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L'Orrido
Parte seconda - V Parte seconda - VII

CAPITOLO VI.


L’Orrido.


Si doveva partire per l’Orrido alle dieci del mattino, c’era da percorrere il lago sino alla sua estremità di levante e poi da salire la valle che lo alimenta con il torrentello di cui appunto sono lavoro le caverne dell’Orrido. Andavano tutti, tranne il conte.

Nepo fu in piedi per tempo e scese in giardino, dove aveva veduto qualche volta Marina passeggiare prima di colazione. Quel giorno ella non venne. Nepo, orbo del suo occhialino, girava a destra e a sinistra, frugando quasi con il lungo naso le macchie e i cespugli, odorando l’aria, palpitando al lontano apparire del giardiniere scamiciato. Marina non si lasciò vedere neanche a colazione; non era cosa insolita.

Venne solo Fanny a pregare Edith da parte della marchesina di voler salire un momento da lei. Scesero quindi insieme al battere delle dieci. Nepo non potè avere da Marina che un — buon giorno — svogliato, buttatogli dall’alto come un mozzicone di sigaro. Ella prese il braccio di Edith e discese in darsena, lasciando addietro la contessa Fosca, Nepo, i tre grandi uomini e Steinegge. Quando costoro entrarono in darsena, Saetta ne usciva con Edith, Marina e il Rico. Vi ebbero proteste. — Buon viaggio, — disse Marina, — noi precediamo. — La sua voce non poteva essere più dolce, non poteva essere più grazioso il cenno con il quale accompagnò le parole; pure nessuno insistette.

La contessa Fosca guardò Nepo, seria: questi volle fare il disinvolto e gridò un complimento alle crudeli fuggitive. Il Ferrieri e i commendatori parvero molto seccati.

Le due barche si dilungarono verso quello stretto dove il lago fa un gomito e corre ad appiattarsi dietro un alto promontorio selvoso, fra salici e canneti. Saetta precedeva il battello d’un buon tratto, malgrado le voci supplichevoli che partivano spesso da quest’ultimo perchè la lancia bizzarra non avesse a correr tanto. Esso pareva un uomo gottoso che anfanasse dietro un nipotino monello sfuggitogli di mano. Marina non mostrava udire quelle voci, e al Rico bastò un’occhiata per intendere che non dovea smettere nè rallentar di remare. Presto, di Saetta non apparve ai viaggiatori del battello che un punto bianco, la bandiera oscillante lontano tra l’azzurrognolo confuso del lago e dei vapori mattutini ancora avvolti alle montagne.

Edith era commossa. Quella gran luce in cui nuotava la barchetta, i milioni di brillanti che il sole spandeva sulle acque increspate dalla brezza, i verdi vivacissimi dei monti vicini, le tinte del fondo sfumate, calde, non le ricordavano più la Germania come i prati stesi davanti alla canonica di don Innocenzo. Ella non poteva parlare; sospirava.

— Qual sentimento prova? — le chiese Marina dopo un lungo silenzio.

— Non lo so; desiderio di piangere — rispose Edith.

— E io di vivere, d’esser felice.

Edith tacque, sorpresa dal subito fuoco che brillò nel viso e sollevò il petto di Marina.

— Ho molta stima di lei — soggiunse questa bruscamente.

Edith la guardò attonita.

— So benissimo di esserle antipatica — ripigliò l’altra; — fa niente.

— Ella non mi è antipatica — rispose Edith con voce ferma e grave.

Marina si strinse nelle spalle.

— Va come puoi — gridò al Rico, gettando i cordoni del timone e voltandosi a Edith per parlare. Ma Edith la prevenne.

— So — diss’ella — che non è stata gentile con mio padre, e per questo non posso essere affettuosa con Lei. Vorrei dire la cosa in tedesco, perchè in italiano non so se dico bene. Ella tuttavia intenderà il mio sentimento. Non ho nessuna antipatia.

— Ella si stabilisce a Milano? — chiese Marina.

— Sì.

— Mi scriva, da Milano.

Edith pensò un momento e rispose:

— Non posso scriverle come amica.

— Ella è schietta, signorina Edith; non più di me, però; non ho detto di avere amicizia per lei, ho molta stima. Già non c’è amicizia fra donne. Non domando lettere sentimentali, vuote e false. Cosa vuole che ne faccia? Domando alcune informazioni. Non c’è bisogno di amicizia per questo.

— Nè di stima.

— Di stima sì. Non domando servigi a persone che non stimo, e sono sicura ch’Ella mi renderà questo malgrado i Suoi risentimenti. Non mi ha già fatto il piacere, stamattina, di venire in barca con me sola?

— Quali informazioni desidera?

— Vede? Lo sapevo. Le dirò più tardi quali informazioni.

Dopo qualche tempo Marina uscì con quest’altra domanda:

— Sua madre era nobile?

— Sì.

— Si capisce.

Edith si fece di fuoco. I suoi occhi intelligenti lampeggiarono.

— Non conosco persona più nobile di mio padre, — diss’ella.

— Che Le pare di mio cugino? — domandò Marina senza curarsi di quella risposta, come se non potesse pervenire sino all’altezza sua.

— Non lo conosco.

— Non lo ha visto, non lo ha udito parlare?

— Oh, sì.

— Rema — disse Marina al Rico, battendo forte un piede sul fondo della lancia. Udendo parlare di Nepo, quegli porgeva la sua testolina curiosa e muoveva appena le braccia. All’ordine di Marina rise arrossendo, poi fece il viso serio e diede due gran colpi di remo cacciando indietro a destra e a sinistra due gran vortici di spuma. Tacendo le signore, cominciò lui a metter fuori qualche parola, nomi di paesi e di montagne. Marina aveva ripigliati i cordoni del timone e non gli badava. Edith gli fece delle domande; allora la sua parlantina ruppe gli argini. Dai monti di Val... si udiva, di quando in quando, un fioco squittir di bracchi portato dal vento. Il Rico spiegò ad Edith che quelli non eran cani, ma spiriti, gli spiriti della Caccia selvatica. Chi si fosse abbattuto a vederla doveva morire entro pochi giorni. Edith si compiacque di ritrovare la tradizione tedesca, e domandò se ci fossero strade per quei monti. Il ragazzo rispose che v’erano dei sentieri, fra i quali uno buonissimo che si poteva prendere per ritornare a piedi dall’Orrido al Palazzo.

Intanto la lancia passava davanti a Val Malombra, radeva l’alto promontorio coronato di selve. L’acqua vi era profondissima sotto gli scogli protesi. Il Rico sosteneva che il lago vi s’inabissava dentro caverne smisurate, perchè sopra quegli scogli v’era una buia fessura, detta il Pozzo dell’Acquafonda, dove gittando pietre le si udivano schiaffeggiar l’acqua. E cominciò a dire come converrebbe esplorar quelle caverne occulte. Marina si impazientì e lo fece tacere.

