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CAPITOLO I.
Notizie di Nassau.
Il 6 settembre grande aspettazione al Palazzo. I radi, timidi fili d’erba che bucavano la ghiaia bianca e rosea del cortile, eran tutti scomparsi. Una pompa nuova di vasi schierati vi ostentava fiori e fogliami signorili; parevano dignitari e dame in attesa di un corteo reale. Il popolo delle passiflore, dei gelsomini, delle altre piante arrampicate a’ muri, guardava dall’alto, con mille occhi.
Per ora il solo Steinegge, tutto azzimato, passeggiava gravemente tra questa curiosità rispettosa, fermandosi a guardar su per la scalinata se comparisse qualcheduno a parlare, attraverso le inferriate della cucina sepolta per metà nel suolo, con il «signor Paolo» che si vedeva passare e ripassare da un fornello all’altro dietro le sbarre come un orso bianco.
Guardò l’orologio. Erano le una e mezzo. Il conte aveva detto che sarebbe stato di ritorno dalla stazione, con i Salvador, presso a poco a quell’ora. Steinegge s’incamminò facendo un viso ossequioso su per la scalinata.
Ecco gente lassù. Ecco il gran cappello del conte che copre quasi anche il suo domestico. E la contessa Fosca? E il conte Nepo?
Nessuno era disceso dal treno di Milano. Il conte Cesare, arrabbiatissimo colla cugina, col cugino, con tutti i cugini screanzati dell’universo, trovò modo di tempestare col cuoco, fece disfare i letti apparecchiati, andò in bestia con Steinegge perchè gli era venuto incontro e con Marina perchè non era venuta. Durante le sue diatribe Saetta brillava al sole da lontano e non s’affrettava punto. Gli giovò di sfogarsi a questo modo. Mezz’ora dopo rianimò con una parola gentile lo sbalordito Steinegge e disdisse gli ordini dati ab irato a Giovanna. Con Marina le cose procedettero diversamente. Cinque giorni eran passati dopo la partenza improvvisa di Silla; il conte e sua nipote non avevano ancora scambiato parola. Egli era stato in procinto di partire per Milano; poi, mutato pensiero, forse per il prossimo arrivo dei Salvador, aveva scritto a Silla. Di questo arrivo s’era occupato moltissimo. Aveva persino fatto il miracolo di andare alla stazione. La Giovanna pensò che quei signori di Venezia dovevano essere qualche cosa più del re; e gli altri domestici dissero al giardiniere che poteva far a meno d’annaffiare, perchè sarebbe infallibilmente piovuto prima di sera.
Marina, nei primi quattro giorni dopo la partenza di Silla non si lasciò vedere, neppure a pranzo. Fanny disse al conte che la sua marchesina aveva l’emicrania; agli altri disse che era una luna tremenda, che non ci capiva niente e che a momenti anche lei non ne poteva più.
Quel giorno Marina uscì con Saetta e comparve poi a pranzo mentre il conte e Steinegge parlavano dell’opera di Gneist sul Self-government, di cui Steinegge stava facendo un sunto. Il conte seguitò a discorrere senza volger il capo nè gli occhi, come se il suo interlocutore non si fosse alzato in piedi e non avesse fatto un profondo inchino verso la porta. Solo quando, finito il pranzo, si alzò, egli le disse con insolita freddezza e tranquillità:
— Favorite di passare da me fra un’ora.
Marina disse con un leggero scatto d’ironia sulla prima sillaba:
— Favorirò.
Aspettò quasi un’ora e mezzo; poi mandò Fanny a vedere se il conte fosse in biblioteca. La risposta fu che ve l’aspettava da mezz’ora.
Ella entrò nella biblioteca a passo lento, con l’aria di chi pensa al mondo della luna, fece un largo giro verso la porta che mette nel giardino e venne a lasciarsi cadere sopra una sedia a bracciuoli, di fronte al nemico.
— Vi avverto prima di tutto — cominciò il conte — che coloro i quali mi fanno l’onore di abitare in casa mia, mi debbono di essere civili. Non è una pigione troppo forte e da oggi in poi me la pagherete, perchè io ho la debolezza di esigere, presto o tardi, i miei crediti. Se non conoscete le monete potrò darvi qualche piccola lezione.
