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Il ventaglio rosso e nero
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CAPITOLO V.


Il ventaglio rosso e nero.


Una mattina la contessa Fosca e il conte Cesare si trovarono soli a colazione. Tutti gli altri erano andati a vedere il posto della futura cartiera insieme all’ingegnere Ferrieri, al Finotti e al Vezza, ritornati, il primo per gli affari, gli altri due per vedere un Orrido vicino, pochissimo conosciuto, dove s’era combinato di andare il giorno dopo.

La contessa Fosca pareva ancora più gaia del solito, aveva la parrucca per isghembo e lanciava al conte delle occhiate serie che non s’accordavano con il suo cicaleccio scherzoso. Parlava di cento cose, saltando di palo in frasca. Il conte le rispondeva a monosillabi, a brevi parole buttate là per voltar da sè la corrente. A ciascuna di queste risposte la contessa cambiava argomento, senza maggior frutto. Non se ne mostrava stizzita. Tutt’altro; anzi era sempre più amabile, tanto che il conte tra i suoi già, certo, sicuramente, le lanciò due occhiate di cui la prima, alquanto lunga, voleva dire: — «che diavolo c’è?» — e la seconda, assai breve, — «ho capito.» — Poi non la guardò più.

La contessa tacque un momento, si buttò indietro sulla spalliera della seggiola e si pose a giuocare frettolosamente col suo ventaglio verde, facendosi svolazzar i nastri della cuffia intorno al faccione ridente.

— Che peccato, Cesare? — diss’ella.

— Ma!

— Che peccato non esser più giovani!

— Oh, sicuramente.

— Si sarebbe andati a spasso anche noi, e invece ci tocca di star qui a guardarci come due trabaccoli marci in cantiere.

Il conte non potè trattenere un movimento combinato di tutte le rughe del viso.

— Eh — gridò la contessa — pensate voi se io sono andata giù un pochetto, d’essere un bel capo, voi? — Che arie! — Qui la contessa, vociferando sempre, si versò da bere.

— Eh, perchè mi fate quegli occhi? Credete che spanda? Non ho mica la tremarella, sapete. È la tovaglia di santa Costanza, questa? Perchè, digo, credo che siate di quel tempo. Dunque, cosa si diceva? Mi avete fatto perder la testa con le vostre smorfie. Oh Dio che caldo! E star qui con voi! Era ben meglio che fossi andata a vedere questa maledetta cartiera. Quelli si divertono! Via, siate buono! datemi una pesca. Se si divertono! Grazie, tesoro. Dite sì o no che si divertono?

— Non lo so.

— Non lo so? Io sì che lo so. Bello quel non lo so.

— Vi piace quella pesca?

— No, non val niente. Cosa c’entra la pesca? Lasciate star le pesche, caro voi. Che uomo che si perde con le pesche! Cosa dicevamo?

— Io? Niente.

— Niente fa bene per gli occhi e fa male per la bocca. Parlate, dite su. È un’ora che parlo io. Mi fate compassione. A questo modo scoppierete. Contate su. Perchè non volete che quei ragazzi si divertano?

— Udite — disse il conte sorridendo — io mi sono divertito molto da un’ora a questa parte e siete voi che mi fate compassione. Voi volete passare piano piano un’acqua un po’ larga e profonda e andate su e giù per la riva, cercando il ponte che non c’è. Non vi resta che saltare, cara cugina. Saltate pure, non vi farete male.

La contessa diventò scarlatta, e spinse via bruscamente il suo piatto su cui posava un calice pieno di barolo. Il calice si rovesciò sulla tovaglia, il conte trasalì, cacciò fuori tanto d’occhi e Sua Eccellenza esclamò: — Niente, caro. Nozze! Ecco.

Il conte sbuffava. Ci vollero tutte le tradizioni cavalleresche della sua casa per trattenerlo dal prorompere contro l’avventata cugina. Le macchie lo irritavano come se avesse avuto per blasone la pulitezza. Suonò furiosamente il campanello e gridò al servo: — Via tutta questa roba! Subito. — Fu una cannonata che gli portò fuori in foco e strepito quel groppo di collera e lo lasciò vuoto, tranquillo.

— Vi è passata, caro? — disse la contessa dopo che fu sparecchiato.

Il conte non rispose.

— Anche a me — soggiunse tosto Sua Eccellenza. — Parliamo dunque di questo affare. Sentite, Cesare. Voi a quest’ora, col vostro gran talento che avete, mi conoscete. Io sono ignorante, sono una povera scempia, ma de cuor. Sono tutta cuore. Quando si tratta delle mie viscere, della mia creatura, mi rimescolo tutta, quelle poche idee mi vanno in un mucchio, non vedo più niente, non so più niente. Sono una povera femmina così. Aiutatemi voi, Cesare, consigliatemi voi, guardate voi, dite voi, tutto voi, tutto voi. Voi siete del sangue del povero Alvise. È Alvise che mi dice di mettermi nelle vostre mani per nostro fio, per il mio Nepo.

