per modo che, dopo i primi giorni di malattia, le visite dello zio cessarono. Questa ripugnanza fu molto commentata dai domestici e dalle comari pettegole di R... Si fabbricarono parecchie novelle assurde. La interpretazione più creduta fu che il conte voleva sposare Marina, contro la inclinazione di lei, e che la ragazza n’era impazzita. Il chiarissimo professore B..., chiamato in aiuto del povero «pittòr» che non sapeva più in qual mondo si fosse, credette di dover tastare il conte su questo delicato argomento dell’antipatia violenta che l’ammalata gli dimostrava, e lo fece con moltissimo garbo, mettendo avanti l’interesse medico della questione. La risposta del conte non fu altrettanto diplomatica.

— Mia nipote — diss’egli — mi deve forse qualche beneficio; non però tanto grande da odiarmi per questo. Ella è una giovane molto intelligente e io sono un vecchio quasi rimbambito; ho motivo di credere, che siamo, in molte cose, agli antipodi; malgrado tutto questo non mi è mai passato pel capo di sposarla, come probabilmente vi avrà detto il nostro medico, il quale beve come una spugna tutto quello ch’è stupido: e non lo fa apposta. Tornando a mia nipote, le nostre prime impressioni reciproche furono disgustose più del necessario; però ci abbiamo versato su molto zucchero, e, per parte mia, non sentivo più quel sapore. Del resto io credo, caro Professore, che quando uno ha messo il suo cervello a rovescio, se dice nero, bisogna intender bianco.

La scienza del prof. B..., aiuta tadall’umile aiutata dall'umile ignoranza del suo collega, vinse il male. Dopo un mese e mezzo Marina comparve in loggia. Era pallida, aveva gli occhi assai più grandi del solito e velati da un languore attonito. Si sarebbe detto che il vento dovesse curvarla come un sottile getto d' acqua. Il vigore e la bellezza tornarono rapidamente, ma un osservatore attento avrebbe notato che l’espressione di quella fisonomia era mutata. Tutte le linee apparivano più decise: l’occhio aveva tratto tratto degli stupori insoliti, oppure un fuoco triste che non gli si era mai veduto. Quel velo di dissimulazione, in cui Marina si era venuta avvolgendo, scomparve. La memoria delle sue piccole ipocrisie d’una volta la irritava. La sua eleganza, prima correttissima, per non offendere l’austero zio e per accordarsi con l’ambiente, pigliò un accento strano, provocatore. Candidi stormi di biglietti stemmati, cifrati e profumati si incrocicchiarono daccapo nel regio antro postale di R... Uno stillicidio di drammi e di romanzi francesi si avviò dalla libreria Dumolard al Palazzo. Il piano gittò a tutte le ore, fosse o no il conte in biblioteca, un fuoco vivo di Bellini, di Verdi e di Meyerbeer e Mozart: erano i soli due maestri cui Marina perdonava di esser tedeschi; al primo in grazia della sua cittadinanza francese, al secondo in grazia del solo Don Giovanni.

Ricominciarono le corse sfrenate pel lago, e pei monti, malgrado venti e piogge, di giorno e di notte; corse nelle quali il Rico faceva con entusiasmo la parte di guida, di cavaliere devoto e di cane fedele. Inoltre, con grande stupore degli abitanti di R..., Marina si pose a frequentare la chiesa, dove in passato non aveva mai posto piede. Per vero dire, questo suo risveglio di pietà era assai bizzarro, perchè alla messa festiva non la si vedeva mai comparire. Andava in chiesa quando non c’era nessuno, talvolta di mattina, talvolta di sera. Un giorno che la trovò chiusa andò risolutamente dal curato a cercar la chiave. La serva del curato ebbe a rimaner di stucco aprendo l’uscio alla «Signora del Palazzo», e più ancora udendosene chiedere la chiave della chiesa.

Il suo primo istinto fu di chiuderle la porta in faccia, non che il rifiutare la chiave; ma le labbra osarono solo dire che ne avrebbe riferito al padrone, al quale corse subito raccomandandogli di trovare un pretesto per non dar la chiave a quella strega. Il padrone la rimproverò aspramente e andò egli stesso ad aprir la chiesa a Marina, che aveva già conosciuta in qualcuna delle sue rade visite al Palazzo.