Saetta entrò poco dopo nell’ombra, approdò fra due macchie di salici grigiastri, sulla ghiaia bianca di un torrentello che versava al lago, di pozzanghera in pozzanghera, tremole fila d’acqua silenziosa. Dietro ai salici tacevano prati oscuri, freddi, e si celavano a manca insieme al torrente, nelle ombre azzurrognole della valle tortuosa. Ardeva in alto, al sole, il dorso delle montagne; quel buco nero lì pareva la tana del novembre. Quando anche il battello ebbe girati gli scogli del promontorio, si udì la contessa gridare — che freddo! che orrore! — si vide un agitarsi, uno stendere di braccia che infilavano soprabiti, e il conte Nepo che si avvolgeva al collo un fazzoletto bianco.

Il Rico doveva guidar la compagnia all’Orrido, ma prima di partire, sorse la questione della contessa Fosca. Sua Eccellenza aveva creduto che l’Orrido fosse quello lì; interrotta da un baccano di proteste, si meravigliava delle meraviglie altrui; il luogo le pareva brutto abbastanza. E ora cosa si pretendeva da lei infelice? Che sgambettasse per due o tre ore su quel dio di sassi? Che stesse lì ad aspettar gli altri in quella sorbettiera? Nepo sbuffava, la rimproverava di non esser stata a casa. Steinegge protestò con enfasi, il Vezza a fior di labbra, che non avrebbero mai lasciata sola la signora. Nè il Finotti nè l’ingegnere dissero parola, la conclusione si fu che Sua Eccellenza avesse a recarsi con Steinegge a un’osteria che si vedeva brillare al sole a un chilometro lontano dove la strada provinciale tocca il lago. Il Rico affermava che si poteva calarvi direttamente dall’Orrido per un altro sentiero. Quando il battello si staccò dalla riva il commendator Finotti domandò qualche cosa al Rico e si voltò poi a gridare:

— Coraggio, contessa! È qui vicino l’Orrido!

Xelo colù? — chiese Sua Eccellenza agli altri, additando il commendatore.

La comitiva si pose in cammino pel torrente seguendo il Rico che saltava di sasso in sasso come un ranocchio. Prime gli tenevano dietro Edith e Marina, poi veniva il Ferrieri, gran camminatore, gran valicatore di montagne. Alle sue spalle trottava Nepo, tutto sbilenco, sudando per l’angoscia di camminare frettoloso sui ciottoli aguzzi. Egli si studiava d’intenerir Marina sul fatto dei due commendatori di retroguardia che mettevano veramente pietà. — Caro cugino — disse Marina voltandosi indietro e fermandosi. — Vi prego di rappresentar qui mio zio e di tener compagnia ai suoi tre ospiti.

Nepo e il Ferrieri, capìta l’antifona, rallentarono il passo e si raccolsero, mogi mogi, a’ commendatori che avanzavano, il Finotti bollente e ansante, l’altro seccato e scorato. Come videro le signore dilungarsi anche dagli altri due, cadde loro la speranza di raggiungerle e sostarono a respirare un poco, fremendo contro Marina, maledicendo chi aveva messo fuori pel primo la bella idea di venire a quello sconsolato massacro di piedi. Intanto sopravvenne loro il Rico, mandato da Marina perchè non avessero a smarrire la strada. Marina stessa non la conosceva, ma se l’era fatta insegnare dal ragazzo e camminava rapidamente senza parlare.

Edith le teneva dietro, silenziosa e nervosa essa pure, ma per altre cagioni. Intorno a lei e più ancora dentro a lei suonava una sola parola: — Italia! Italia! — Da quando era venuta al Palazzo, se si trovava sola, se le sfuggiva un momento il pensiero di suo padre e dell’avvenire, le sfolgorava subito in cuore questa parola: — Italia! — Allora stendeva la mano per toccare qualche cosa di vero, di solido, e guardando l’orizzonte o qualche striscia bianca di strada lontana, palpitava e si perdeva in un desiderio indistinto. Adesso ell’aveva bisogno di fermarsi spesso per guardare a misura che la via saliva, lo svolgersi lento e maestoso delle montagne, in alto il verde pieno di sole che saliva fino al cielo sereno, dietro a lei, al basso, il lago che s’allargava sempre più verso ponente.

— Ah! — disse Marina entrando nel sole — ci siamo.

Ella saltò di gioia tuffandosi nella luce e nel calore. Passava allora fra due campicelli di grano saraceno. Una nuvola di farfalle si alzò dai fiori bianchi del grano, vi aleggiò sopra per breve tempo e tornò a posarvisi.

— Pare neve — disse Marina volgendosi per la prima volta, a Edith.

Ma Edith era rimasta qualche passo addietro.

— Vengono? — le gridò Marina.

— Odo la voce di Suo cugino e del ragazzo — rispose Edith.

Marina fece una piccola smorfia.

— Venga con me — diss'ella.

Il sentiero toccava, due passi più su, un gruppo di stalle seduto sullo spigolo del monte che si gira per andare all'Orrido. Quelle rozze stalle sedevano dentro una larga macchia di fango puzzolente, all'ombra chiara di alcuni noci tutti sforacchiati di raggi di sole. Non ci si udiva, non ci si vedeva anima vivente; tutto taceva. Qualche gerla abbandonata presso gli usci chiusi, qualche pezzo di corda accavallato al pozzale della cisterna, l’aspetto della profonda valle e un sussurro di lontane cascate invisibili accrescevano il silenzio. Il sentiero indicato dal Rico passava tra le stalle; Marina pigliò un altro viottolo che sale dritto a una cappelletta. Ella fe' cenno a Edith di sedere e disse piano:

— Aspettiamo che passino.

In quella cappelletta era dipinto un Redentore coronato di spine, bruttissimo, a’ piedi del quale si leggeva:


Quantunque, o passegger, ti sembri un mostro,
Io sono Gesù Cristo, Signor Vostro.


L'erba intorno brillava ancora di rugiada e di vento puro, vivificante, che faceva lievemente stormire le foglie dei noci.

Edith guardava quell’immagine pia, omaggio di gente semplice al re del dolore, le veniva in cuore una dolcezza tenera, triste; mille pensieri le venivano in mente sulla fede del povero pittore, del povero poeta, delle donnicciuole che andando ai campi o tornandone affaticate dovevano alzare gli occhi a quegli sgorbi con maggior devozione ch’ella non avesse provato guardando Maria dipinta dal Luino. Avrebbe voluto profondarsi in questi pensieri, e non poteva; si sentiva legata da una catena dura e fredda, comprendeva confusamente di soffrire della vicinanza di uno spirito umano affatto discorde dal suo, appassionato di altre passioni, chiuso e superbo. Fra lei e il sole, Marina, ritta, scalfiva il suolo con la punta dell’ombrellino, figgendovi gli occhi e serrando le labbra; la sua ombra cadeva pesante sopra Edith, le entrava nel sangue.