Pronunciato questo nome, la contessa, intenerita, si asciugò gli occhi con un immenso fazzoletto.

— Perdonatemi, Cesare — diss’ella. — Sono madre, sono vecchia, sono insensata.

La voce singhiozzante della signora non era piacevole e non divertiva affatto il conte Cesare che aveva tirato indietro per isghembo la sua seggiola, e, posta una gamba a cavalcioni dell’altra, la dondolava in su e in giù, guardando la gentildonna veneziana del Palma.

Gli era nuovo quell’aspetto lagrimoso di sua cugina, e gli piaceva ancor meno degli altri. Dopo qualche momento di silenzio in cui la contessa si tenne il fazzoletto sul naso e sull’occhio sinistro, il conte voltò il capo verso di lei e continuando nel maneggio della gamba e ribattendo col dito medio della mano destra Dio sa che nota sulla tavola, disse:

— Dunque?

— Dunque, oh Dio, qui vedo certe cose che mi fanno paura. Mi capite. Anche in delicatezza non posso tacere. I ragazzi son ragazzi, si sa; ma noi altri dobbiamo aver giudizio anche per loro.

— Avete paura? Ma ditemi un poco, non era la vostra intenzione questa?

— La mia intenzione, benedetto? Ma no che non era la mia intenzione. La mia intenzione era di farvi conoscere mio fio, di fare che gli voleste bene, che gli deste dei buoni consigli anche su questo punto del prender moglie. Mi ha rifiutato due o tre partitoni, proprio coi fiocchi, non so perchè. Ho cercato, ho fatto cercare se avesse qualche intrigo, qualche pasticcio. Niente, non ha niente. Non è mica un frate, grazie a Dio, e avrà fatto anche lui, si sa, quello che fanno tutti i ragazzi, sfido! però con prudenza, con giudizio, da vecio. D’impegni neppur l’ombra. Dunque? Questa cosa non mi lascia dormire. Io non posso parlare. Egli crede che si cerchi solo l’interesse. Oh Dio, madre sono, e devo pensarle tutte. Lui non vede che il cuore, lo spirito, il talento, la bellezza, il suonare, il cantare e tante altre cose fatte di aria e niente come queste. Cose ottime, ma non bastano. Pensai che forse per ora non volesse legarsi. Ma no; seppi di certo che l’idea l’aveva; un’idea, là, per aria. Son dunque venuta, vi torno a dire, perchè gli deste dei buoni consigli. Marina? Ecco il mio torto. Non ho pensato che poteva innamorarsi di Marina. Sentite, Cesare. Io sono Betta dalla lingua schietta. Parliamoci candidamente, benchè sia la vostra nipote. Quella ragazza ha fatto un gran cambiamento. Nepo e io l’abbiamo conosciuta a Milano. Con tutte le sue ricchezze, con tutte le sue grandezze, a mio fio non è piaciuta niente affatto. Gli pareva superba, aristocratica. Perchè mio fio, in punto aristocrazia, ha tutte le Vostre idee, che si usano adesso, dopo che c’è l’Italia. Mio fio non è mica uno di questi spuzzette che vi tiran di naso se non avete quattro quarti. Allora vostra nipote non gli piacque troppo. Non mi è dunque neppur passato per la testa che cambiasse il vento. E ho avuto torto perchè adesso, lasciatemelo dire, la è proprio una gioia, un bombon. E poi le sue disgrazie! Non ho pensato alle sue disgrazie, non ho pensato al cuore che ha mio fio. Per il cuore Nepo è tutto me. Il gran cuore, figlio caro, è un peso che tira a fondo; chi ha gran cuore...

— Ebbene? — interruppe il conte a cui pareva tempo di concludere.

— Ebbene, non dovrei parlar così a Voi che siete suo zio, il suo secondo padre, ma Vi ho già detto la confidenza che ho. Ecco, non so se si possa lasciar andare avanti questa cosa. Vedo il diritto, vedo il rovescio, vedo questo, vedo quello, vorrei e non vorrei. Oh Dio, che strucacuor!

La contessa si portò ancora il fazzoletto agli occhi. In quella un uscio si aperse, e comparve Catte recando la tabacchiera di Sua Eccellenza. Costei si voltò inviperita e gridò tutto d’un fiato con voce stridente:

Cavève vu, che ve lo go dito tante volte che no vogio che stè a secar co se parla!

Catte posò la tabacchiera sopra una seggiola e si ritirò in fretta.

Il conte restò ammirato delle mobili emozioni di sua cugina, la quale, ripiegato lentamente il capo, si riportava il fazzoletto agli occhi.

— Adesso — diss’egli — posso dire una parola io?

— Oh, benedetto, se l’aspetto come la manna del cielo!

— Tutte queste cose che avete visto Voi, io non le ho viste; forse sarò miope. Ma lasciamo stare. Non è poi necessario che due persone perdano prima il sonno, l’appetito e la testa, per poter poi vivere insieme passabilmente. A ogni modo, non ci vedo chiaro neppur io in questa faccenda.