Non è difficile immaginare come procedessero, in tale stato di cose, le relazioni fra zio e nipote. Essi potevano paragonarsi a due punte metalliche fortemente elettrizzate, che non s’accostano mai l’una all’altra senza scambiare scintille che vorrebbero essere folgori. A viaggiare Marina non ci pensava più. Durante la sua convalescenza il medico gliene aveva parlato, facendole presentire, per incarico avutone, l’assenso del conte. Ella rispose che non intendeva affatto muoversi dal Palazzo, che l’aria le faceva benissimo e che il signor dottore non ne capiva niente.

Ella e il conte non si vedevano, si può dire, che a pranzo, ma si combattevano sempre. Persino le suppellettili del palazzo erano penetrate di quella sorda inimicizia e parevano pigliar parte quando per l’uno quando per l’altra. Certe finestre, certi usci si pronunciavano due o tre volte al giorno. Marina li faceva aprire, il conte li faceva chiudere. Un povero vecchio seggiolone del corridoio dei paesaggi vi perdette il suo decoro e la sua quiete. Quasi ogni giorno un decreto lo traslocava in faccia a un grande Canaletto, e un altro decreto lo ricacciava al posto di prima. Fanny, nell’esercizio delle sue funzioni, portava sempre alto il nome e i voleri della sua «signora» ; gli altri domestici accampavano quelli del padrone; la buona Giovanna cercava di metter pace, ma non riusciva spesso che a guadagnarsi qualche impertinenza di Fanny, e se ne struggeva in silenzio. Il conte abborriva i profumi, per cui Marina ne usava un po’ più che non permetta il buon gusto. Libri francesi dimenticati qua e là per la casa ridevano in viso al vecchio gallofobo che ne fremeva sino al vertice de’ capelli. I fiori più belli del giardino sparivano appena sbocciati, malgrado il tempestare del conte contro il poco vigile giardiniere e contro Fanny a cui gli piaceva attribuire quei guasti. Con lei, naturalmente, non si imponeva ritegni, per poco un giorno non la gittò nel lago. Fu una fortuna per Fanny, perchè il conte, pentito di quell’eccesso, non mandò ad effetto il suo proposito di farla inesorabilmente cacciare. Però i rabbuffi spesseggiavano sempre e violenti, molte volte più del ragionevole, perchè miravano a passar lei da banda a banda e cogliere Marina.

A fronte di questa, il conte, di solito, si frenava, fosse per la memoria di sua sorella che aveva molto amata, o per un sentimento cavalleresco, o per timore di uscire da’ giusti limiti. Il nuovo contegno della giovane aveva provocato sulle prime recisi rimproveri fatti da lui con un tono tra il grave e l’acerbo, ribattuti da lei con freddezza nervosa, piena di recondita emozione. Il conte si ritrasse tosto da quella via pericolosa e si appigliò al sistema del silenzio accigliato; silenzio carico di elettricità, interrotta soltanto, come si è già detto, da fugaci scintille, da lampi di sdegno per parte dell'uno, da lampi d'ironia per parte dell'altra. Qualche volta scoppiavano dei mezzi temporali che lasciavano il tempo scuro di prima. Il povero Steinegge non godeva punto fra questi due litiganti; Marina trovava modo di offenderlo a ogni momento. — Signor conte — diss’egli un giorno al conte Cesare — so che ho la disgrazia di dispiacere molto alla signora marchesina. È forse la mia vecchia fisonomia che io non posso cambiare. Se la mia presenza può aumentare i vostri piccoli differenti di famiglia, ditemelo! Io vado. — Il conte gli rispose che, per ora, in casa sua ci comandava lui; che se il principe di Metternich offrisse al signor Steinegge il posto di direttore delle sue cantine di Johannisberg, si permetterebbe al detto Steinegge di partire; altrimenti, no.

Circa un anno dopo la scoperta del segreto, Marina ebbe dal libraio Dumolard, insieme a quattro o cinque novità francesi, un libro italiano. Era un racconto stampato dalla tipografia V... — Portava per titolo: Un sogno, racconto originale italiano di Lorenzo. — Possiamo aggiungere che la copia spedita a Marina e trattenuta da lei per noncuranza, era la trentesima spacciata in due mesi dalla pubblicazione.

