Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Parte seconda - I | Parte seconda - III | ► |
CAPITOLO II.
I Salvador.
— El xe largo e longo, Ecelenza— disse alla contessa Fosca la sua fedele Catte, versandole il caffè in una tazza larghissima, mentre la contessa, alzando la testa dal cuscino e facendosi puntello de’ gomiti, considerava con occhi diffidenti il vassoio, la tazza, la sottocoppa, la zuccheriera, il bricco levato in aria e il filo arcuato del caffè cadente.
— Benedetta Venezia! — diss’ella.
— Eh, Eccellenza, benedetta Venezia!
— La xe acqua, ciò — disse la contessa con una smorfia deponendo la tazza sul vassoio dopo avervi appena posate le labbra.
— Acqua schietta, Eccellenza. Ce l’ho detto io a quella vecchia. Questa è la secchia (Catte accennò alla tazza) e questo è il pozzo (Catte accennò il bricco). Oh che casa, Eccellenza! La vecchia ha fatto il muso per le lenzuola e io le ho cantato che Sua Eccellenza non può dormire se non è nelle sue lenzuola.
— Questo ci hai detto?
— Sì, Eccellenza.
— Hai fatto bene, sa. Le ho tolte per l’albergo, ma già che vi sono... Vestimi, che presto sarà ora di Messa.
— Come La comanda, Eccellenza. La cameriera giovane, quella della marchesina Marina, mi ha dato ragione, se non fallo, perchè tanto l’una che l’altra parlano peggio dei levantini. Sa, Eccellenza, cosa si capisce? Che qui padroni e servitori, con buon rispetto parlando, son tutti cani e gatti.
— Dimmi, dimmi. Quest’altra calza, siora sempia! Dimmi dimmi. Non c’è male queste gambe, ancora, ah?
— Eh, Eccellenza, quante sposine vorrebbero...!
— Sì, dimmi, vecia, conta su. Cani e gatti, ah?
— Eh cani e gatti, Eccellenza. Il signor conte e la signora marchesina non si possono vedere. La si appoggi a me. Piano, Eccellenza, piano, che il letto è alto. Quando si guardano pare che si vogliano mangiare. Così ci ha detto il cuoco a Momolo, perchè pare che il cuoco non tenga nè dall’uno nè dall’altra. Ne contano di belle.
— Conta su.
— Ma non so, Eccellenza, se posso, perchè c’entra il signor conte...
— Eh, stupida, quando vi dico di contar su, il vostro dovere è di contar su.
— Come La comanda, Eccellenza. Ecco, si vuole che il signor conte, tempo fa, volesse prendere la signora marchesina e che la signora marchesina si disperasse perchè, ohe poveretta, giovane la è, anima mia...
— Contate su senza tante anime.
— Come La comanda, Eccellenza. Dunque la signora marchesina si ammalò e andava a torzio colla testa; da quel tempo non ha più potuto vedere il conte; e il signor conte ha dovuto metterla via; ma anche lui è diventato rabbioso contro di lei. Dopo è nato un altro pettegolezzo d’un giovane...
— D’un giovane?
— Per servirla, Eccellenza.
— Che giovane?
Sua Eccellenza era inquieta.
— Qua vien lo sporchetto, Eccellenza. Il suo nome di questo giovane non è il suo nome. Pare che ci sia un pasticcio... non so se mi spiego.
— Eh, insensata, fra me e te, abbiamo duecento anni, e pigli tutti questi giri?
— Come La comanda, Eccellenza. Questo giovane ha un altro nome, ma è figlio del signor conte. Eccola tonda.
Sua Eccellenza si slacciò la cuffia da notte e rimase un momento immobile, a bocca aperta, guardando Catte. Poi si strinse nelle spalle.
— Sciocchezze, insulsaggini — diss’ella — bugie. E dunque?
— Adesso vien l’imbroglio. Non ho capito se ci fosse del tenero fra costui e la signora marchesina o se abbiano trovato da ridire fra di loro, e che lui, voglio dire, che lei ne abbia dette quattro a lui, o se il conte volesse che lei lo togliesse, questo giovine, e che a lui non le piacesse, o che la si fosse messa in pensiero, si sa, per la roba, ciò, e che lui...
Sua Eccellenza buttò via la cuffia.
— Uff, che caldo che mi fai! Cosa vuoi che capisca? Dammi quell’affare! Quell’affare, sì, quell’affare! Non capisci? Vai alla Sensa?
Catte andò a pigliar la parrucca di Sua Eccellenza e si dispose a mettergliela.
— E poi? — disse la contessa.
— E poi... La permetta, Eccellenza, che siamo un poco storti. Ecco così. No, ancora un pochetto.