Gli occhi languidi e lagrimosi della contessa si ravvivarono di botto. Ella si posò il fazzoletto sulle ginocchia.

— Io non so vedere — seguitò il conte — quale razza di felicità possa uscire dalla unione di Vostro figlio e di mia nipote.

Ciò! — esclamò Sua Eccellenza sbalordita.

— Mia nipote ha molto ingegno e una testa delle più bizzarre che Domeneddio e il diavolo possano mettere insieme quando lavorano a chi più può.

— Ma che spropositi, Cesare!

— Niente affatto. Non lo sapete ancora che la marca di fabbrica di quei due signori si trova in tutte le cose di questo mondo? Bene; mia nipote avrebbe bisogno di un marito d’acciaio forte e brillante. Vostro figlio non è d’acciaio sicuramente. Oh, io non lo disprezzo per questo. Gli uomini d' acciaio non si trovano mica a dozzine. Io credo che vostro figlio, il quale, tra parentesi, non ha le mie idee sull’aristocrazia, non sia il marito che ci vuole per Marina.

La contessa Fosca, ch’era venuta slacciandosi la cuffia, dondolando il capo, e soffiando, rispose:

— Cos’è questo fare? Cos’è questo parlare? Cos’è questa roba? sapete che mi fate venir caldo? Non ho capito bene il vostro discorso, ma se mai fosse contrario a mio fio, come mi è parso, ho l’onore di dirvi con tutto il rispetto al vostro talento, che non intendete niente. Andate a Venezia a domandare di mio fio; sentirete. No che non è d’acciaio; d’oro è. Venite fuori con certe cose che mi fanno proprio uscir dai gangheri. D’acciaio? Si è mai sentito? D’acciaio si fanno le penne, anima mia.

La contessa interpose qui un breve silenzio e alcuni gravi colpi di ventaglio.

— Che roba! — continuò. — Non ve ne intendete. Oh, non ve ne intendete, figlio caro. E quella poveraccia di Marina, neppur quella conoscete, signor orso. Eh, no no, caro.

E giù quattro colpi di ventaglio.

Intanto il conte la guardava con uno stupore troppo espresso per essere del tutto sincero.

— Ma allora — diss’egli, — è vero, io non comprendo niente. Se avete queste idee, perchè diavolo Vi fa paura che vostro figlio faccia la corte a mia nipote?

— Sentite, Cesare, io avrò tutti i difetti e tutti i torti del mondo, ma son sincera. Mi prenderete in mala parte se parlo schietto? C’è anche questa, che se mio fio lo viene a sapere che vi faccio certi discorsi, poveretta me, non ho più pace. Mi raccomando, Cesare. Volete che ve lo dica? Questa cosa mi fa gruppo alla gola, stento a buttarla fuori. È una umiliazione grande, è una cosa contraria al mio carattere, ma i fatti son fatti, il dovere è dovere.

La contessa posò il ventaglio sul tavolo, si ripose il fazzoletto in tasca, si riannodò la cuffia, e poi ricominciò lenta e grave:

— Ecco qua. Pur troppo la famiglia Salvador di adesso non è più la famiglia Salvador di una volta. Il povero Alvise è stato molto disgraziato nei suoi affari; e poi abbiamo avuto il 48, e s’è fatto quel che s’è fatto. Non faccio per dire, ma se non era la roba mia i Salvador sarebbero andati a pescar moleche. La roba mia quando Alvise mi sposò, era tanta. Magari fosse vissuto ancora, benedetta l’anima sua! Si sarebbe in malora: ma contenti. Di quei pensieri, di quelle fatiche, di quelle privazioni ho avuto, figlio caro, che non Vi dico niente. Sempre mangiacarte per casa. Le campagne in man dei ladri, il fattore, capo. Mangia tu che mangio anch’io. Con duemila duecento campi in Polesine, mi toccava di comperare il riso per famiglia; non Vi dico altro. Oh Dio, che vita! Basta, a forza di stenti e di sacrifici, si drizzò la barca. Ma a questo punto dipende da Nepo che non si torni indietro; tutto dipende dal matrimonio che farà Nepo. E adesso ditemi, Cesare: se colla vostra bontà, se col vostro gran cuore non aveste raccolto quella povera Marina, come vivrebbe? Ditemi, benedetto, come vivrebbe?

— Col suo vivrebbe.

— Col suo?

La contessa Fosca aprì tanto d’occhi.

— Sicuramente. La liquidazione della sostanza di mio cognato ha dato ottantamila lire d’attivo.

— Bene, pane e acqua, parliamoci schietto.

— Io non sono veramente così gran signore da dir questo. Io apprezzo ottantamila lire. A me basterebbero.