Marina non aveva punto stima de’ libri italiani e pochissima voglia di legger questo. Se lo lesse fu per una storditaggine di Fanny che glielo portò una mattina a bordo di Saetta invece dell’Homme de neige. Giunta nella sua rada prediletta della Malombra, si accorse dell’errore, e dopo la prima dispettosa sorpresa, si rassegnò a tentar di leggere.

Il soggetto del libro è questo: — Un giovinotto spossato ed esaltato da soverchie fatiche cerebrali, ha un sogno di straordinaria vivezza nel quale egli crede vedere rappresentato sotto forme allegoriche il proprio avvenire. I fatti, interpretati da lui secondo questa convinzione, vengono confermando la prima parte del sogno. Passano quindici anni. Tutta la prima parte del sogno, serena e lieta, si è avverata. Ora è la seconda parte, di cui si aspetta il compimento. Questa seconda parte predice un amore impetuoso, violento, un delirio dello spirito e dei sensi onde il protagonista dev’essere tratto a catastrofi spaventose. A trentasei anni, costui, padre di famiglia, uomo grave che vive ritirato dal mondo per la segreta paura del sogno, si trova con grande angoscia preso d’amore per una donna cui fu avvicinato da necessità ineluttabili. Questa donna è per altezza d’animo un ideale più facile a trovarsi oggidì nella vita che nei romanzi. Essa divide la passione di lui malgrado sforzi eroici di volontà. Lottano ambedue per dividersi, per salvarsi; ma il cielo, la terra e gli uomini cospirano per farli cadere. Sull’orlo dell’abisso in cui troveranno la sventura, il disonore e fors’anco la morte, sfugge all’uomo il segreto della fatalità misteriosa che lo perseguita e cui non vale a resistere. In quel momento supremo la donna magnanima si sdegna di cedere al destino e non al proprio cuore, non alla felicità dell’amante. Con lo sdegno la sua coscienza religiosa si rialza. Gli amanti si dividono innocenti. L’uomo a poco a poco dimentica, vive tranquillo e felice. La donna muore.

Il racconto è scritto con pochissima esperienza della società e delle cose, ma con qualche acume d’osservazione psicologica. Le descrizioni della natura sono tollerabili, l’elemento fantastico non vi è adoperato troppo male. Insomma, se non vi fosse tanto calore virtuoso, se non vi mancassero affatto gli studi fotografici di appartamenti e di vesti, non che le prove che l’autore conosce un poco anche il nudo, se lo stile fosse più facile e borghese, sovratutto se vi si dicesse bono e bona invece di quel buono e buona che bastano a rivelare un povero ingegno, un uomo vergognosamente sfornito di dottrina filologica e di gusto affatto indegno di comparire tra gli scrittori odierni, una testa da parrucca; se tutte queste condizioni si fossero avverate e se l’autore si fosse date le mani attorno, Un sogno avrebbe probabilmente trovato miglior fortuna.

A Marina parve andare a sangue, perchè quando l’aperse l’ombra violacea della montagna copriva gran tratto di lago oltre la rada; quando lo posò, il sole brillava per le vette dei boschi pendenti sopra il suo capo e l’ombra violacea moriva a pochi passi dalla sponda in un bel verde smeraldo.

Tornò al Palazzo con la mente piena di quel libro. Avrebbe voluto conoscerne l’autore, parlargli. Credeva egli in quello che aveva scritto? Credeva si potesse resistere al destino e vincerlo? Se il destino era stato vinto, poteva dirsi destino? Se non poteva dirsi destino, v’hanno dunque spiriti maligni che si pigliano giuoco di noi, rappresentandoci il falso colle apparenze del vero e rappresentandocelo in modo da colpire fortemente la nostra fantasia?