Sua Eccellenza soffiava come una macchina a vapore.
— La senta, Eccellenza. Chi è adesso che ha da dire che la è parrucca? Dopo tutto, la porta anche la Madonna. La compatisca, Eccellenza. Dunque un bel dì non so come, è nato un bordelo, grida tu che grido anch’io, non so se si siano anche pettinati, l’amico senza dire «cani vi saluto» infilò la calle e chi s’è visto s’è visto. Cose di sei giorni sono. E quel tedesco, Eccellenza, che macia! Stamattina è venuto giù lui a prendere il caffè da portare alla sua tedeschetta. C’era abbasso anche il signor conte, perchè quello è proprio el massariol, lo si trova dappertutto, pare che vi comparisca di sotto terra.
— Tacete, pettegola — interruppe la contessa Fosca. — Ho tanto di testa. Cosa volete che me ne faccia di tanti pettegolezzi? Fate presto. Specchio. Brava, gioia. La Madonna porta ella quell’affare sul naso? Questo si acquista con darvi libertà, che non fate più attenzione a niente. Presto. Sua Eccellenza è alzato?
— Credo di sì. Ho visto Momolo portargli gli abiti.
— Bene, andate a dirgli di venire da me. Presto!
— Subito, Eccellenza. Per diana, tu puzzi ancora di baccalà, ciò — soggiunse Catte fra i denti, chiudendo l’uscio dietro di sè.
Non era colpa della contessa Fosca se suo padre, dopo essere stato sbrodegher, aveva venduto ai veneziani e alla terraferma uno sterminio di baccalà. Quando il conte Alvise VI Salvador si degnò di sposarla, i suoi concittadini le inflissero il nomignolo di contessa Baccalà. Ella sapea tuttavia liberarsene presto per la sua bonarietà disinvolta, per la franchezza con la quale parlava della propria origine, per la sua schietta e allegra ignoranza. Con l’andar del tempo si fece voler bene persino dalle gran dame più schizzinose; il tanfo dei negozi paterni andò perdendosi; ci volevano le nari maligne di Catte per coglierlo ancora.
In vent’anni di matrimonio il fu conte Alvise VI, buttando via quattrini a destra e a manca con l’aiuto dell’allegra signora, aveva cominciato a rivedere qua e là il fondo della cornucopia, su per giù come prima del suo matrimonio. Alla sua morte la contessa Fosca si trovò in possesso di latifondi sterminati, di debiti colossali, e di un ragazzetto mingherlino, ammirato in casa e fuori di casa, come un grande ingegno. La contessa volle sapere a puntino in quali acque navigasse; si spaventò, si raccomandò alla Madonna dei Miracoli, ad avvocati, a santi, a uomini d’affari; ebbe la fortuna di trovare una valente e proba persona, l’avvocato Mirovich, che accettò di mettersi a pope e promise condur la barca a salvamento. Si introdussero grandi economie nella famiglia, si mise Nepo in collegio, si vendettero due tenute in Friuli; e certe anticaglie polverose, degne agli occhi della contessa d’esser buttate in rio, uscirono dal granaio del Palazzo per finire al museo Britannico.
Mentre le guaste fortune di casa Salvador si andavano racconciando, Sua Eccellenza Nepo assodava la, sua riputazione in collegio. Aveva memoria prodigiosa, parola assai facile; non era sfornito d’ingegno, se ne attribuiva con l’aiuto dei maestri e di compagni adulatori, moltissimo. Escito di collegio, studiò leggi a Padova.
Nell’Università il suo nome non si levò sugli altri. Con il grosso degli studenti, scapestrati aperti, democratici intus et in cute, egli, delicato e molle, non poteva accordarsi. Non ebbe adulatori; fu addetto a una chiesuola timida di eleganti, motteggiata, satireggiata dagli altri. Trovava modo di sdrucciolare spesso a Venezia e d’indugiarvisi. Si occupava di economia politica e sapeva fare l’elegante, comparir signore, applicando segretamente la legge del minimo mezzo.