Intanto le voci dell’altra comitiva salivano sempre più distinte. Si udì un passo frettoloso fra i muri delle stalle e subito dopo sbucò dietro la cappelletta il viso sfavillante del Rico. Vedendo le signore si fermò di botto, aperse la bocca; ma un’occhiata fulminea di Marina gli troncò la parola. Spiccò un salto verso alcuni cespugli di more, ne colse e ridiscese di corsa. Le grosse voci dei commendatori gorgogliarono fra le stalle. Il commendator Finotti raccontava delle oscenità con la più franca energia di linguaggio, da mezzo libertino che fruga nelle immondizie della parola per trovarvi la sua giovinezza. Si udì il Ferrieri dirgli ridendo:

— Il letame t’ispira.

Marina, indifferente, diede una rapida occhiata a Edith: ma Edith non poteva conoscere quella feccia di linguaggio e non battè ciglio nè mutò colore. La sua compagna si strinse nelle spalle e aspettò in silenzio che le voci si spegnessero, quindi sedette presso Edith.

— Le informazioni — diss’ella — riguardano una persona che Lei conoscerà a Milano.

Edith la guardò sorpresa; colei fece un lieve atto d’impazienza. Allora Edith si ricordò del discorso incominciato e troncato prima, passando il lago.

— È sicura — rispose — che conoscerò questa persona?

— Lei dovrà conoscerla.

— Dovrò?

— Dovrà, dovrà. Non per far piacere a me, sa, perchè succederà così. Insomma non importa. Lei conoscerà a Milano questa persona ch’è un amico di Suo padre.

— Si chiama Silla?

Gli occhi di Marina lampeggiarono.

— Come lo sa?— diss’ella.

— Mio padre mi ha parlato di questo signore suo amico.

— Che Le ha detto Suo padre?

Edith non rispose.

— Ha paura? — disse Marina duramente.

Edith arrossì. — Non conosco questa parola — diss’ella.

Dopo un breve indugio Edith alzò il viso e guardò Marina:

— Sicuramente il vero — diss’ella.

— Il vero. Non parli del vero. Nessuno lo sa, il vero. Suo padre Le avrà detto che io ho insultato questo signore?

— Sì.

— E ch’egli, una notte, è andato in fumo?

— Sì.

— Proprio in fumo? Non le ha detto dove si trova ora? Sì che glielo ha detto; Lei non vuole ora ripeterlo a me, ma Suo padre glielo ha detto sicuramente.

— Io credo — rispose Edith con un leggero accento d’alterezza offesa — io credo che i miei discorsi con mio padre le debbano essere affatto indifferenti. So che un signor Silla, di Milano, è amico di mio padre, il quale non ha forse altri conoscenti in quella città. Per questo ho pensato ch’Ella volesse alludere a lui e ho proferito il suo nome. Mi dica, ora, se crede, cosa desidera da me pel caso che io conosca a Milano questo signore.

Marina stette un momento pensosa, con l’indice al mento, come se un e un no si dibattessero nel suo segreto; indi parve salir dalla terra una vampa nella bella persona. Ella fremè da capo a piedi, protese il petto ansante, le sue labbra si apersero, nessuno può dire quello che dissero gli occhi. Edith trasalì, attese parole imprevedute.

Ma le parole non vennero. La bocca si chiuse, la persona ricompose, la strana luce degli occhi si spense.

— Niente — diss’ella. — Andiamo.

Edith non si muoveva.

— Venga — ripetè Marina. — Ella è troppo tedesca. Mi basta di sapere dove il signor Silla abita e cosa fa. Me lo scriva subito. Vuole?

— Signorina — disse Edith — anche in Germania si può comprendere e sentire qualche poco. Non desidero sapere i Suoi segreti, ma se posso fare un’opera buona per Lei...

— Ah, virtù! Egoismo! — disse Marina. Una vecchierella curva sotto una gran gerla di fieno sbucò tra stalla e stalla davanti a lei, si fermò e a gran fatica le alzò incontro la testa con un sorriso di bontà e di meraviglia, dicendo:

Reverissi. Son venute a fare una passeggiata?

Era un’immagine di miseria sucida, sorta dal suolo fetido e dalle vecchie stalle diroccate, scalza, con degli stinchi magri e neri di uccello da preda, con il mento appoggiato a due lisci gozzi rossicci e un guazzabuglio di cernecchi grigi sulla fronte. L’occhio era dolce e sereno.

— Che vita, povera donna! — disse Edith.

— Non sono mica poi tanto povera, la vede. Son mica signora, magari, ma il mio vecchio guadagna ancora qualche cosa, e io, come posso, eh, perchè son già sessantatrè e passa, la gerla voglio portarmela qualche anno ancora. E poi il Signore ci sarà anche per noi due. Dunque, reverissi, neh, stieno bene, facciano una buona passeggiata.

Ella curvò il capo sotto il carico e fece atto di riprendere tentennando il cammino fra i ciottoli, i frantumi di tegole e le immondizie. Marina trasse il suo portamonete d’avorio e glielo pose bruscamente in mano.

— Ah, cara Madonna! — esclamò la vecchierella — io non lo voglio. Non lo voglio, cara Lei. Non lo voglio proprio mica. Ciao, ciao, — soggiunse poi intimorita da un gesto e da un’occhiata di Marina. — Ah, signèli, è troppo. Ciao, ciao, come vuole Lei. Ah, signèli!

— Buon giorno — disse Marina, e passò avanti.

Escita dal tanfo di letame e di putredine, ella si voltò; dovette leggere una parola benevola sul viso di Edith.

— Io non sono virtuosa — diss’ella — io non ridomanderò questo a Dio. Io non sono amichevole verso coloro che non amo, con il nobile fine di acquistare un biglietto pel paradiso. Del resto, Lei non può fare per me che quanto Le ho detto; scrivermi dove abita, che fa il signor Silla.

Edith tacque.

— Teme — disse Marina — ch’io voglia farlo assassinare?

— Oh no, so bene che non lo ama — rispose Edith sorridendo.

Marina si sentì afferrare il cuore da una mano fredda. Ella passava allora presso la cisterna. Buttò le braccia sul parapetto e porse il viso al fondo. Il solo suono della parola ama le riempiva l’anima. Non lo ama, aveva detto Edith: ma la negazione era caduta inavvertita, non la magica parola ama. Avvenne allora di Marina come di una corda musicale inerte che chiude in sè la sua nota silenziosa, ma se una voce ignara di lei passa cantando nella stanza ove giace, e tocca tra l’altre questa nota, sull’istante tutta la corda vibra. Ama, ama, ama! In fondo al nero tubo della cisterna brillava un picciol disco sereno rotto da una scura testa umana. Marina chiamò involontariamente a mezza voce:

— Cecilia!