Nessuno rispondeva a tanta furia di domande e Marina voleva risposta. Non indugiò un momento. Senza neppur pensare a chi nè come avrebbe diretta la lettera, buttò giù d’un fiato otto fitte paginette di una calligrafia inglese alquanto irregolare, battezzata già da miss Sarah per anglo-indiana. Le otto paginette sfolgoravano di brio. Marina vi aveva preso un tono di maschera elegante che sa mescolare con garbo aristocratico le parole ironiche alle serie, e colorire la grazia con l’alterezza. Sottoscrisse «Cecilia» e, dopo un istante di incertezza, aggiunse il seguente poscritto:

« Vorrei pur sapere se credete possibile che un’anima umana abbia due o più esistenze terrestri. Se l’etereo autore di Un sogno non usa di colombe nè di rondinelle postali, come si potrebbe sospettare, mandi semplicemente la sua risposta al dottor R.., ferma in posta. Milano. »

Poi Marina scrisse quest’altro biglietto alla signora Giulia De Bella: «Aiutami a fare una piccola follìa ben timida e ben savia. Sono tutta meravigliata di aver letto, non so più bene se per amore o per forza, un romanzo italiano. Arriccia il tuo nasino ma ascolta. Questo romanzo è un buon signore timido con i guanti troppo scuri e la cravatta troppo chiara ch’entra impacciato nel tuo salon, saluta mezza dozzina di persone prima di te, oscilla un quarto d’ora tra una poltrona, una seggiola e uno sgabello, e si decide finalmente pel posto più lontano dalle signore. Ma poi, quando parla, non somiglia a nessun altro del tuo circolo. Ha delle idee, del fuoco, è un uomo. Ne hai, cara, degli uomini nel tuo circolo? Se ne hai, pardon.

«Non importa punto conoscere il nome nè la persona dell’autore che ci si dice semplicemente Lorenzo. Potrebb’essere borghese, Matteo e biondo. M’è venuto invece il capriccio di una corrispondenza letteraria e ne posso avere tanto pochi dei capricci, che li soddisfo tutti subito. Y che scrive a X! Deve essere delizioso, specialmente se X risponderà a Y. Potrebbe accadere che X fosse una consonante di spirito: questa divertirebbe assai la povera Y che si annoia come una regina. Ora X non ha nemmanco a sapere di dove gli piova la mia lettera; vedi se non è una follìa savia! Tu dunque, amica mia, farai gettare alla posta l’accluso dispaccio diretto all’autore di Un sogno presso la tipografia V... Ma, come pensi bene, non basta. Ti compiaceresti di far cercare fra qualche giorno alla posta se vi fossero lettere per il dottor R... e di spedirmele se ve ne sono? Gli ho dato, contando sopra te, questo indirizzo, il meno compromettente possibile. La cosa è tanto innocente che potresti desiderar di chiedere il permesso di tuo marito per farlo. In ogni caso taci il mio nome. Vi sarà poi qualche cosa per te. Ti manderò un pezzo di lago pel tuo giardino di via Bigli, per le manchettes della S... e per le mani illustri del professor G...

« I miei omaggi à ton très-haut seigneur et maître, se lo vedi.

« Addio, cara. Sto rileggendo un libro vecchio, l'Amour di Stendhal. È scritto au bistouri.

«Marina.»

La signora De Bella, che aveva fatto per curiosità qualche follìa meno savia di questa, rispose tra scherzosa e corrucciata, minacciò l’amica con la punta della sua morale di gomma e conchiuse accettando; con la riserva sottintesa di leggere le lettere prima di spedirle. Ell’era, sovratutto, una donna di coscienza.

La risposta dell’autore di Un sogno non si fece attendere lungamente. Egli vi sosteneva con maggior cuore che vigore logico le opinioni espresse nel suo romanzo intorno alla fatalità e alla potenza invincibile dello spirito umano che vuole. Dimostrava come, negli avvenimenti a cui deve necessariamente concorrere la volontà dell’uomo con atti che toccano la sua coscienza morale, questa volontà sia un elemento principale che ne determina la forma; un’incognita variabile che introdotta nei calcoli fondati su leggi naturali fisse ne rende sempre incerto il risultato. Negava poscia l’azione prestabilita e necessaria della volontà che assente al male. Posto in sodo come basti alla dimostrazione della libertà umana che l’uomo possa sempre decidersi per il bene, sosteneva che lo può. Diceva che può sempre attingere l’impulso determinante al bene dal fondo dell’anima sua stessa, da un punto di misterioso contatto con Dio ond’entra in lei una forza non calcolabile. È un gran torto, soggiungeva, della psicologia moderna di non avere sufficientemente osservato i fatti interiori che vengono in appoggio di tale contatto. Colà sta la grande guarentigia della libertà umana.