Gli occhi di Marina scintillarono, le sue labbra si apersero.
— Non rispondete — tuonò il conte.
Ella balzò in piedi. Voleva ribellarsi, parlare, e non poteva. Forse troppe parole le facevan ressa alla gola; forse nel momento di prorompere temè tradire il segreto di cui sentiva confusamente che doveva riserbarsi per un giorno premeditato, per un’ora invariabile, prefissa dalla sua volontà e dal destino.
— Non rispondete — ripetè il conte. — Voi odiate me e la mia casa, ma non vi tornerebbe comodo, io credo, essere pregata di partire subito. Non rispondete.
Marina ricadde a sedere in silenzio.
— Non potete supporre che io ignori l’oltraggio fatto da voi al mio amico Silla, il quale è andato via per causa vostra, e non potete supporre che, conoscendolo, io vi sia rimasto indifferente. Non so se la parola umana possa esprimere tutto quello che il vostro atto m’ispira. Bene, io non ricercherò i motivi molto oscuri della condotta che voi tenete. Certo non conviene nè a voi nè a me di convivere a lungo. V’è una frase enormemente stupida: i legami del sangue. Io non credo che il vostro sangue abbia due globuli simili ai miei. Ad ogni modo, non è indispensabile appiccarsi con questi legami. Meglio tagliarli. Oggi non vi siete curata di trovarvi a casa quando dovevano arrivare i miei cugini Salvador. Vi avverto che mio cugino ha un gran nome, una bella sostanza e pensa a prender moglie.
— Ah! — disse Marina e sorrise guardandosi la piccola mano bianca che tormentava il braccio della poltrona.
— Non fate esclamazioni drammatiche. Non andate a pensare che vi si vogliano far violenze. Io non so se il colore dei vostri occhi piacerà a mio cugino e non posso neanche sapere se la sua voce vi toccherà il cuore. È utile, io credo, nel vostro caso conoscere le disposizioni di mio cugino. Potete approfittarne o no, come vi piacerà meglio.
— Grazie. E se il signor cugino non mi va, quando debbo partire?
Marina aveva parlato pian piano, guardandosi gli anelli, a mano spiegata, l’uno dopo l’altro; poi serrò il pugno, se l’accostò al viso, quasi per numerarvi le vene azzurrognole; lo lasciò finalmente cadere e alzò sul conte due grandi occhi ingenui.
— Ma — disse il conte — quando debbo! Mi pare siate in fatto voi, col vostro contegno, che mostrate desiderio di andar via. Sarebbe forse più leale e più sincero dire: Quando posso? — .
— No, lo posso sempre. Sono maggiorenne e possiedo abbastanza per mantenere me e una vecchia dama di compagnia che mi lasci sola. Quando debbo? Io non desidero andar via.
Il conte la guardò attonito. Quei grand’occhi limpidi non dicevano nulla, proprio nulla. Aspettavano una risposta.
— Non desiderate andar via? Desiderate dunque che me ne vada io? Eh? Quello vi farebbe comodo? Ma per Dio santo, parlate chiaro. Se non desiderate andar via, che diavolo desiderate? Perchè vi comportate con me come se io fossi un carceriere? Che vi ho fatto io?
— Lei? Niente.
— Chi dunque? Steinegge? Che vi ha fatto Steinegge?
— Paura.
— Come, paura?
— È tanto brutto!
Il conte si rizzò sul suo seggiolone e, impugnandone con violenza i bracciuoli, porse verso sua nipote la fronte corrugata e gli occhi fiammeggianti.
— Oh — diss’egli — se credete farvi gioco di me, la sbagliate: se avete voglia di scherzare, scegliete male il vostro momento. Quando ho la compiacenza di domandarvi cosa vi offende in casa mia, non bisogna mica rispondermi come una cingallegra parigina; bisogna parlare sul serio!
— A che serve se Ella ha risoluto che io parta?