La voce percosse l’acqua sonora e tornò su con un rombo sinistro. Marina si rizzò e riprese il cammino senza parlare.

Girarono le coscia della montagna, discesa giù a destra fino ai greti del torrente. Il fragore di cascate lontane, che si udiva dalle stalle, parve saltar loro in faccia col vento della vallata. Acque potenti non si vedevano; s’indovinavano là davanti in una gola stretta, chiusa da altri monti carichi di fosche nuvole meridiane e nell’ombra di una lunga spaccatura tortuosa che discendeva da quella gola nella valle fra una nera costa imboscata, a frane rossastre, e una massiccia cornice di campicelli, di pratelli verdi, illuminati dal sole. A fianco della gola si vedeva una chiesa bianca appollaiata sopra un sasso eminente: sotto di lei una spruzzaglia di tetti scuri, di capanne accovacciate nei prati. E praterie nitide, arrotondate, erano gli alti dorsi delle montagne a destra e a sinistra, sparsi di macchiuzze nere, di mille tintinnii che facevano una larga voce sola, oscillante, pura. Il sentiero fendeva i declivi erbosi, drappi di fiori tremanti nel vento fresco d’autunno.

Marina si fermò guardando la gola in capo alla valle.

— Dev’essere là — diss’ella.

— Cosa? — domandò Edith.

— L’Orrido. Questo rumore vien di là. Oggi l’Orrido ha un gran fascino per me.

— Perchè?

— Perchè ci voglio entrare con mio cugino. Lei tace, non si commuove. Non pensa quale emozione trovarsi sola, in una caverna, con lui? Ha resistito Lei al fascino di mio cugino? Due occhi che vanno al cuore. E che spirito! N’è inzuppato, poverino. Non parliamo d’eleganza. È un Watteau, mio cugino. Dev’essere tutto bianco e rosa, un impasto di coldcream, un fondant! Non le pare? Dica, non m’invidierebbe se diventassi contessa Salvador?

— Vedo che non lo diventerà — rispose Edith.

— Perchè? Conosco una persona che si sposò per odio.

— Non per disprezzo, io credo.

— Per odio e per disprezzo insieme. Son due sentimenti che si possono incontrare benissimo nel tallone acuto d’uno stivaletto. Questa persona se ne servì per fouler aux pieds con quattro colpi suo marito e parecchie altre cose odiose e spregevoli.

A Edith pareva impossibile che si avesse a tenere questo linguaggio là in alto, davanti alla innocenza solenne delle montagne. Pensò alla povera mamma sepolta lontano; se vedesse la sua figlioletta in tale compagnia, se udisse tali discorsi! Ma Edith non correva pericolo. Ella non ignorava il male, viveva sicura nella propria conscia purità. Lasciò che Marina continuasse a sua posta.

— Quest’amica mia si era innamorata di un altro. Si scandolezza?

Edith non rispose.

— Via, non facciamo come se ci fosse qui il signor papà o il signor zio o un qualunque signore in calzoni. Quanti anni ha, Lei?

— Venti.

— Dunque! Deve ben sapere quello che succede nel mondo. Taccia, mi lasci dire. Non credo a certi candori. Dunque l’amica mia aveva un amante e volle, il perchè non importa, volle arrivare ad esso passando col suo stivaletto acuto sopra un marito spregevole, sopra una razza odiosa. Che male c’è? Gli uomini proibiscono questo e quello. Bravi. Ma con quale diritto? Coloro che Iddio congiunse nessuno divida. Non è così? Presso a poco. Bene, questo è bello, questo è grande. I preti sono stupidi con le loro spiegazioni. Domando se è Dio che mette cotta e stola e borbotta quattro parole per congiungere alla cieca due corpi e due anime. Dio li congiunge prima che si amino, prima che si vedano, prima che nascano; li porta, attraverso tutto, l’uno all’altro! Quelli poi che congiunge l’uomo, ossia le famiglie, un calcolo, un errore, un prete che non sa che cosa si faccia, quelli Dio li divide! Cosa dicevo? quest’amica mia sposò con odio e con disprezzo; passò così!

Slanciò avanti la persona fremebonda e battè col piede a terra con tanta energia che parve a Edith ne dovessero saltar scintille.

S’udì una voce acuta da lontano:

— Signora donna Marina!

Era la voce di Rico. Egli comparve presto, correndo; quando vide la sua padrona smise di correre e gridò:

— Han detto così di far piacere...

Marina gli accennò bruscamente con l’ombrellino di venire avanti.

Egli tacque subito, spiccò altri due salti e giunse ansante, accigliato nella sua gravità di ambasciatore e nella paura di lasciar cadere qualche briciola di messaggio.

— Han detto così di far piacere a venire un po’ più in fretta, perchè è tardi e c’è giù la signora contessa che aspetta.

— Dove sono? — disse Marina.

— Uno è qui vicino che viene incontro a Loro, e gli altri sono nel paese.

Non andò molto che apparve sua Eccellenza Nepo seduto sul suo fazzoletto accanto al sentiero. Si guardava attorno con un’aria sgomentata e si faceva vento con un piccolo ventaglio giapponese. Quando sopraggiunsero le signorine precedute dal Rico, si alzò in piedi e scordandosi per un momento di essere gentiluomo, gridò prima di salutare, al ragazzo:

— Perchè non mi hai aspettato, imbecille?

— Pare che avesse ragione di non aspettare — osservò Marina freddamente.

— Voi siete molto cattiva con me — rispose Nepo a mezza voce.

Marina non parve gradire quel tono intimo, pieno d’allusioni, e disse asciutta asciutta:

— Quanto c’è di qui all’Orrido?

— È subito qui— mormorò il Rico fra i denti.

— Cielo clemente, un’eternità c’è! — gemette Nepo. — Non è stata un’idea molto felice quella di farci arrampicare fin quassù. Il commendator Vezza e il commendator Finotti sono mezzi morti. Io sono un grandissimo camminatore e mi ricordo d’esser salito a piedi, quand’ero studente, da Torreggia al convento di Rua, negli Euganei, che non è piccola bagatella; ma qui non so, è un camminare diverso: si fa meno strada e più fatica. Cosa volete che vi dica? Da noi anche i monti hanno più creanza.

Approfittò d’un momento ch’Edith era uscita di strada per cogliere un ciclamino e disse a Marina non senza un dispettoso lagno nella voce e nel volto:

— E la vostra risposta?

— Presto — diss’ella.

— Quando?

— Venite nell’Orrido con me.