— Bene, diremo: pane, acqua e pomi. E poi bisognerebbe vedere se vi basterebbero. E poi prendete una sposina giovane, bella, tutto fuoco, piantatevi a Torino o a Milano con dei maledetti nomacci di questa sorta, lunghi da qui come a Mestre, con una fila mai più finita di palle e di corni, perchè ci hanno ad essere anche quelli, vestitela, spogliatela, divertitela, scarrozzatela e anche... sto per dire... sì insomma, arrischiate di far crescere la famiglia, e mi saprete dire, coi vostri ottantamila cossa xeli, quanti salti farete. Io Vi parlo col cuore in mano, perchè Vi considero di famiglia, Cesare. La mia prima idea era quella di portar via Nepo sul momento; ma cosa avreste detto di me? Ho pensato di parlarvi prima come farei a un fratello; e così ho fatto.

— Vi ringrazio molto dell’onore — disse il conte. — Voi mi fate onore assai più che non crediate. Il consiglio che io Vi dò è di partir subito.

La contessa tacque, ferita al cuore.

Si udirono in quel silenzio mortale due mosche azzuffarsi dentro una zuccheriera.

— Eh certo — diss’ella. Pareva che Sua Eccellenza, dopo tante ciarle, si fosse trovata a un tratto senza fiato.

— Del resto — disse il conte — è molto possibile che non partirete. Dipenderà da mia nipote.

— Come da vostra nipote?

— Sicuramente. È la mia coscienza che mi ha imposto di darvi quel consiglio, perchè non credo che mia nipote e Vostro figlio si convengano. Ma voi non avete questa opinione, neppure Vostro figlio pare che l’abbia, e potrebbe darsi che non l’avesse neppure mia nipote, la quale è perfettamente in grado e in diritto di avere una opinione. Allora capite bene che io non potrei nè vorrei far prevalere la mia.

— Andate alla Sensa, Cesare? Dopo tutto quello che Vi ho detto...

Il conte si alzò e la interruppe.

— Volete favorire nella mia biblioteca? Ho la debolezza di trattare sempre gli affari in quel luogo.

La contessa voleva replicare qualche cosa, ma suo cugino, aperto l’uscio, le accennò che passasse. Intascò poi la tabacchiera posata da Catte e seguì la contessa. Quando Sua Eccellenza si fu accomodata in un seggiolone della biblioteca, il conte si mise a camminare su e giù per la sala, muto, con la testa bassa e le mani in tasca secondo il suo solito. Sua Eccellenza lo guardava senza aprir bocca, sbalordita. Fatti cinque o sei giri, il conte le si fermò in faccia, la guardò un momento e disse:

— Che vi pare di trecentoventimila franchi?

Il viso di Sua Eccellenza diventò paonazzo. Ella balbettò qualche parole inintelligibile.

— Trecentoventimila miei e ottantamila suoi fanno quattrocentomila. Che vi pare di quattrocentomila franchi?

— In nome di Dio, Cesare, cosa volete dire? Non capisco!

— Oh, Voi capite perfettamente — disse il conte con un accento inesprimibile. — È un mistero pel quale non vi mancava nè la fede nè la speranza prima di parlare con me. Io Ve ne ringrazio molto. Voi mi avete fatto l’onore di credere che provvederei con sufficiente larghezza al collocamento di mia nipote, benchè non ne abbia alcun obbligo ed ella non porti il mio nome. Non è questo?

Sua Eccellenza si slacciò da capo la cuffia e proruppe:

— Sa Lei, sior, cosa ho l’onore di dirle? Che a questo modo si tratta con i facchini e non con le dame. Mi meraviglio che in quella fresca età Ella non abbia ancora imparato a trattare il mondo. E mi meraviglio che con i suoi strambezzi, con i suoi zimarroni, e con la sua zazzera La creda di poter fare e dire tutto quello che Le salta in testa. Ella sarà nobile, caro, ma non la è cavaliere. Credete che se si trattasse di me non vi direi: teneteveli i Vostri bezzi? Credete che rimarrei un’ora di più in questa casa dove mi si manca di rispetto? Ringraziate Dio che di me non si tratta, perchè io non ho bisogno nè di mio fio, nè di altri, e del mio me ne avanza e non saprei che farmi dei Vostri trecento pun! nè dei vostri quattrocento, pun, pun! E io povera insulsa, che vengo a parlarvi come a un fratello! Ringraziate Dio, vi dico, che sono vecchia e userò prudenza con mio fio; se sapesse che gli si attribuiscono mire d’interesse sarebbe capace di sacrificare il suo cuore, la sua felicità e tutto quanto.

Il calore di quest’arringa non era punto simulato. La contessa Fosca, dopo aver condotto suo cugino al punto che voleva lei, si reputava offesa di sentirselo a dire. E c’entrava forse nel suo dispetto quest’altra piccola delusione, che il conte non avesse detto addirittura, com’ella sperava: Marina è mia erede.

Il conte stette mansuetamente ad ascoltare la sfuriata di sua cugina, come se non fosse affar suo; e si appagò di rispondere:

— Il vino che versate lascia macchia; le parole no.