— Chi ha detto questo? Io ho detto che non siamo fatti per vivere assieme e vi ho indicato una possibile occasione di mutar soggiorno e compagnia. E prima di tutto ho dichiarato che dovrete in avvenire essere civile con me e con i miei ospiti onde non costringermi a un pronto provvedimento.
Marina non aveva ancora risposto, quando entrò la Giovanna, tutta commossa.
— Signor padrone, quei signori sono qui!
— Diavolo — esclamò il conte alzandosi, e uscì in fretta.
Marina andò a gittarsi sul seggiolone rimasto vuoto, vi si dondolò con le braccia incrociate, il capo appoggiato alla spalliera, le gambe accavalciate e la punta brillante d’uno stivalettino nero slanciata in aria come una sfida.
Si udivano parecchie voci al piano terreno, o meglio una voce sola, a getto continuo, sonora, colorita, con accompagnamento di altre voci note e ignote, di risa brevi, rispettose.
— Oh che viaggio; — diceva quella voce — oh che paesi, oh che gente! — Hai la mia borsa, Momolo? Vi racconterò, creature. Chi sei tu, bellezza? La sua cameriera? Brava, cara. E dov’è questo benedetto Cesare? Sta sulle tegole a quest’ora? Dimmi, tesoro, cos’hai nome? Fanny? Senti, Fanny, quel palo bianco là è un frate o un cuoco? Ma che ci prepari un brodo, benedetto da Dio. Nepo, sei languido, fio? Oh Dio, Cesare, che vecchio, che brutto!
Con quest’ultime parole gridate nelle palme delle mani di cui s’era coperta il viso, la contessa Fosca Salvador salutò il conte Cesare che le veniva incontro frettoloso con una faccia che voleva e non poteva essere allegra. Peggio fu quando la contessa volle fargli un bacio e lo affogò in un diluvio di chiacchiere. Egli ne perdette quasi la testa. Continuava a rispondere sì sì sì col suo vocione più grosso, stringeva la mano a Nepo e stava per fare lo stesso col vecchio domestico della contessa, malgrado i suoi grandi inchini e il suo ripetere: — Eccellenza, Eccellenza.
— Ciò — gridò la contessa — sta a vedere che mi bacia Momolo. C’è di meglio se volete baciare; ma voi già siete un orso.
Il conte Cesare stava sulle brage. Avrebbe volentieri mandato al diavolo tutta la compagnia. I discorsi della contessa gli mettevano rabbia. Momolo e le due donne che stavano silenziosi dietro Sua Eccellenza ebbero pure da lui uno sguardo poco benevolo. Se avesse poi veduto nel cortile, tra le macchie di fiori, la nuova macchia nera di bauli, casse e borse accatastate!
— È una invasione, caro conte, una invasione — ripeteva Nepo girando per il vestibolo quasi a tentoni perchè ci si vedeva poco, e frugandone ogni angolo col naso per trovar posto al suo bastone, al soprabito, al cappello.
— L’ho proprio detto alla mamma ch’era un abusare...
— Sì, me l’ha detto e io gli ho risposto: abusiamo, benedetto. Cosa sarà? Mio cugino non ha egli un cuor di Cesare? Oh se avessi mai saputo che bisognava fare questo dio di strada, vi dico in fede, non avrei abusato. Caro il mio caro pampano, non dite niente che si doveva venir stamattina? Non sapete?
— Sì, sì, mi racconterete quello — disse il conte che non ne poteva più. — Intanto venite di sopra. — Vengo, anima mia, se posso. Vi raccomando il mio Momolo e la mia Catte. Son vecchietti, povere creature, credo che saranno mezzi morti. Tiratemeli su. A proposito, Catte, dov’è quella ragazza? Non ha veduto, signor orso, che cocola le ho condotto?
Non era dunque una seconda cameriera la giovinetta vestita di nero che stava dietro la vecchia Catte? No, ell’aspettava che la prima tempesta dell’incontro si chetasse. Si fece avanti e disse al conte Cesare parlando in buon italiano, ma con un forte accento straniero:
— La prego, signore, di volermi dire se il signor capitano Andrea Steinegge abita qui.
Era una voce melodiosa, dolce e ferma ad un punto. — Sicuramente, signorina — rispose il conte, meravigliato. — Il mio buon amico Steinegge sta qui. Egli non usa veramente di farsi chiamare capitano, ma...