Nepo non parve contento, ma non potè chiedere spiegazioni, perchè Marina aveva preso il braccio di Edith e a lui appena bastava la lena di tener loro dietro.

I commendatori e il Ferrieri erano seduti presso la porta dell’osteria di C... sopra una pancaccia addossata al muro, e parlavano ad un vecchio calvo, scamiciato, dalla pelle color mattone, accoccolato sulla soglia dell’osteria con una lunga pertica fra le gambe ignude; era il navicellaio, il degno Caronte dell’Orrido.

L’Orrido sta a poche centinaia di passi dal paese. Il fiume di C..., nasce qualche chilometro più in su, si raccoglie lì tra le caverne immani in cui scendono a congiungersi due opposte montagne, corre per breve tratto in piano all’aperto, poi trabocca sotto il paese di rapida in rapida, di cascata in cascata sino in fondo della valle, per morire ignobilmente nel lago, là dove approdò la brigata del Palazzo. Uscendo da C... si trova presto un ponticello di legno che gitta la sua ombra sopra una luce di sparse spume, di acque verdi, di ghiaiottoli candidi. Non si passa il ponticello; si piglia invece a sinistra pel letto del fiume. Colà le acque blande ridono e chiacchierano correndo via tra la gaia innocenza dei boschi con certi brividi memori di passate paure. Di scogli non appariscono che striscie oblique a fior di terra, tappezzate di scuri muschi, di fiocchi d’erba, di ciclami pomposi. Guardandolo in su dalle ghiaie si vedono a dritta e a manca disegnarsi sul cielo le due sponde come due colossali ondate di vette fronzute, due alte dighe vive, luccicanti al sole, di roveri, di faggi, di frassini, di sorbi che si rizzano gli uni dietro gli altri, si curvano in fuori per veder passare l’onde allegre, agitano le braccia distese, plaudendo. Presto si giunge a un gomito del fiume. Non più sole, non più verde, non più riso d’acque: immani fauci di pietra vi si spalancano in viso e vi fermano con il ruggito sordo che n’esce, con il freddo alito umido che annera là in fondo la gola mostruosa. Il ruggito vien su dalle viscere profonde; l’acqua passa per la bocca degli scogli, grossa, cupa, ma silenziosa. Una sdrucita barchetta è lì incatenata a un anello infisso nella rupe. Porta due persone oltre il barcaiuolo. Si risale la corrente con quella barchetta che pare non voler saperne, torce il muso ora a destra ora a sinistra e scapperebbe indietro senza la pertica di Caronte. Il fragore cresce; la luce manca. Si passa tra due rupi nere, qua rigonfie come strane vegetazioni, gemme enormi della pietra, là cave e stillanti come coppe capovolte; tutte rigate ad intervalli eguali, scolpite a gengive su gengive dal fondo alla cima. In alto, il cielo si restringe via via tra scoglio e scoglio, e scompare. La barchetta salta in una fessura buia, piena d’urla, si dibatte, urta a destra, urta a sinistra, folle di spavento, sotto gli archi echeggianti della pietra che, morsa nelle viscere dal flutto veloce, si slancia in alto, si contorce. Dal sottilissimo strappo che fende il manto boscoso di quelle rupi filtra nelle tenebre un verdognolo albore, un lividore spettrale che macchia cadendo le sporgenze della roccia, vien meno di sasso in sasso e si perde prima di toccar l’acqua verde cupa; si direbbe un raggio di luce velata di nuvole, sull’alba.

Da quell’andito si entra nella — sala del trono — rotondo tempio infernale con un macigno nel mezzo, un deforme ambone per la messa nera, ritto fra due fascie enormi di spuma che gli cingono i fianchi e gli spandono davanti in una gora larga, tutta bollimenti e spume vagabonde, levando il fracasso di due treni senza fine che divorino a pari una galleria. È da quel masso che viene alla caverna il nome di — sala del trono.

— Si pensa ad un re delle ombre, meditabondo su quel trono, fisi gli sguardi nelle acque profonde, piene di gemiti e di guai, piene di spiriti dolenti. Per una spaccatura dietro al trono sprizza nella caverna un getto di luce chiara.

Caronte staccò la barchetta dall’anello e con un urto poderoso la fe’ scorrere dalla ghiaia nell’acqua. Intanto il Rico saltellava come una cutrettola pe’ sassi sporgenti del torrente e otto o dieci marmocchi s’erano appollaiati dietro la comitiva a guardar fiso come uccelletti curiosi di un grosso gufo. Il Vezza che capiva pochino le bellezze naturali, e il Finotti che non le capiva affatto, ammiravano rumorosamente l’orrida magnificenza del luogo. Il Ferrieri non si curava di unirsi a’ loro entusiasmi e ne parlava tranquillamente a Edith. Le diceva di sentirsi freddo più del ghiaccio davanti a simili scene, sin da quando, nella prima giovinezza, si era schiacciato e ucciso dentro al cuore un poeta, incomodo inquilino: soggiungeva però di dubitare ora, per la prima volta, che quello spregevole parassita fosse ben morto; gli pareva di sentirlo a muoversi, di sentire un calore insolito...

— Avanti, signori — disse Marina.

Infatti Caronte aveva terminato di disporre la navicella e accennava alle due signore di entrarvi.

— Mio cugino ed io — disse Marina — saremo gli ultimi.

— Allora noi due saremo i primi, signorina Edith.

Così dicendo il Ferrieri avvolse alle spalle della sua bella compagna lo scialletto celeste ch’ella portava sul braccio. Edith non se ne avvide, quasi; pareva affascinata dalla bellezza nera delle rocce spalancate davanti a lei. Entrarono ambedue nella barchetta e si allontanarono. Era bello veder passare tra quelle porte infernali la barchetta, lo scialle celeste, il vecchio pittoresco ritto sulla prora colla sua lunga pertica. Presto scomparvero; prima Caronte, poi lo scialle celeste, poi la piccola poppa bruna.

Dopo una decina di minuti ricomparvero la pertica ferrata, Caronte, lo scialle celeste. — Dunque? Dunque? — gridarono il Vezza e il Finotti.

Nessuno rispose. Appena nello scendere a terra Edith e il Ferrieri dissero qualche fredda parola di ammirazione. Edith era triste e grave, l’ingegnere rosso fino al vertice del cranio; il barcaiuolo attendeva impassibile che si raccogliesse la seconda spedizione. Edith restò presso Marina e il Ferrieri si allontanò a capo basso, studiando i ciottoli. Il Finotti e il Vezza partirono insieme, di mala voglia.