La contessa non parve udirlo. Ella si era già alzata e muoveva brontolando verso l’uscio. Suo cugino in piedi, chino sul petto il capo formidabile, la guardava sorridendo: forse perchè Sua eccellenza pareva una papera che, offesa da qualche villano nel suo pasto o nei pacifici colloqui con le amiche o nella contemplazione solitaria, dopo una schiamazzata e una corsa se ne va grave e degna ma tuttavia commossa, mettendo ad intervalli le voci brevi e sommesse dello sdegno suo che si placa. Quando ella fu presso all’uscio il conte si scosse.

— Aspettate — diss’egli.

Sua Eccellenza si fermò e girò un poco la testa a sinistra.

Il conte le venne alle spalle, porgendole un oggetto che teneva con la mano e batteva con la destra.

Sua Eccellenza girò la testa un altro poco e gittò un’occhiata obliqua alle mani del conte; dopo di che girò tutta la persona.

Era una tabacchiera aperta che il conte le tendeva.

Sua Eccellenza esitò un poco, fece una smorfia, e disse bruscamente:

— È Valgadena?

Il conte, per tutta risposta, ripicchiò la tabacchiera con due dita.

Sua Eccellenza porse il pollice e l’indice, soffregandone i polpastrelli uno contro l’altro, con inquietudine voluttuosa; li immerse quindi nel tabacco morbido e disse con voce alquanto raddolcita:

— La fu una grande indegnità, sapete, Cesare. — S’accostò alle nari la sua presa. — Una cosa orribile — diss’ella.

E fiutò il tabacco. Lo fiutò una, due, tre volte, abbassò il capo sulla tabacchiera, aguzzò le ciglia e afferrò la sinistra del conte.

— Ohe — diss’ella — anche ladro siete?

Il conte rise e le diede la tabacchiera dicendo:

— Siamo intesi, non manca più che l’assenso di Marina.

Sua Eccellenza uscì e gli chiuse, con poco garbo, la porta in faccia. Passando per la loggia vide le due barche di casa che tornavano. Allora Sua Eccellenza si affrettò di salire nella sua stanza per lasciarvi il suo ventaglio verde e pigliarne un altro nero a fiori rossi, con il quale tornò in loggia e si affacciò, facendosi vento, alla balaustrata.

Le due barche brillavano al sole, sul lago verde, a qualche centinaio di metri. I remi scintillavano nell’entrare e nell’uscir dall’acqua. Un gaio miscuglio di voci e di riso veniva all’orecchio di Sua Eccellenza, quando più quando meno forte, secondo il vento. Quelle barche parevano farfalline cadute nell’acqua, che vi si dibattessero faticosamente agitando le ali, lasciando dietro a sè due lunghe, sottili tracce convergenti. Saetta precedeva con la bandiera ammiraglia; un po’ a sinistra si vedeva la coperta bianca del battello. Marina, Nepo, il Finotti ed il Vezza venivano con Saetta; nel battello stavano gli Steinegge, il Ferrieri e don Innocenzo, che s’era imbattuto per caso nella brigata e s’era unito a’ suoi amici e all’ing. Ferrieri, anche perchè questi, conosciutolo per il parroco del paese, gli avevano fatto un po’ la corte. Nel battello si conversava tranquillamente. Edith difendeva la sua lingua nativa contro l’ingegnere che l’accusava, un po’ volgarmente, di asprezza. Ella sosteneva che l’idioma tedesco è capace di una particolare dolcezza a tempo e luogo, come nella poesia, e ha pei movimenti dell’anima parole dolci come Liebe, weh, fühlen, sehnen, che acquistano dal prolungamento della vocale un suono misterioso e profondo. Diceva queste cose interrottamente, timidamente, nel suo italiano freddo, irrigidito. Mentre ella parlava, suo padre guardava don Innocenzo, guardava l’ingegnere, guardava persino il barcaiolo, con certi occhi scintillanti che dicevano: — Eh, che vi pare? — Don Innocenzo ascoltava con attenzione vivissima e andava rimasticando fra i denti le parole tedesche citate da Edith, esagerandone l’accento onde persuadersi che fossero armoniose, mettendo degli hm, hm, di dubbio. L’ing. Ferrieri s’imbarazzava nella discussione più che non convenisse a un uomo di spirito; rispondeva breve e anche a sproposito alle chiamate che venivano dalla lancia.

