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Intermezzo
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CAPITOLO IV.


Intermezzo.


Era corsa una settimana dall’arrivo di Edith e dei Salvador al Palazzo. La contessa Fosca pretendeva d’aver avuto, i primi due giorni, una gran soggezione sia per il muso lungo del cugino, sia per il muso lungo delle montagne. Guai, diceva lei, se le fosse mancato il conforto di Marina! Sarebbe partita subito. E concludeva che a questo mondo non bisogna mai disperar di nulla, fuorchè di veder Cesare pettinato. Adesso si trovava proprio come in paradiso; Cesare si era sbottonato, gli altri si erano sbottonati, aveva potuto sbottonarsi anche lei e — oh Dio — si respirava. Adesso non c’era pericolo che la contessa Fosca avesse soggezione. O per complimenti a Marina o per blandizie a suo figlio, o per rabbuffi al conte e a Steinegge, o per apostrofi strambe ai domestici, o per esclamazioni e soliloqui, la sua voce era sempre in aria. In questo non somigliava di certo alla gentildonna veneziana del Palma, ch’ella giurava e spergiurava, Palma o non Palma, essere il suo ritratto fattole a tradimento un trent’anni addietro, probabilmente quando era andata al ridotto da dogaressa del 500. Nepo recitava al conte in tono oratorio, per abituarsi alla Camera, delle lunghe tirate d’economia politica, gli raccontava di aneddoti politici della capitale. A Marina parlava di mode e di tutte le contessine e le marchesine che aveva conosciuto a Torino, riferendo i dialoghi tenuti con loro e avendo cura di intercalarvi spesso — Voi Salvador, voi Maria, voi Emma, voi Fanny ecc. — Le dedicava pure le sue goffe spiritosaggini insolenti, le nascondeva i libri, le mutava un guanto, faceva dondolar Saetta quando andavano sul lago. Sfoggiava senza pietà per Marina le toelette più irresistibili, a tinte austere la sera, tènere la mattina; tanto tènere che qualche volta Nepo, profumato come era, pareva un boccone di crema alla vaniglia. E il glorioso corno degli avi magnanimi, quel corno

che valeva
Assai più che una corona

si era sciolto,

Benchè re de tutti i corni

in una minutaglia di cornetti burla, piovuta su dai bottoni, sulle spille, sui fazzoletti del pusillanime nipote, malgrado la spiccata antipatia della contessa Fosca per questo emblema che le suggeriva dei motti democraticissimi. Steinegge, a cui la contentezza sprizzava da tutti i pori, era il cavaliere ufficiale di Sua Eccellenza che aveva molta bontà per lui. — Il cucchiaio che va a spasso con la scodella — diceva la contessa quand’egli le dava il braccio. Però prima di accordargli tanta confidenza, si era fatto spiegare che non era austriaco nè amava gli Austriaci; e ci volle del buono perchè potesse capacitarsi che l’è todesco e no l’è todesco — Vorrete dire che è todesco, ma non tiene dai todeschi? esclamava la povera donna. E finiva con dire: — Mi fido, mi fido. — Ne domandò allo stesso Steinegge, al quale, poi, accordò sincera amicizia, giungendo fino a raccontargli certi aneddoti molto scabrosi con sì poca prudenza che Steinegge, se Edith era vicina, fremeva.

Steinegge pareva rabbonito con la stessa Marina, forse perchè fra pochi giorni avevano a separarsi partendo egli con Edith per andare a stabilirsi a Milano; ed era questo un piacere comune. Marina prendeva qualche volta a braccetto Edith per fare un giro in loggia o in giardino. Edith non sembrava lieta di questi favori e se ne schermiva. Il suo contegno con Marina era freddo quanto glielo consentiva la sua condizione di ospite: e non mancava in quel riserbo un’ombra di alterezza. Non si poteva accusarne il sangue tedesco. Per la contessa Fosca, Edith mostrava viva simpatia, e anche pel conte Cesare, benchè in tutt’altro modo. E il conte Cesare era affettuoso con lei, aveva combattuto i suoi propositi di immediata partenza, le si apriva più assai che a suo padre: le parlava della sua vita solitaria con l’amarezza pacata che copre dolori profondi, e le diceva di sentirsi scossa la salute ferrea goduta sin allora. Con i Salvador, tanto agli antipodi della sua natura, il conte si mostrava paziente oltre il prevedibile. A Marina non rivolgeva quasi mai la parola. I loro sguardi non entravano direttamente l’un nell’altro in nessun caso; correvano obliqui a incrociarsi in un punto X più o meno lontano, come certe linee ipotetiche di teoremi geometrici. L’umore di Marina era dei più mutabili. Da lunghe ore di calma taciturna passava ad impeti di nervoso brio. Civettava un momento con Nepo a segno di stordirlo, di levarlo da terra; poi non lo guardava più, non gli rispondeva. Viveva, si può dire, d’aria; e non era mai stata così bella. Sotto le due bende ondulate di capelli che scendevano curve fin presso le sopracciglia, quasi a nascondere un segreto pensiero, i suoi grandi occhi gittavano fuoco assai più spesso del solito. Nella sua persona, musica inesprimibile di curve armoniose dall’orecchio finissimo alla punta del piede arcuato, si vedeano alternarsi l’energia e il languore di una vita nervosa, esuberante. Insomma ella era come un nodo di ombra, di luce e di elettrico; che cosa chiudesse, nessuno lo sapeva.