Nepo era inquieto. Non parlava, ma si moveva di continuo, guardava qua, guardava là, crollava la testa per iscuoter via l’occhialino che non aveva più; tuffò due o tre volte i piedi nell’acqua per andare di sasso in sasso in mezzo al torrente a spiar il ritorno della barchetta. Quando fu discosto, Marina disse sotto voce a Edith, accennando il Ferrieri:

— Anche lui, eh, con i suoi modi di gentiluomo! Ho capito quando siete usciti di barca. Tutti eguali.

— È una vergogna, una vergogna! — disse la giovinetta fremendo.

— È stato molto audace?

Edith arrossì. — Chi mi manca di rispetto solo per un momento, e con il menomo atto, è molto audace — diss’ella.

— Signor Ferrieri, — disse Marina ad alta voce.

Il Ferrieri si voltò. Voleva parere impassibile e non poteva.

— Favorisca discendere dalla contessa Fosca, che si annoierà molto. La signorina ed io scenderemo dopo, col ragazzo, probabilmente da un’altra parte.

V’era nella voce vibrante di Marina il risentimento involontario della donna che coglie un uomo, anche indifferente, ai piedi di un’altra.

Il Ferrieri s’inchinò e partì.

— Non si usa fare quello che ho fatto io adesso — disse poi Marina a Edith. — Appena un vecchio chaperon lo farebbe. L’ho fatto per lei, perchè Ella non abbia più a trovarsi con quel calvo Lovelace che Le mette tanto ribrezzo; e perchè qualche volta non m’importa di quello che si usa.

— Grazie — rispose Edith.

La barchetta ritornò con i commendatori.

— Conte! — disse Marina.

Nepo fu per rispondere — Contessa! — ma non fece che aprire le labbra ed entrò, dopo Marina, nella barchetta.

— E Ferrieri? — chiese il Vezza.

— Ci precede abbasso — rispose Marina.

Ma ella era già a quattro passi dalla riva e le sue parole confuse al ruggito sordo del fiume non si distinguevano quasi più.

Si strinse nello scialle, piegò il viso per schermirsi dal vento freddo che la spruzzava di minute goccioline d’acqua, stillanti dalle rocce. Guardava con occhi vitrei venirle incontro nell’ombra l’acqua grossa, veemente, senza una voce, senza una ruga.

La barchetta si accostava all’andito tenebroso che precede la— sala del trono. — La figura del vecchio ritto sulla prora pigliava, tra gli scogli lucidi e neri, un colore sempre più fosco, i colpi della pertica ferrata sparivano nel fragore assordante delle cascate interne. Non ci si vedeva quasi più. Nepo si chinò verso Marina, le prese una mano.

— Ah! — diss’ella, come offesa; ma non ritrasse la mano. Nepo la strinse fra le sue, felice; non sapeva che dire; gli pareva tutto fosse detto; stringeva a più riprese quella mano fredda, inerte, come se volesse spremerne un concetto, una frase, una parola. Ebbe un’idea. Tenne con la sinistra la mano di Marina e le cinse la vita col braccio destro. Marina si strinse in sè e si slanciò avanti.

— Fermo, Cristo! — urlò il barcaiuolo. Non ci si udiva, non ci si vedeva più. Il fragore uniforme metteva nella fronte e nel petto una contrazione penosa.

Nepo rallentò la sua stretta. Non comprendeva quel guizzo di Marina. Parlò. Gli era come parlare con la testa tuffata nella corrente; ma egli, sbalordito, parlava egualmente. E sentì la vita di Marina ribattere indietro al suo braccio. Trasalì di piacere, allargò avidamente la mano che le cingeva il busto, come una branca di bestia immonda, fatta audace dalle tenebre; allargò le dita nella cupidigia di avvinghiare tutta la voluttuosa persona, di trapassar le vesti e profondarsi nella morbidezza viva. Marina s’era ricacciata indietro con la cieca bramosìa di stritolare quel braccio che la irritava come una sferza e s’era volta a insultar Nepo, non udita e non vista. L’acqua, il vento, le pietre stesse urlavano cento volte più forte, sempre più forte. Schiacciavano con la loro collera, con la loro angoscia colossale, la piccina collera, le spregevoli angoscie umane. Schiacciavano, buttavano via sottosopra le parole come polvere. La brutale natura prepotente voleva parlar sola. Nepo sentiva il caldo busto di Marina stringersi e dilatarsi ansante sotto la sua mano; gli pareva di discernere, nel frastuono, una fioca voce umana; immaginava parole d’amore e porgeva le labbra in cerca delle labbra di lei, fiutando le tenebre, aspirando un tepore profumato, pieno di vertigini.

Allora un vigoroso colpo di pertica fece che la barca girasse l’ultima svolta dell’andito buio saltando in un diffuso chiarore verdognolo che pareva ascendere dall’acqua trasparente. Nepo non ebbe tempo di veder Marina in viso. Il barcaiuolo ritto sulla prora si era voltato verso di loro. Nepo lasciò prontamente Marina e finse di guardare in alto. Il vecchio barcaiuolo aveva addossato lo scafo allo scoglio puntando la sua pertica alla parete opposta, e, con il braccio libero, trinciava di gran gesti, mostrava la cavità, le gobbe mostruose della pietra.

Bellissimo! — gridò Nepo.

Caronte si toccò l’orecchio e fe’ con l’indice un segno negativo; indi agitò in su e in giù la mano distesa, accennando in pari tempo del capo come per promettere qualche cosa di più bello, e ricominciò a lavorar di pertica.

Marina, pallida, serrate le labbra, chiusa nello scialle bianco che le stringeva le spalle, pareva un’anima peccatrice, fuggita nello sdegno alle ombre dei fiumi infernali, mezz’irritata, mezzo stupefatta.

La — sala del trono — si spalancò a prora come una visione verde dorata con la sua gran cupola informe, il macigno nero nel mezzo, i tonanti fiotti di spuma e i bollimenti dell’acqua lungo le pareti gibbose; ma la barchetta, invece di entrarvi, scivolò a destra in un seno cieco di acqua tranquilla e si arenò. Una gigantesca cortina di pietra cadeva dall’alto a formar quella cala, schermandola in parte dal fragore dell’acque. Colà, parlando forte, si poteva farsi intendere. Il barcaiolo domandò a Marina se l’Orrido le piacesse, e soggiunse, sorridendo con cert’aria di benigno compatimento, che piaceva a tutti i signori. Quanto a lui non ci trovava di buono che le trote. Diceva che in quel posto lì eran frequenti, e volle che Nepo e Marina si voltassero a guardar nell’acqua, promettendo ne avrebbero visto balenar qualcuna sul fondo.

Nepo, voltandosi, venne a sfiorar la guancia di Marina.

— Non mi toccate — diss’ella duramente, senza guardarlo.

Egli attribuì quelle parole alla luce indiscreta e non se ne commosse che per dire con mal piglio al barcaiuolo:

— Cosa ne facciamo delle tue trote, imbecille? Andiamo!