Nella lancia remava il Rico, regnava e governava donna Marina elegantissima nel suo abito di flanella color tortora, tutto liscio, abbondante e fedele in pari tempo alle linee della bella persona, come se ne fosse stato il solo vestimento. Dalla cintura di cuoio giallo chiaro le cadeva sul fianco sinistro una minuta pioggia di catenelle d’oro. Un piccolo medaglione d’oro le pendeva sul gran nodo della cravatta di seta color marrone. Un cappellino rotondo pure color marrone, a penna d’aquila, le posava sul delicato viso un accento di capriccio altero. Portava i guanti del colore della cintura, e stringendo i cordoni verdi del timone appuntava i gomiti indietro, rivelava intera l’eleganza del busto, il disegno delle gambe di cui l’una si ripiegava indietro, l’altra slanciava verso il Rico la punta d’uno stivaletto tutto scuro picchiettato di bottoncini bianchi. Ell’aveva il Finotti a destra e il Vezza a sinistra. Nepo se ne stava seduto malinconicamente a prora. Marina lo trattava male quel giorno, il povero Nepo. L’aveva guardato una volta sola, entrando nella lancia, per fargli comprendere che cedesse il posto migliore ai nuovi ospiti. I due commendatori non avevan fatti complimenti, le si eran seduti ai fianchi con prontezza giovanile, il Finotti acceso in volto di fuoco mefistofelico, il Vezza irradiato dallo stesso placido sorriso di cui lo illuminava talvolta la visione beatifica di una coscia di tacchino ai tartufi. Non riconoscevano più la Marina fredda e silenziosa dell’altra volta. Questa nuova Marina sfavillava di spirito e di civetteria. Il commendatore politico avrebbe dato, non dico il suo collegio, ma tutti gli amici suoi per essere, un’ora, il suo amante; il commendatore letterato avrebbe dato tutte le vecchie bas-bleu conservatrici di Milano che lo tenevano nella bambagia come una reliquia classica. L’uno e l’altro le parlavano della bellezza e dell’amore, tanto per avvicinarsi in qualche modo a lei, per sentir meglio la elettricità della sua presenza; il Finotti con un linguaggio fremente di passione sensuale, mal coperta; il Vezza con la sua rettorica blanda e la sua vanità beata. Parlava di lettere scrittegli da sconosciute lettrici delle sue opere; lettere odorate, diceva lui, di quei vapori che l’amore esala come il vino delicato e bastano a inebriare chi ha i sensi squisiti. Allora il Finotti lo canzonava, diceva di non invidiargli il vecchio vino santo delle sue venerabili amiche di Milano, vino scolorato, vino da conviva satur che sta per levarsi dalla tavola e dalla vita. Egli amava il vino giovane, pieno di luce e d’ardore, che va come un fulmine alla testa, al cuore, alla coscienza, perchè quello solo sa dove diavolo sia la coscienza, il vino che ha indosso tutto il fuoco del sole e tutte le passioni della terra, carico di colore e di gas, che fa saltare le bottiglie e gli scrupoli.

— Senta, signor Vezza — disse Marina ex abrupto — rispondeva Lei a quelle lettere?

Il signor Vezza, che si prendeva il suo dolce » commendatore » col caffè mattutino della serva, come al caffè vespertino della dama e sempre di grande appetito, soffriva della privazione inflittagli da Marina. Ma bisognava rassegnarsi; Marina non accordava a nessuno titoli che non fossero di nobiltà.

— Rispondevo alle belle signore — diss’egli.

— Sentiamo questa meraviglia di finezza — disse Marina guardando con aria negligente il remo del Rico.

— Non c’è finezza, marchesina. Si potrebbe dire che nelle lettere anonime delle belle donne c’è sempre un’ombra di riservatezza e in quelle delle brutte c’è sempre un’ombra di abbandono; ma sarebbe volgarità. È l’istinto che bisogna avere, l’istinto della bellezza. Quando Lei, marchesina, entra in un primo piano, bisogna che lo studente, assopito al quarto sul Diritto Costituzionale qui dell’amico Finotti, trasalisca! Che ne dice Lei, conte?

Ma Nepo non dava retta alla conversazione. Nepo stava guardando con grande interesse il Palazzo. Pensava se sua madre sarebbe in loggia, se avrebbe in mano il ventaglio verde o il ventaglio nero e rosso o il fazzoletto bianco. Se la contessa non era in loggia, voleva dire che non aveva potuto fare il gran discorso; se c’era, il ventaglio verde significava mala riuscita, il rosso e nero buona; il fazzoletto bianco voleva dire Marina avrà tutto.

Egli si scosse alla domanda del Vezza e rimase a bocca aperta. Non aveva capito. Marina si strinse impercettibilmente nelle spalle e parlò al Finotti. Il Rico, ch’era sempre molestato e canzonato da Sua Eccellenza, voltò la testa e lo sbirciò con due occhi scintillanti di malizia.

— Bada a vogare, imbecille — gli disse a mezza voce Sua Eccellenza. Il Rico rise silenziosamente mordendosi le labbra e tenne fermi sull’acqua i remi grondanti, per aspettare il battello che ad ogni tanto restava indietro. Si udì il Ferrieri discorrere forte. Il Vezza lo chiamò, e non avutane risposta, disse qualche cosa su lui e la signorina Steinegge. Marina porse una boccuccia come per dire — cattivo gusto — e l’altro sussurrò sorridendo: — Matematico!

— Va! — disse Marina al Rico.

La prora lunga e sottile guizzò avanti dividendo le immobili acque verdi. Rade foglie addormentate su quello specchio le venivano incontro, passavano veloci al suo fianco, si dilungavano a poppa, si perdevano. Anche il Palazzo le cresceva in faccia, si allargava, si alzava, spalancava porte e finestre; i cipressi, dietro quello, si staccavano dalla montagna e venivano incontro alla barca; la montagna stessa moveva dietro a loro. La macchia nera nel terzo arco della loggia diventava una donna, una matrona, la contessa Fosca con un farfallone rosso e nero sul petto. Si udì lo zampillo del cortile, si udì la voce della contessa:

— Siete qua, benedetti?