Quasi ogni giorno si facevano gite sul lago o sui monti. Era la contessa Fosca che metteva fuoco, per così dire, alla brigata, senza farne mai parte. Ne aveva abbastanza di girar per casa! Perdeva spesso la tramontana sulle scale o nei corridoi. Allora chiamava Catte, chiamava Momolo. Catte era già pratica d’ogni buco quanto un vecchio topo; ma il povero Momolo non ne poteva venire a capo e non era infrequente il caso che all’appello della contessa rispondesse quasi di sotterra la sua voce lamentevole: — Pronto, Eccellenza; ma non so da che parte. — Gli Steinegge erano andati due volte alla canonica e don Innocenzo avea fatto anche lui una visita al Palazzo. Quanto al dottore, non vi si era più veduto.

Bella e allegra compagnia era quella che pranzava nel tinello. Motti, burle, grossi equivoci, galanterie bernesche, botte e risposte di taglio e di punta, sussurri maligni, risate, strilli, mugolii di mangiatori disturbati, s’urtavano, s’incrociavano, si mescolavano sotto le volte basse. Un tocco di campanello troncava netto quel tripudio di ranocchi indiavolati; poi scappava fuori daccapo una voce, un’altra, una terza, tutto il concerto. La Giovanna se ne crucciava inutilmente. Chi faceva le spese di tanto chiasso era per lo più Momolo che sapeva dir solo — andiamo, andiamo, da bravi. — Da Momolo, i beffeggiatori passavano al parlare veneziano, a Venezia stessa; ma allora bisognava sentire e veder Catte, riconoscere che cinque o sei lombardi son pochi davvero per azzuffarsi a parole con una brava calèra del buon sangue veneziano. Con quattro frustate in giro li faceva stare indietro tutti, poi ne sceglieva uno e lo tempestava di motti e di frizzi, voltandogli addosso le risate della compagnia, sprecando un tesoro di spirito e concludendo, inebetita la vittima, che non c’era gusto.

― Andate là — diceva qualche volta Fanny — stiamo più allegri noi che i sciori.

Allora si chiudeva il torrente delle risate e si aprivano i mille rivoli del pettegolezzo. Tutta la compagnia bisbigliava. Alla Giovanna quei bisbigli non piacevano; ma Catte sosteneva che a nu, poarini, era lecito, lecitissimo ascoltare alle porte, leggere le lettere, dar ordine alle tasche ed ai cassetti dei padroni. Non vanno alla commedia i padroni? Dunque anche la povera servitù ha da potersi godere la sua matta commedia, già che in casa la danno per niente. E se non la vogliono dare, ciò, la si prende. Quello non è rubare; agli occhi e alle orecchie non ci resta attaccato niente. Se si mette la mano in un cassetto è a fin di bene e non per brutte cose, e dopo, uno si lava nell’acqua del padroni.