— Era capitano, signore. Capitano austriaco, agli usseri di Liechtenstein.
— Oh, non ne dubito, signorina. Credo anzi che una volta il signor Steinegge mi ha raccontato quello. E Lei desidera vederlo?
La voce ferma della giovinetta parve mancare. Si udì appena un bisbiglio.
— Eh? — ripetè il conte con accento benevolo.
— Sì, signore.
— Ora è fuori, ma verrà presto. La prego di salire ad aspettarlo.
— Grazie, signore. Rientrerà egli da questa parte?
— Da questa parte.
— Allora se permette, resto qui.
Il conte s’inchinò, ordinò di portare un lume per la signorina e si avviò di sopra con gli ospiti. La contessa Fosca gli raccontò che quella ignota signorina era discesa con loro dal treno, e aveva chiesto, com’essi, una vettura per il Palazzo; che vedendola, pover’anima, sola soletta (e alla stazione non c’era mezzo asino da farsi trascinar via) le aveva offerto di venire, se voleva, con loro, posto che in paese si fossero trovate vetture, come infatti a grande stento se ne trovarono. «Chi sia e cosa voglia» aggiunse la contessa «non l’ho inteso. Già ha detto pochissime parole; e, volete che ve la dica? Mio fio sostiene che parlò italiano e io ho sempre creduto che parlasse tedesco. Estenuata poi! Questo sì l’ho capito. Grazie tante: un viaggio di questa sorte!»
Il conte non fiatò. — Che duro, la mia anima — mormorò Sua Eccellenza tra sè. — E Marina! Dov’è questa briccona di Marina? È a cena forse? Perchè dico...
In quella entrò Marina. Ella abbracciò la contessa, strinse la mano al cugino con grazia disinvolta e si lasciò dire dalla prima un mondo di dolcezze, di complimenti, sulla sua bellezza, con dei risolini pazienti, delle strette a quattro mani, dei brevi: «Cara! cara! cara!». Sua Eccellenza Nepo parlava intanto con il conte Cesare. Sua Eccellenza era un giovinotto sui trent’anni, bianchissimo di carnagione, con un gran naso aquilino male appoggiato a sottili baffetti neri, con un paio di occhioni neri a fior di testa, il tutto incorniciato da una ricciuta zazzera nera e da un collare di barba nera che pareva posticcia su quella pelle di latte e rose. Aveva le mani assai piccole e bianche. Parlando sorrideva sempre. Il suo passo breve, ondulato, i gomiti quasi sempre stretti alla vita, il parlare stridulo, frettoloso, mettevano intorno a lui un’aura femminile che feriva subito chi lo incontrava la prima volta. A Venezia lo chiamavano il conte Piavola. Non mancava però d’ingegno, nè di coltura, nè di ambizione. Aveva emigrato nel 1860 ed era venuto in Torino per educarsi alla politica. Colà studiava economia e diritto costituzionale, frequentava le sale dei pochi Ministri che tenevano società, le Camere e le tote dei baracconi di piazza Castello. Gli era venuta l’idea di entrare in diplomazia, ma non aveva preso gli esami; si teneva sicuro che, liberato il Veneto, un collegio, dove era grande proprietario, lo avrebbe inviato alla Camera.
Ed ora, mentre la vena inesauribile della contessa Fosca gittava chiacchiere sul capo di Marina, egli, dal canto suo, torturava già il conte Cesare con la propria biografia, con la relazione dei suoi studi, delle sue speranze. Il conte, che sapeva poco dissimulare, stava lì ad ascoltarlo, quasi sdraiato sulla seggiola, col mento sul petto, le mani in tasca e le gambe sgangherate: e alzava il capo a ogni tanto per dargli una occhiata fra l’attonito e l’infastidito.
Quando Dio volle un domestico annunciò che la cena per i signori era pronta. La contessa Fosca volle a forza il braccio di suo cugino. Nepo s’affrettò di offrire il suo a Marina, che l’accettò con un leggero cenno del capo, guardando la contessa e continuando a parlare con lei. S’era fatto un braccio aereo: non toccava quasi quello di Nepo; appena entrati nella sala da pranzo, se ne sciolse.