— Siamo qua. Bellissima gita, mamma, allegria perfetta, molti incidenti, nessun accidente. Ossia mi correggo, un accidente solo; mia cugina ha avuto molto spirito e io non ne ho avuto punto.

Gridando questo, Nepo si adattò solennemente le lenti sul naso e contemplò Marina.

Pareva un altro uomo. Aveva scosse le braccia per far scendere i manichini sino alle nocche delle dita e guardava sua cugina con un sorriso da trionfatore sciocco. Marina fece mostra di non aver inteso la sua impertinenza e si voltò a vedere se veniva il battello. Intanto la prora di Saetta e Nepo e il Rico e i commendatori e la dama e la bandiera entravano via via nella fredda oscurità della darsena, dove la voce di Nepo rimbombava già tra le grandi volte umide e l’acqua verde come una lastra di smeraldo.

Egli scosse il capo per farsi cader le lenti dal naso, saltò vezzosamente a terra con le braccia aperte e le ginocchia piegate, porse la mano agli altri e poco mancò non li facesse stramazzar nell’acqua dalla lancia che il freddurista Vezza chiamava bilancia per la sua sensibilità ad ogni squilibrio di peso. Quando venne la volta di Marina, le stese ambedue le mani, strinse forte quelle di lei; ella corrugò un momento la fronte, saltò a terra e si sciolse. Sulle scale la comitiva incontrò Fanny addossata a un angolo, con gli occhi bassi. Li alzò con un sorrisetto su Nepo, che veniva ultimo. Pareva aspettarsi qualche cosa: ma Nepo, che aveva arrischiato i primi giorni ora una parolina, ora una carezza silenziosa, le passò davanti senza neppur guardarla. Ella fece il viso scuro e scese lentamente.

Il conte Cesare venne, molto festoso, a incontrare i suoi ospiti a capo della scala e fu gentilissimo con don Innocenzo. La contessa Fosca abbracciò Marina come se non l’avesse vista da dieci anni e non salutò Steinegge che al suo quarto inchino. Marina lasciò subito la sala dove si era raccolta tutta questa gente, e così fece Edith.

Intanto il conte, il Ferrieri e don Innocenzo disputavano, in un canto, della nuova cartiera in relazione all’igiene e alla moralità del paese che, secondo il conte, ne avrebbe guadagnato poco. Don Innocenzo, inesperto entusiasta d’ogni progresso, sbalordito dalla descrizione del futuro edificio, delle macchine potenti commesse nel Belgio, per esso, era più roseo, non voleva veder guai. Gli altri s’erano aggruppati presso una finestra e discorrevano di politica. La contessa voleva assolutamente sapere dal Finotti per quanto tempo gli austriaci sarebbero rimasti a Venezia. Il Finotti che aveva già seduto al centro sinistro della Camera subalpina, andava a Corte, ci godeva favore e non poteva soffrire i ministri, prese subito un’aria d’importanza, di mistero, e disse che a Venezia si sarebbe potuto andar presto, ma con altri uomini. La contessa non poteva darsi pace di questa cattiva direzione della diplomazia italiana, sbuffava, voleva che il Finotti insegnasse la strada buona al re, che la insegnasse ai ministri. Se i ministri non potevano impararla si cambiassero, questi stolidi, si buttassero in acqua. Figurarsi, se a Venezia sapessero queste cose! Già, ell’aveva visto a Milano il ritratto del ministro in capo; a cosa doveva esser buono, la me anima, con quel dio di naso?

Nepo la interruppe, rosso, rosso, dicendole che di politica lei non capiva niente e che la finisse con tante sciocchezze. Fu come un rovescio d’acqua diaccia. Steinegge aggrottò le ciglia, gli altri tacquero. La contessa Fosca, avvezza a questi omaggi filiali, osservò tranquillamente che spesso le donne hanno più politica degli uomini.

— Sempre — disse il Vezza — e il gabinetto di Torino non val niente in confronto del Suo, contessa.

Anche il Finotti e lo Steinegge si stemperarono in complimenti. Nepo si trovò impacciato, si adattò con ambe le mani l’occhialino sul naso, e facendosi vento col fazzoletto, uscì in loggia.

Mentre egli vi metteva piede, Marina pure vi entrava dalla parte opposta.

Ella vide Nepo, parve esitare un momento, andò lentamente ad appoggiarsi alla balaustrata verso il lago, nell’ombra di una colonna: e voltò la testa a guardar suo cugino.

Nepo non poteva dare addietro. Avrebbe voluto parlar con sua madre, saper da lei precisamente come fosse andato il colloquio con il conte Cesare, prima di muovere un passo avanti; ma poichè sapeva che le cose in complesso eran procedute bene, come mai ritirarsi davanti al silenzioso invito degli occhi di Marina! Dicevano chiaro: vieni, siamo soli.