La commedia in scena era questa: S. E. Nepo e il suo matrimonio. Quella gente aveva fiutato il titolo in aria per istinto. Si era ancora al prologo; un prologo occulto da cogliersi negli sguardi, negli atti, nelle parole più indifferenti, forse in qualche colloquio recondito in cui gl’interlocutori credevano non essere uditi neppure dall’aria. Catte ne aveva parlato lungamente a Fanny, rispondendo agli elogi che la cameriera civettuola faceva della bellèssa di Nepo, della bianchèssa di quelle mani da popòla e della sua gran scichèssa in generale. Catte le aveva rappresentata la cosa come un gran beneficio cui la Provvidenza, aiutata dalle Eccellenze Salvador, stava per recare a donna Marina. Ella magnificava non poco le ricchezze de’ suoi padroni, i due palazzi di Venezia, di qua e di là dall’acqua, la colossale villeggiatura con i porticati lunghi come le Procuratie, i reggimenti di statue, i granai capaci di sfamare tutti i topi e i pitocchi di Venezia, e la famosa aia grande come la Piazzetta. Fanny beveva queste notizie e le spandeva tra i colleghi: «Che senta, che senta! La dice così e così.» Pareva che stesse per ereditar lei tutta questa roba. Gli altri facevano spallucce. Che ne importava loro? E chiedevano a Fanny s’ella credeva di andar a far la principessa. Fanny, piccata, rispondeva: «Che sciocchezze!» Principessa no, ma intanta non sarebbe più stata ad ammuffire in quel mostro d’un sito, fabbricato dal diavolo per i suoi figli. Allora le si faceva osservare che il matrimonio non era poi mica ancora sicuro; e qui cominciavano le congetture, si avviavano delle conversazioni come questa:

— Lui già è innamorato morto. — Ho visto io ieri che alzandosi da tavola lei aveva impolverata la punta d’uno stivaletto. — Ouf, mica vero. — Come, mica vero? Ce lo dico io. E poi si mangian su cogli occhi. — Invece no. Lei non ci guarda quasi mai. È lui che è sempre lì a questo modo! — Storie! — Già si sa che la signora Fanny non vuol credere. — Perchè non voglio credere, signor Paolo? — Non ha preso su qualche mezza oncia, Lei, dal signor conte? — Ebbene, cosa c’è dentro? — Qualche bacio? — Bugie, bugiacce! Non ha vergogna? Nessuno me ne ha fatto dei baci a me. — Eh lasciate dire, benedetta. C’è la libertà qui. Prima se lassa far dopo se lassa dir; voi non c’entrate. E poi cos’è un bacio. Tempo buttato via. — Oh che süra Catte! — Cosa dice Momolo? Che si faccia l’affare o no? — Cosa volete che dica? Bezzi cercan bezzi. — Ehi, guarda un po’, è mica da merlo quella risposta lì. Già, l’è così la storia. Lui le fa l’asino, tanto per parere; e lei che ci vuol bene al padrone qui come al fumo negli occhi, lei se lo lascia fare tanto per cavarsela; ma l’è tutta una macchina dei vecchi. Han denari come terra e voglion fare un mucchio solo. — Tacete, ha ragione qui lui! Stamattina la contessa ha preso una rabbia, perchè sono andata in sala mentre l’era sola col signor conte e poi è venuto il Sindaco e non andava mai via, mai via e mai via, che bisognava vedere! Certo la ci voleva parlare e non ha potuto, perchè poi sono tornati a casa gli altri. È chiara, neh, süra Catte? — Come questo caffè, vecia.

Catte aveva poi dei colloqui intimi con Fanny nelle passeggiate vespertine che facevano insieme. Donna Catte

Picoleta ma furbeta

sapeva divertirsi alla commedia per conto suo e recitare per conto degli altri. Perchè mai cercava ella, così acuta e sarcastica, il favore della scipita Fanny? Perchè la blandiva con tutti i possibili cocolezzi? Perchè la faceva sempre parlare di donna Marina? Essa la strizzava come un limone, ed ebbe presto finito di spremerne il sugo, che non era molto davvero, benchè contenesse ogni sorta di cose. Le informazioni e i giudizi di Fanny, accomodati e cuciti da Catte a modo suo, erano pôrti a S. E. la contessa Fosca che li accoglieva con gravità solenne come avrebbe fatto, in argomenti di Stato, uno dei Cai antenati di suo marito. Ella seppe così che Marina era amica intima di Fanny e le confidava tutto; che godeva di una salute regolarissima e non aveva in tutta la persona un difetto, una cicatrice; che non aveva potuto soffrire il signor Silla; che portava biancheria di seta; che leggeva una quantità di libri gialli e rossi: che era mite come un’agnellina. Fanny aveva detto qualche altra cosa, una cosina ghiotta che Catte offerse alla contessa con molta arte, con uno straordinario sfoggio di segretezza. Ecco; pareva a Fanny che la marchesina fosse innamoratissima di Sua Eccellenza il conte. Ma la contessa, con quell’aria di dabbenaggine spensierata, sapea osservare e se ne intendeva di questi argomenti. All’udire la grande notizia alzò gli occhi in viso a Catte, la guardò un poco e disse solo:

— Sei vecchia, tu?

— Gesummaria, Eccellenza!

— Anch’io, sa!


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