Intanto la giovinetta vestita di nero aspettava seduta nel vestibolo. Essa non pareva udire le voci nè i passi sopra il suo capo, non pareva avvedersi dei servi che andavano e venivano chiamandosi, ridendo, gittandole occhiate curiose, diffidenti. Si era tratta accanto la sua borsa da viaggio e guardava la porta.
S’udì un passo di fuori, sulla ghiaia; Steinegge si affacciò alla porta. Ella levossi in piedi.
Steinegge la guardò un momento, meravigliato, e passò oltre. La giovine signora fece un passo e disse a mezza voce:
— Ich bitte.
Il povero vecchio tedesco, colto così all’impensata, si sentì dar un tuffo nel sangue da quelle due semplici parole pronunciate con l’accento di Nassau. Non seppe dire altro che «O mein Fräulein» — e le porse ambe le mani.
— È Lei — rispose la giovinetta con voce tremante e sempre in tedesco — è Lei il signor capitano Andrea Gotthold Steinegge di Nassau?
— Sì, sì.
— Credo ch’Ell’abbia laggiù una famiglia.
— Sì, sì.
— Io ho notizie...
— Ha notizie? Notizie della mia bambina? Oh, signorina!
Giunse le mani come davanti a un santo. I suoi occhi brillavano, le labbra eran convulse, tutta la persona esprimeva un desiderio solo, angoscioso. Lo aveva ben detto la contessa Fosca che la povera signorina era estenuata. Diventò pallida pallida, e mormorò a Steinegge che, ansando, le aveva cinta la vita con un braccio:
— Niente, un poco d’aria.
Egli la portò più che non l’accompagnasse fuori, l’adagiò sopra un sedile di ferro, e, divorato da mille angoscie, immaginando dover udire da lei tutte le sciagure possibili, forse la più grande, le prese ambedue le mani, parlò con voce carezzevole, dolce, a quella ignota fanciulla del suo paese, così sola in terra straniera. Ritrovò nella memoria tenere espressioni del tempo andato, sante parole paterne, taciute per anni e anni, colorate ora di soavità religiosa dal rispettoso Lei che le accompagnava. Intese ella, rinfrancandosi, il rispettoso Lei o intese solamente dirsi mein Kind, «fanciulla mia?». Perdette la memoria delle prime parole scambiate o la voce affettuosa le fece credere che tutto il suo segreto fosse stato detto? Gittò le braccia al collo di Steinegge e si sciolse in lacrime.
Pare incredibile; Steinegge a prima giunta non capì. Egli portava sempre viva nel cuore l’immagine di sua figlia quale l’aveva lasciata bambina di otto anni, piccina piccina, con due occhi grandi e dei lunghi capelli biondi. L’atto, le lagrime della giovinetta gli dicevano « è lei, » ma egli comprendeva e non comprendeva nel tempo stesso; non poteva così rapidamente immaginare una trasformazione simile. — Oh, papà! — diss’ella fra la tenerezza e il rimprovero. Allora solo il suo cuore e la sua mente s’illuminarono insieme. Con parole rotte, incoerenti, si buttò ginocchioni a’ piedi di sua figlia, le afferrò una mano, se la strinse alle labbra. Con la infinita gioia che gli faceva veramente male a tutto il petto, alla gola, sentiva pure una gratitudine umile senza confine.
— Edith, cara, cara Edith, bambina mia — diss’egli con voce soffocata. — Ma è Lei proprio Edith? Ma come puoi esser tu?
È carità pel povero Steinegge non ripetere le parole assurde che gli uscirono di bocca in quei momenti deliziosi. La improvvisa gioia intorbida il pensiero, come certi liquori forti e soavi intorbidano l’acqua pura.
Edith taceva, rispondeva a suo padre serrandogli la grossa mano tra le sue, nervose, appassionate.
Un lume brillò sulla porta del palazzo e vi rimase fermo.
— Papà — disse subito Edith — mi presenti.