I suoi modi con gl’inferiori, da gentiluomo maleducato, gli avevano già procacciato uno schiaffo a Torino da un garzone di caffè e potevano procacciargli altrettanto e peggio da Caronte; ma costui non intese che l’ultima parola, e risospinta indietro la barca nella corrente, la fece entrare nella caverna grande, l’addossò al trono, dove l’acqua era più tranquilla, e ricominciò la sua mimica di cicerone muto. Accennò con la mano che si poteva salire sul macigno e uscir quindi per la spaccatura della rupe dall’Orrido. Marina si gettò addietro lo scialle, balzò in piedi sul sedile della barchetta, respinse l’aiuto dell’attonito barcaiuolo e, posando i piedi sopra i risalti del masso, in due slanci gli fu sopra. Di là accennò imperiosamente a Nepo di seguirla. Nepo, ritto in barca, andava tastando il sasso, titubava e guardava di sbieco Caronte. Questi lo levò di peso e l’appoggiò allo scoglio; come a forza di raspar con mani e piedi vi si fu appiccicato, lo urtò su, con la palme, alla cima.

L’acqua, entrando furiosamente, piena di luce, per la fenditura della roccia, si frangeva, a tergo del trono, in due branche spumose che lo allacciavano. Dal trono si passava oltre, si usciva all’aperto per una assicella lunga e sottile gittata sopra i sassi sporgenti dall’acqua. Tenevano quella via i pescatori di trote.

Marina, seguita da Nepo, si avviò per l’assicella dopo aver accennato al barcaiuolo che l’attendesse. All’uscita dell’Orrido si apriva una scena severa che sarebbe parsa selvaggia a chi non vi fosse salito dalle caverne inferiori. Il torrente saltava giù allo scoperto per immani scaglioni, brillando al sole come una rete di fila d’argento, a grandi maglie irregolari, piene di fragore, fra due scogliere protese in atto di chiudersi una sull’altra, mezzo ignude, mezzo cenciose nei loro brandelli di bosco. Marina salì presso alcuni tassi rachitici che uscivano a lambir con le loro frondi nere un pietrone ritto a fianco della bocca dell’Orrido, ove il terribile fragore era grandemente affiochito. Si sdrucciolava assai per quel ripido pendìo erboso inzuppato di rugiada nella sua ombra perpetua. Non v’era sentiero, ma solo qualche forte impronta di passi nella terra rossastra.

Nepo saliva a grande stento, abbrancandosi con le mani ai ciuffi d’erba. Sostò a pochi passi da Marina per pigliar fiato.

— Fermatevi lì — diss’ella — Avete più coraggio all’oscuro.

— Oh, adesso poi, — disse Nepo — non mi fermo certo.

— Fermatevi!

Nepo si fermò, rannuvolato, inquieto. Aveva prima pensato ch’ella volesse procacciargli un colloquio fuori della vista importuna del barcaiuolo. Ora non comprendeva più. Si stizziva in cuor suo con Marina; ma gli era pur entrato da pochi minuti un sentimento o, per meglio dire, una sensazione nuova.

Dalla piccola mano di velluto, dal busto caldo, ansante, che aveva stretti, gli si era infiltrato nel sangue un turbamento insolito per lui, che usava dire di sentirsi uomo con le pedine, angelo con le dame.

Tacquero un momento tutti e due.

— Dunque lo volete? — disse Marina.

— Ah! — rispose Nepo allungando le braccia.

Nuova pausa.

— Perchè lo volete?

— Che domanda, mio Dio!

— Non è vero? — diss’ella sorridendo. — Avete ragione.

Lo guardò ben fiso con lo sguardo penetrante che le compariva e scompariva nella pupilla a suo talento, e disse con voce più forte:

— Ma io non vi amo!

— Oh, anima mia! — disse Nepo intendendo male. E si arrampicò fino a lei.

Ella fece un passo indietro, sorpresa.

— Non vi amo! — ripetè.

Nepo impallidì, ammutolì, poi proruppe a voce bassa, ma concitata:

— Non mi amate? come, non mi amate? E cinque minuti fa in quella barca all’oscuro...

— Ah sì? V’è parso?

— Ma, mio Dio, se quella barca potesse parlare!

— Direbbe male di voi. Vi siete ingannato; non Vi amo. — Nepo la guardava con le sopracciglia inarcate e le labbra semiaperte.

— Però Vi accetto — diss’ella.

Nepo mise un ah soffocato, si trasfigurò nel viso e stese le mani verso di lei.

— Dunque vi basta?— diss’ella.

Nepo volle rispondere con un abbraccio, ma ella fu pronta ad appuntargli l’ombrellino al petto.

— Scendete subito — disse. — Il barcaiuolo potrebbe andarsene. Io non vengo con voi; giro l’Orrido di fuori. No, non ci vengo. Voi, venir con me? Non vi voglio. Andate. Non siete contento adesso? Dite alla signorina Steinegge e al ragazzo che mi aspettino al ponte. Voialtri precedeteci. Non ci aspettate laggiù alla barca. Non aspettateci neppure a pranzo. Quando sarete a casa parlate pure a vostra madre e a mio zio. Subito, prima che io ritorni. Andate.

Egli non ne voleva sapere di andarsene. Implorò un bacio, non l’ebbe; anche la piccola mano di velluto, anche un lembo della veste furono negati alle sue labbra.

Afferrò l’ombrellino e baciò quello, impregnato esso pure dell’odore di lei. Le acque e le frondi ne risero; ed egli se ne andò contento e malcontento insieme, agitato dalla torbida poesia de’ sensi che non è del tutto abbietta e mette almeno qualche volta in ogni anima il suo fervor vitale, il suo cupo fiore di un giorno.

Quando Marina arrivò al ponte, Edith era là ad attenderla con il Rico. Rifecero in silenzio la via percorsa il mattino sino ad una vecchia pietra ove era scritto, con la relativa freccia: — Ai monti. Lì presero per una stradicciuola che accennava ad un colle assai depresso tra la scogliera che è sopra C... e altri dorsi erbosi.

Erano presso al colle quando Marina, che precedeva Edith, si fermò e le disse bruscamente:

— Sa? Sono stata leale.