Quest’azione divina ch’entra dunque innegabilmente nell’origine delle azioni umane, non si oppone ella per sua natura al male morale, e non esclude, a priori, che sia mai necessario? Il mistico scrittore cercava poi dimostrare che neppure alla prescienza divina potrebbe appoggiarsi una teoria fatalista, perchè prescienza e divinità sono due termini contraddittori, inconciliabili, come tempo e infinito, e nulla se ne può dedurre.

Tutti questi argomenti erano posti innanzi con una ingenua foga che poteva salvare l’autore di Un sogno della taccia di pedante, ma generava il sospetto che egli volesse convincere, oltre alla sua corrispondente, se stesso.

Spiriti maligni che si pigliano giuoco di noi, proseguiva, ve ne hanno certo, e possono anche illudere con le apparenze della fatalità. Tutto fa credere che, come noi esercitiamo un potere sopra gli esseri che ci sono inferiori, così siamo soggetti, entro certi limiti, all’azione di altri esseri che ci superano in potenza. Siamo forse soliti attribuire al caso quello che è opera loro.

I sogni profetici, i presentimenti, le subitanee inspirazioni artistiche, le illuminazioni fugaci della nostra mente, i ciechi impulsi al bene e al male, certe inesplicabili allegrezze e malinconie, certi movimenti involontari della nostra memoria, sono probabilmente opere di spiriti superiori, parte buoni, parte malvagi.

Tali considerazioni, scriveva Lorenzo, cadono tutte se non si ammette Dio. Esprimeva quindi la speranza che Cecilia non fosse atea, nel qual caso avrebbe, a malincuore, troncato ogni corrispondenza con lei.

Veniva in seguito alla pluralità delle esistenze. Lo stato dello spirito nel corpo umano è indubbiamente, diceva, uno stato di repressione, uno stato di pena, la quale non può riferirsi che a colpe commesse prima della incarnazione terrestre. I dolori degli innocenti e, in genere, la distribuzione ineguale del dolore e del piacere tra gli uomini, senza riguardo ai meriti e ai demeriti della vita presente; la sorte delle anime che escono pure dalla vita dopo un’ora della loro venuta ottenendo quel premio che ad altri costa lunghi anni di lotte durissime, non possono meglio spiegarsi che con l’attribuire alla nostra esistenza attuale un carattere di espiazione insieme a quello di preparazione. Ammesso il principio della pluralità delle esistenze, l’autore di Un sogno diceva che la ragione umana non può andare più avanti, e che il problema se le nostre vite anteriori sieno state terrestri o siderali va lasciato alla fantasia.

La lunghissima lettera, un volume, finiva col voto molto poeticamente espresso che la corrispondenza misteriosa avrebbe continuato. La signora De Bella venne presto a capo, con le sue dita industriose, della busta, ma non resse a tanta filosofia e dalla prima pagina saltò alla chiusa: poi scrisse sulla sopraccarta: «Sono sicura ch’è perfettamente morale; è così pesante!»

Marina invece divorò lo scritto. Sorrise appena dell’ingenuità di quell’uomo che rispondeva con tanta foga a un’incognita. Palpitò leggendo il nome di Cecilia a capo della lettera e nella chiusa. Naturalissimo che ci fosse; ma pure n’ebbe una impressione profonda.

Passato qualche tempo, riscrisse dissimulando affatto le sue vere impressioni. Non parlava più in questa seconda lettera di fatalità nè di esistenze precedenti; come per trarre scintille di spirito dal suo corrispondente, se ne aveva, lo veniva pungendo in mille modi. Scherzava sulla pedanteria della sua risposta, sulla sua pietà, sulla goffaggine del suo pseudonimo: gli chiedeva con un tono di curiosità impertinente se vi fosse qualche cosa di vero nel suo racconto, se avesse pubblicati altri lavori, perchè si tenesse celato. La lettera fu ricevuta da Corrado Silla un quindici giorni prima della sua partenza per il Palazzo. Noi sappiamo come rispose.


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