Steinegge si levò a malincuore. Non aveva badato a quel lume impertinente: sarebbe rimasto lì tutta la notte solo con lei e non capiva tanta fretta d’essere introdotta. Non pensò nè l’anima sua leale poteva immaginare quali false, perfide parole fossero state sussurrate a sua figlia contro di lui. Edith non le aveva volute credere, ma qualche dubbio angoscioso n’era ben rimasto in lei; ella temeva, almeno, che anche lì in quella casa sconosciuta si potesse pensar male di suo padre. Essa conosceva già il mondo assai meglio di lui che ne aveva veduto tanto.
Entrarono, la figlia a braccio del padre. Era la curiosa Fanny, che stava sulla soglia con una candela in mano.
— Buona sera — disse Edith.
Fanny, che non teneva in gran stima — lo straccione — Steinegge, arrischiava un risolino beffardo quando Edith passò davanti a lei salutandola. Il risolino le morì sulle labbra ed ella s’inchinò graziosamente senza parlare.
— In qual modo — pensava — il vecchio zuruch può avere dimestichezza con una damigella così?
Aveva visto una bellezza delicata e seria, una persona elegante; aveva notato il passo, l’atto di saluto, la voce dolce e bassa, la semplicità severa dell’abito; e con la sua esperienza delle vere signore, aveva giudicato assai bene di Edith.
— Fateci lume — disse Steinegge.
Fanny lo guardò, meravigliata. Dove aveva egli preso tanta audacia? Di solito osava appena pregare i domestici. Davvero pareva cresciuto di un palmo e camminava impettito come un soldato che dia il braccio a una regina. Fanny obbedì.
Steinegge presentò sua figlia senza la umiltà ossequiosa ch’è debito di chi presenta una parente ai propri superiori. Il conte Nepo e donna Marina si mostrarono freddissimi. Il conte Cesare fu cordiale. Si alzò in piedi, prese con sincera compiacenza la mano della giovinetta e le parlò col suo vocione benevolo della stima e dell’amicizia che aveva per suo padre. La contessa Fosca chiedeva spiegazioni all’uno e all’altro e non arrivava mai a capire. Quando ci arrivò — oh che caso, oh che caso! — non rifiniva più dal fare esclamazioni di meraviglia, congratulazioni e domande di ogni genere.
— Perchè va a sedere così lontano, benedetta? — diss’ella a Edith. — Di contentezza non si cena, sa: e dopo cena, la ci vorrà bene più di prima al papà. Venga qua, cara da Dio, venga qua.
Edith si scusò con garbo. Il conte, indovinando che padre e figlia desideravano rimaner soli, osservò che forse la viaggiatrice abbisognava sopra tutto di riposo e invitò Steinegge ad accordarsi con Giovanna per la stanza di madamigella Edith, la quale avrebbe potuto farsi recar da cena colà più tardi, se lo desiderasse.
Giovanna condusse Edith in una stanza attigua a quella di suo padre. Questi camminava intanto su e giù pel corridoio, entrava e usciva dalla sua camera, parlando forte alle pareti, al pavimento e sovratutto al soffitto, fermandosi ad ascoltare i passi e le voci delle due donne nella camera vicina, con lo sguardo torbido e il viso ansioso, come se temesse di non udire più nulla, di trovar che il vero non era più vero. Finalmente Giovanna uscì e discese le scale.
Poco dopo quell’uscio si schiuse da capo e una voce disse piano:
— Papà.
Steinegge entrò e abbracciò sua figlia. Non potevano parlare, si guardavano. Ella sorrideva fra le lagrime silenziose; egli si mordeva il labbro inferiore, mostrava negli occhi un dolore pungente, uno spasimo in ogni muscolo del viso. Edith comprese, gli appoggiò la testa sul petto e mormorò:
— Ella è contenta, papà.
Il povero Steinegge tremava come una foglia, faceva sforzi incredibili per frenare la commozione. Edith si trasse dal seno un piccolo medaglione, l’aperse e lo diede al padre. Questi non lo volle guardare e glielo restituì subito dicendo — Sì, sì — battendosi una mano sul cuore. Stette muto per qualche minuto ancora, poi andò risolutamente a spegnere il lume.