I suoi primi passi nella società furono fortunatissimi. Egli era una speranza bianca e rosea di mamme e di figliuole, una speranza di quei patrioti che desideravano alta la illustre nobiltà veneziana. Quando si annoveravano nei crocchi i più valenti giovani di Venezia, qualcuno cominciava a dire «c’è Salvador». Gli bastava per questo, a lui patrizio, conoscere il tedesco, l’inglese, essere abbonato all’Economist e al Journal des Economistes, andare a qualche seduta dell’Istituto, spiegare da Florian cosa avessero fatto di tanto noioso i pionieri di Rochdale per seccare l’universo. In pari tempo svolazzava intorno alle gran dame e alle belle dame senza bruciarsi le ali e nemmanco il cordoncino dell’occhialetto; scherzava impunemente con loro, le consigliava nelle più gravi minuzie, acquistandone a poco a poco certa stima sui generis, per cui esse non potevano parlar di Nepo Salvador senza farne gran lodi e sorridere. Il suo nome illustre e la buona opinione che molti avevano di lui, piuttosto per desiderio e per fede che per conoscenza dell’uomo, prevalsero un pezzo su questi equivoci sorrisi e sui giudizi che poche persone, a quattr’occhi, facevano di lui. Finalmente i sussurri si propagarono, diventarono mormorii, bisbigli, voci; il credito di Nepo si sdruscì rapidamente da ogni parte; il suo perpetuo occhialetto, le fogge esagerate degli abiti, il portamento effeminato, la vanità ridicola, gli stomeghezzi, le taccagnerie male nascoste, furono liberamente derise; i suoi amici si confidarono il gran dubbio che sapesse pochino pochino e quando uno diceva «talento, però» un altro rispondeva «euh, memoria». Nepo Salvador diventò il conte Piavola.
Nel 1860 due o tre valentuomini, amici di casa Salvador e teneri, per l’onor di Venezia, del nome patrizio, accordatisi fra loro, si misero attorno a Nepo onde persuaderlo a emigrare. Bisognava prepararsi all’avvenire, come facevano tanti altri delle migliori famiglie, con la esperienza della libertà, con l’amicizia dei pezzi grossi di Torino. Nepo era ambizioso, cominciava a sentire un freddo intorno a sè; abbracciò subito l’idea. La contessa Fosca odiava religiosamente col suo grosso patriottismo, i tedeschi, ma non poteva comprendere che diavolo fosse questa libertà cui bisognava prepararsi tanto tempo prima, nè quale onore fruttasse l’essere Deputato, cioè, com’ella concluse dopo infinite spiegazioni, l’essere mandato in tanta malora dal calegher, dal forner, dal frao, ecc. A una amica che le domandò se partiva lei pure, rispose stizzita: — Io? Cosa volete che vada a fare? Il Deputato? — Non partì, ma faceva di tratto in tratto delle visite a suo figlio. S’incontravano a Milano per abbreviare il viaggio e perchè Nepo amava far conoscere sua madre a’ suoi amici. Colà videro spesso i Crusnelli di Malombra, loro cugini per parte della madre di Marina. Fra i d’Ormengo e i Salvador v’era stata alleanza fin dal 1613, quando Emanuele d’Ormengo, inviato di Carlo Emanuele I a Venezia, s’invaghì di Marina Salvador e la sposò. Nel 1797 Ermagora Salvador, esule da Venezia, trovò a Ginevra i d’Ormengo fuggiaschi dal Piemonte, e, un anno dopo, condusse in moglie Alessandrina Felicita, zia del conte Cesare e madre, in seguito, di Alvise VI. Il lusso tutto moderno del marchese Filippo abbagliò Fosca, benchè nel suo palazzo di Venezia vi fossero da secoli ricchezze dieci volte maggiori. Ella pensò subito ad un matrimonio e ne parlò a Nepo, il quale arricciò il naso e rispose in tono cattedratico che un giovanotto non può legarsi senza una gran passione, e che quando si ha l’amicizia delle più belle e colte signorine di Venezia e di Torino non è facile innamorarsi a prima vista di altre persone; che, al postutto, lo sfarzo dei Malombra gli piaceva e non gli piaceva. Un oracolo! pensò sua madre, quando improvvisamente casa di Malombra si sfasciò. Ella si compiacque assai che Marina fosse stata raccolta dallo zio Cesare. Lo aveva conosciuto a Venezia un trent’anni addietro; lo sapeva ricchissimo e senz’altri eredi che questa nipote. Non osò tuttavia riparlare a Nepo di matrimonio, dopo la teoria dei giovinotti dalle belle amiche. Fu Nepo che un paio d’anni dopo la catastrofe trovandosi con lei a Milano, escì a parlare della povera Marina, delle sue disgrazie, dei suoi begli occhi; le disse che certe idee respinte una volta, al tempo della prosperità di Marina, adesso gli si riaffacciavano, gli entravano meglio di prima nel cuore intenerito.— Taso, ma non la bevo, vissere — disse tra sè la contessa Fosca. Nepo osservò pure che correva loro obbligo, essendo in Lombardia, di visitare il conte Cesare, parente dei più stretti che avessero. La contessa, prima di avventurarsi in paese sconosciuto, volle informazioni e consigli da donna Costanza R..., una vecchia dama milanese di sua conoscenza. Le informazioni sul cugino furono scarse: strano, misantropo, ricchissimo, senza eredi più prossimi di Marina. Di costei donna Costanza seppe solamente dire che la credeva un follettino, ma buona e pia. La vedeva sempre, quand’era a Milano, all’ultima messa di San Giovanni. « Casa Malombra, già, non se ne parla, principii buonissimi. Anche il povero Filippo, testa un po’ fêlèe, ma buonissimo, neh! Proprio buono, ecco, povero Filippo! E poi, cara, gran seigneur! » Donna Costanza concluse che bisognava scrivere prima, e poi, secondo la risposta, regolarsi.