Malgrado la sua vanità egli era imbarazzato. Non aveva tentato fino a quel giorno che sartine, modiste e cameriere, limitandosi con le dame e con le damigelle a colloqui fraterni. Il cuore non gli diceva nulla e la mente ben poco.

Andò a mettersi a fianco di Marina, appoggiò le braccia sulla balaustrata e scosse dal naso l’occhialino.

— Cara cugina, — diss’egli.

Le lenti cadendo sul marmo andarono in pezzi.

Nepo ne sciolse le reliquie dal cordoncino, le esaminò e le lasciò cadere sul macigno sottoposto sospirando: — Erano di Fries.

Recitata questa concisa orazione funebre, ripigliò:

— Cara cugina.

Dietro a lui uscivano sulla loggia le voci della contessa Fosca, del conte Cesare, degli altri, mescolate alla rinfusa in un guazzabuglio scordato.

— Caro cugino — rispose Marina, guardando fuori del piccolo golfo il lago aperto dove i primi fiati della brezza meridiana chiazzavano qua e là di rughe plumbee le immagini dei nuvoloni bianchi e del sereno. V’ebbe un momento di silenzio. Bolliva sempre là in sala il guazzabuglio delle voci scordate.

— Quali deliziose giornate non ho passato qui con Voi, cara cugina!

— Davvero?

— Perchè, perchè non potrebbe esser sempre così?

Egli aveva trovato il motivo e continuò a voce bassa, con accento enfatico, come se recitasse la perorazione di un discorso parlamentare.

— Perchè queste deliziose giornate non possono essere il preludio di una vita deliziosa a cui tutto c’invita, le nostre tradizioni di famiglia, la nostra nascita, la nostra educazione, la nostra simpatia?

Marina si morse il labbro inferiore.

— Sì — ripigliò Nepo, infervorandosi al suono della sua voce stessa e frenando a stento un gesto oratorio.

— Sì, perchè anch’io, che pure ho vissuto nella migliore società di Venezia e di Torino e vi ho stretto cordiali amicizie con una quantità di belle ed eleganti signorine, anch’io sin dal primo vedervi ho provato per voi una simpatia invincibile...

— Grazie — sussurrò Marina.

— ...una di quelle simpatie che diventano rapidamente passioni in un giovanotto come me, sensibile alla bellezza, sensibile alla grazia, allo spirito, sensibile alle squisitezze più recondite e più delicate della eleganza. Perchè Voi, cara cugina, Voi possedete tutte queste cose, Voi siete una statua greca, animata in Italia, educata a Parigi, come diceva con meno ragione il ministro dell’Inghilterra parlando della contessa C... Voi potrete un giorno rappresentare con molto splendore la mia casa nella capitale, sia in Torino, sia in Roma; perchè io finirò certo per avere alla capitale una posizione degna del mio nome, degna di Venezia. Io vi parlo, cara cugina, un linguaggio più serio che appassionato, perchè qui non comincia ora un romanzo, ma prosegue una storia.

Nepo si fermò un momento per applaudirsi mentalmente di questa frase in cui il pensiero e la voce correvano insieme ad un tonfo di tanto effetto nella parola storia.

— È la storia — proseguì — di due illustri famiglie, sostegno l’una della più gloriosa repubblica, ornamento l’altra della più illustre monarchia italiana, sorte, la prima nell’estremo oriente, l’altra nell’estremo occidente d’Italia, che strinsero parentela in tempi remoti di prepotenze straniere e di discordie nazionali, quasi preludendo e augurando alla futura Unità; che in tempi più vicini, in tempi calamitosi per i loro due Stati rinnovarono il patto, e che stanno per riconfermarlo ancora in mezzo agli splendidi avvenimenti del nuovo gran patto nazionale...

Nepo era spossato dall’improba fatica di contenere la sua voce e la sua eloquenza. Chi sa dove sarebbe andato a finire, con le migliaia di frasi che aveva in testa, senza una buona strappata di redini.

— Marina — diss’egli — volete esser contessa Salvador? Io aspetto con piena fiducia la vostra risposta.

Marina guardava tuttavia il lago e taceva. Le voci della sala si spensero in quel momento; la contessa Fosca s’affacciò alla loggia. Ella si ritirò subito, rientrò in casa parlando forte; ma gli altri fecero irruzione in loggia.

— Mi appello a Lei, marchesina, — gridava il commendator Finotti, seguito dal commendator Vezza che si stringeva nelle spalle sorridendo e ripetendo: Ha torto, ha torto.

Soltanto allora Marina si scosse come per uscire dalla corrente dei suoi pensieri, disse sottovoce a Nepo: — A domani — e lasciò la balaustrata.

Nepo si voltò corrucciato a guardar gl’interruttori e vide dietro ad essi sua madre, che gli diceva con un lungo sguardo lamentevole e con le braccia aperte:

— Come si fa?


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