— Adesso racconta — diss’egli. — Perdonami se faccio così. Voglio solo udire la tua voce e figurarmi che non sono passati tanti anni. Ti rincresce?
No, non le rincresceva. La immagine che aveva serbato di suo padre nella memoria era venuta lentamente trasformandosi col tempo, s’era elevata e abbellita; proprio all’opposto del pover’uomo. Anche per Edith v’era adesso qualche cosa di straniero nell’aspetto di lui; anch’essa aveva bisogno di abituarvisi prima di potergli parlare a cuore aperto. Nelle tenebre, invece, la voce di cui tante volte, lassù a Nassau, aveva cercato di ricordare il timbro esatto, la cara voce paterna le correva dentro per tutti i nervi, le riempiva il petto, le riportava impetuosamente nel cuore i più minuti ricordi dell’infanzia. Anche a lei piaceva parlare così, all’oscuro.
E raccontò quei dodici anni passati con il nonno materno, due zii e le loro famiglie. Il nonno, morto da pochi mesi, era stato assai buono per lei, ma non aveva permesso mai che in casa si pronunciasse neppure il nome del proscritto. Edith ne parlò con delicata pietà e temperanza, dissimulando, scusando, per quanto era possibile, gli odi tenaci del vecchio, imbevuto di pregiudizi che nessuno della famiglia si era mai curato di combattere. Steinegge non la interruppe mai; era ansioso di udire l’ultima parte del racconto, di sapere come Edith, che aveva lasciate senza risposta tutte le sue lettere, si fosse poi decisa di abbandonare patria e parenti per venire in traccia di lui. Quest’ultima parte fu la più difficile e amara per la narratrice. Fino alla morte del nonno essa non aveva ricevuto alcuna lettera di suo padre. Morto il nonno, ne aveva trovato per caso una direttale da Torino e aveva saputo in pari tempo che fino a due anni prima moltissime altre lettere erano arrivate per lei da vari paesi e che tutte erano state trattenute e distrutte.
Qui il racconto fu interrotto da un’espansione di Steinegge contro quei maledetti bigotti ipocriti furfanti vili che son capaci di queste azioni da assassini. Tempestò sbuffando per la camera buia, e non si fermò se non quando ebbe rovesciate due sedie. Allora udì un passo leggiero venire a lui, si sentì una mano sulla bocca. Tutta la sua ira cadde. Egli baciò quella mano e la tolse con ambo le sue.
— Hai ragione — disse — ma è orribile!
— Oh no, è basso, basso, molto più basso di noi, papà. — Ella continuò narrando come quella lettera vecchia di due anni e mezzo, l’avesse quasi fatta impazzire. La sapeva a memoria. Ripetè le preghiere appassionate fatte agli zii onde ricuperare qualche altra lettera. Ma erano tutte scomparse e neppure una ne potè tornare in luce. Si spezzarono invece i fragili legami che tenevano unita Edith alla famiglia materna dopo la morte del nonno. Ella ebbe la sua parte dell’eredità, modicissima, perchè gli eredi erano parecchi e la famiglia, non molto ricca, aveva sempre vissuto signorilmente. Chiese di poterne disporre subito e l’ottenne, a condizioni inique, che ella accettò senza discutere. Partì subito per l’Italia, sola, con la sua piccola eredità, seimila talleri, e una lettera per un impiegato della legazione di Prussia a Torino, che prestava i suoi buoni uffici anche ai cittadini del Nassau. Si recò difilata a Torino; quel signore si adoperò molto per lei e fu presto in grado di farle sapere dove avrebbe potuto trovare suo padre. Edith terminò con dire come si fosse accompagnata ai Salvador.
Steinegge osservò allora ch’era forse suo dovere scendere nel salotto prima che gli ospiti del conte si ritirassero. Accese il lume per Edith e la pregò di attenderlo; si sarebbe sbrigato in pochi minuti. Escì in fretta e scese la scala senza badare che la lampada sospesa sul pianerottolo del primo piano era spenta e che nessuna voce si sentiva tranne quella dell’orologio. Scoccò da questo, mentre passava Steinegge, un tocco sonoro. Pareva dicesse: ferma! — . Quegli si fermò, accese uno zolfanello. Le undici e mezzo! Lo zolfanello si spense e Steinegge rimase immobile con la mano distesa in aria. Possibile? Avrebbe creduto che fossero le nove e mezzo. Risalì la scala in punta di piedi e spinse pian piano l’uscio della camera di Edith.