La contessa Fosca scrisse un capolavoro diplomatico. V’erano intarsiati non pochi errorucci di ortografia e di grammatica; ma nessuno si sarebbe atteso dalla contessa uno scritto così artificioso. V’era espresso il desiderio di rivedere il conte dopo tanti anni, di stringere con l’amicizia i legami del sangue. Non era egli, dopo tante disgrazie, il più prossimo dei parenti superstiti del povero Alvise? Tali erano pure i sentimenti di Nepo. Ella avrebbe voluto intrattenersi con lui dell’avvenire di questo suo figlio; e qui grandi elogi al medesimo. Lo vedeva disposto ad accasarsi. Ove cadrebbe la sua scelta? Certo sopra una famiglia degna, una fanciulla virtuosa; ma ella, come madre, doveva pur pensare a quello che i benedetti giovani non curano mai. Qui veniva un quadro nè troppo scuro nè troppo chiaro delle finanze Salvador. Insomma ell’aveva bisogno di amici autorevoli e prudenti. Verrebbe volentieri al Palazzo con Nepo, se però il tempo, se la salute, se questo se quello permettesse. Desiderava pure tanto abbracciare la cara Marina di cui si ricordava sempre con tenerezza. Aggiungeva uno speciale bigliettino affettuoso, sulle generali, per essa.
Il conte Cesare rispose brevemente che si compiaceva delle buone qualità di Nepo, e approvava riguardo al matrimonio, le idee della cugina; che avrebbe gradito assai la visita e sperava riuscirebbe gradita anche a sua nipote. Questa mandò due righe di fredda cortesia irreprensibile, che diedero un po’ da pensare alla contessa Fosca, perchè gittavano un’ombra sulla lettera dello zio, la quale poteva interpretarsi per un assenso anticipato con la solita clausola — se piace — . Ma donna Costanza le fece riflettere che, nel caso di Marina, un gran riserbo era della più stretta convenienza. Così Sua Eccellenza s’imbarcò e fluttuava in alto mare, quando dopo le chiacchiere e le inattese rivelazioni di Catte, comparve Nepo.
Sua madre lo accolse con una faccia sepolcrale, lo fece sedere e dopo un solenne — Fio, qui nasce questo — gli spifferò d’un fiato tutta la storia di Catte, tenendo indietro il più grosso, smorzando e rallentando la voce sempre più. — Finì col metter fuori la supposta paternità del conte e ripetè in forma di epilogo, con voce sommessa e solenne:
— Un fio!
Nepo rimase imperterrito. Disse ch’era ormai interamente sicuro di piacere a Marina, poichè ella si trovava male in casa dello zio. Quanto al figlio, non valeva la pena di occuparsene. La contessa non voleva credere a’ propri orecchi e se lo fece ripetere due volte. — Eh, so quello che dico!— esclamò Nepo impazientito — Se sposerò mia cugina non sarà per i denari. Sciocchezze, cara mamma, queste. — Fosca andò sulle furie, sempre sotto voce. Nepo si stringeva nelle spalle e taceva; ma quando sua madre dichiarò che sarebbe partita la sera stessa, egli, giuocando furiosamente, prima delle sopracciglia e del naso, poi del capo, scosse via l’occhialino, assalì la contessa a rimproveri, a sarcasmi e affermò che non sarebbe partito quand’anche si fossero dati la posta al Palazzo tutti i Silla dell’universo.
— Che Silla? — interruppe Sua Eccellenza. — Chi è questo Silla? È quell’amico?
Nepo si morse le labbra.
— Ma rispondi! È questo il fio?
— Non c’è figli.
— To’, to’, to’, — disse Fosca appuntando l’indice a Nepo che le voltava le spalle, tutto ingrugnato. — Tu lo sapevi, tu? Come diavolo hai fatto? Tu lo sapevi eh? Come lo hai saputo?
Nepo fece un atto d’impazienza e uscì brontolando dalla camera.
Sua Eccellenza gli guardò dietro, alzò le sopracciglia, porse il labbro inferiore e susurrò:
— Xelo!