Ella era ritta davanti la finestra aperta, teneva stretta alla persona con le mani giunte la spalliera di una seggiola e curva sul petto la testa.
Steinegge si fermò; gli si era stretto il respiro. Sentiva forse gelosia dell’Invisibile cui saliva allora, oltre le stelle, il pensiero di sua figlia? Non lo sapeva bene neppur lui che sentisse. Era un freddo, un’ombra fra Edith e sè. Egli non aveva mai nella sua mente distinto Iddio dai preti, dei quali parlava sempre con disprezzo, benchè fosse incapace di usare la menoma scortesia al più zotico e bigotto chierico della cristianità. Aveva spesso pensato con dolore che sua figlia sarebbe stata educata dai preti; e ora, solo per averla veduta pregare, gli pareva che lo avrebbe amato meno, si sgomentava del futuro.
Edith s’avvide di lui, depose la seggiola e disse:
— Avanti, papà.
— Ti disturbo?
Ella si meravigliò del tono sommesso e triste della domanda e rispose con un no attonito, levando le sopracciglia come per dire: — Perchè mi domandi così! — Lo volle accanto a sè, alla finestra.
Era una notte senza luna, quieta. Il lago non si distingueva dalle montagne. Appena si vedeva a’ piedi dell’alta finestra una striscia biancastra, il viale di fronte all’aranciera lungo il lago. Tutto il resto era un’ombra che cingeva da ogni parte il cielo grigio; e dentro a quell’ombra si udiva di tratto in tratto il breve e dolce mormorar dell’acque chete, che, rotte dal guizzo d’un pesce, si dolevano e si riaddormentavano.
Edith e suo padre conversarono ancora lungamente a voce bassa, per un inconscio rispetto alla silenziosa maestà della notte. Ella gli domandava mille cose della vita passata, dalla separazione in poi; faceva domande disparatissime, perchè ne aveva preparato un tesoro da lunga pezza e ora le venivano sulla bocca alla rinfusa, alcune gravi come questa: se avesse mai sofferto di nostalgia; alcune puerili come quest’altra: se ricordasse il colore della tappezzeria del salottino dov’ella aveva dormito e sognato di lui per dodici anni. Al povero Steinegge si spandeva nel petto una dolcezza ricreante, un calore di orgoglio. Raccontando ad una ad una le sue tribolazioni alla giovinetta che ne palpitava e ne piangeva, quel che aveva sofferto gli pareva niente a fronte della consolazione presente.
Un suono di campane passò sul Palazzo, andò a echeggiare nelle valli, a perdersi nei fianchi selvosi dei monti. V’era l’indomani una sagra in Val...
— Perchè suonano, papà?
— Non lo so, cara — rispose Steinegge. — Die Pfaffen wissen es, il pretume lo sa. — Appena pronunciate queste parole, sentì di áver detto male e tacque. Tacque anche Edith.
Il silenzio durò qualche minuto.
— Edith — disse finalmente Steinegge — sarai stanca non è vero?
— Un poco, papà.
Era sempre tenera quella cara voce argentina; Steinegge si consolò.
Era sempre tenera quella voce, ma vi suonava dentro stavolta una nuova corda delicatissima, mesta, appena sensibile. Poi che Steinegge si fu congedato con un bacio, Edith tornò alla finestra e parve parlare a lungo con Qualcuno al di là delle nubi. Intanto suo padre non poteva trovar posa. Tornò cinque o sei volte a picchiar all’uscio per chiederle se avea acqua, se aveva zolfanelli, a che ora voleva essere svegliata, se le dovevano portare il caffè, se desiderava questo, se desiderava quello. Fu tentato di coricarsi lì all’uscio, come un cane fedele; finalmente, poco prima dell’alba, andò a coricarsi bell’e vestito sul suo letto.