Edith non comprese e non rispose. Ella non pose mente alla emozione febbrile che vibrava nella voce e luceva negli occhi di Marina. L’anima sua era tutta nello spettacolo della valle che si trasformava salendo, negli orizzonti che si allargavano tra le ondulazioni delle cime verdi ed altre cime azzurrognole, nella tremula nota continua delle campanelle vaganti per i pascoli, nelle voci acute e gravi di acque che passavano cantando sul fondo di riposti valloncelli e fra l’erba dei prati cadenti, onde saltavano talvolta sulla via per fuggire dall’altra parte. Ella camminava più lenta, contemplando il cielo così puro al di sopra delle passioni di tante montagne sfolgorate in fronte dal sole obliquo a cui tutte parevano guardare, unite in qualche grande pensiero, in qualche sublime preghiera senza parole. Sospirava e sentiva scendersi al cuore l’aria piena di questo spirito muto delle montagne. Non comprendeva come si potesse pensare ad altro, non sentiva più, come al mattino, l’influenza penosa di Marina; era libera. Giunta sul collo del monte, disse guardando la nuova scena che le si apriva davanti:

— È una poesia.

Marina non aperse bocca. Edith vide, accostandosele, che ella aveva gli occhi pieni di lagrime; si fermò, sorpresa. Marina le prese il braccio con forza, e, accennato al Rico di andare avanti, uscì con lei di strada, rapidamente, camminando sul prato; ad un tratto abbracciò la sua compagna e proruppe in singhiozzi disperati. Singhiozzò, singhiozzò sull’omero sottile di Edith, stringendole convulsa le braccia, parlando con le labbra impresse nelle sue vesti, scotendo forte, a ogni tratto, la testa. Edith, commossa, tremava da capo a piedi, si sentiva vibrare nel petto il rombo di quella voce soffocata e non poteva coglierne alcun suono distinto; provava nel cuore una pietà grande, come se il cuore avesse intese le cose singhiozzategli sopra; provava un affannoso bisogno di trovar parole di conforto, e non sapeva. Ripeteva: — Si cheti, si calmi — ma senza frutto, che Marina scoteva allora la testa con maggior violenza. Chinò il volto e le posò la bocca sui capelli, esitò un momento, lottando con qualche occulto pensiero, baciò finalmente quella testa altera, così umiliata, e ne provò consolazione come d’una vittoria. A poco a poco i singhiozzi si chetarono. Marina alzò lentamente il capo e si staccò da Edith.

— È passato — diss’ella — grazie.

— Mi parli — disse Edith, affettuosamente. — Se Lei mi vedesse il cuore...

— Le ho parlato — rispose Marina. — Le ho detto tutto.

Ella ebbe ancora due o tre singhiozzi convulsi, senza lagrime. Edith voleva che sedesse. — No, no— rispose — è passato. — Si morse il labbro sino a sangue e si affrettò a ripetere:— È passato, è passato. — Ella s’era appoggiata a un grosso macigno bianco intagliato a traforo dai ghiacci, che usciva dal prato fra cespugli di mugo, come una scapola enorme di qualche mostro fossile mai sepolto. Ci aveva posate ambedue le spalle, e volto il viso sulla spalla destra, si guardava la mano rabbiosamente attorta agl’intagli bizzarri del sasso.

— Mi dica... — ripetè Edith.

Marina voltò la testa e strappò il fiore azzurro da un lungo stelo che saliva presso a lei.

— Che fiore è? — diss’ella bruscamente. — Pare aconito. — E lo porse a Edith.

Questa prese il fiore senza guardarlo, volle insistere. Marina fu ripresa da un assalto nervoso violento. Stavolta abbracciò il masso, vi soffocò i singhiozzi. Pareva sitibonda di entrar nella pietra, di gelarvi, di irrigidirvi per sempre.

E intorno a lei era tanta pace!

Le campanelle delle vacche empivano del loro tremolìo i silenzi solenni della campagna, mettevano voci di vita innocente nei pascoli, nelle selvette compatte verde-dorate di giovani faggi, in giro a rade macchie metalliche d’abbeveratoi stagnanti. Presso quel sasso gli aconiti rizzavano nel sole fuggente la loro pompa, le felci curvavano le grazie leggiere del fogliame color di aprile, ciclami vanitosi gittavano i lunghi gambi ignudi de’ loro fiori. Tutti circondavano Marina di pace, di dolcezza grave, silenziosa.

Si udì la voce lontana del Rico che gridava:

— Uuh-hup! Uuh-hup!

Voci di mandriani rispondevano:

— Uuh-hup! Uuh-hup!

Parean saluti al sole che aveva levato il suo raggio dall’erba e saettava la cima del sasso bianco. Il tremolìo diffuso delle campanelle s’avvicinava da tutte le parti all’alpe di C... accovacciata in un seno erboso sotto le scogliere. Le vacche vi si avviavano a file, a drappelli, accodandosi le une alle altre sugli angusti sentieri, trottando giù dai brevi pendii, sbrancandosi lente nei prati, fermandosi di tratto in tratto a levar il muso e muggire.

Il Rico gridava sempre:

— Uuh-hup!

Marina si scosse, si volse a Edith e le disse:

— Andiamo. Adesso è passato davvero.

Edith la pregò ancora di parlare, di confidarsi a lei.

— Le ho detto tutto — rispose da capo Marina. — Non potrei ora ripeter quello che Le ho detto. Non lo sento più. Metta che vi fosse in me un sentimento ch’io ignoravo. Ad un tratto ha divampato, mi ha preso alla gola, al cervello, dappertutto. Ma è stata una vampa sola. Adesso è morto. Non lo sento più. Non so nemmeno più se fosse dolore o sgomento. Sa, quando si entra in una via sconosciuta viene sempre questo dubbio: — E se sbaglio? Se mi perdo? — Non dura, ma viene. Senta; se in avvenire udrà parlare di me, contro di me, si ricordi questa sera. Allora capirà, forse.

— Spero che non udrò parlare contro di Lei.

— Oh!

Tornate sul sentiero, trovarono il Rico fermo ad aspettarle. Si faceva tardi, era freddo. Scesero in fretta verso Val... Marina non parlava, seguiva i suoi pensieri. Solo dopo una mezz’ora di cammino prese il braccio di Edith e le disse:

— Glielo racconti.

— A chi? — rispose Edith.

Marina trasalì, le lasciò andare il braccio e non disse più nulla.

Il sasso bianco, sgretolato dal gelo, ritto fra il mugo, le felci e gli aconiti sotto il cielo pallido della sera, sapeva forse per quali angoscie oscure un corpo e un’anima si fossero dibattuti insieme sopra i suoi fianchi duri, freddi, senza pietà. Se vi dormiva il torbido spirito, l’insensatum cor della montagna, potè sognare che un altro core, appena incatenato alla colpa e alla sventura era corso a palpitar forte, quasi a frangersi addosso a lui, in un impeto di dolore atroce scoppiatogli su da profondità che oltrepassano la coscienza; potè sognare quanto si soffra anche fuor del suo carcere cieco, anche nel mondo sperato dei sensi, del pensiero e dell’amore. Non si udivano più le campanelle delle vacche, salivano dalle valli fiocchi di nebbia, saliva dall’Orrido, come un gran pianto, la voce del fiume, e là in alto il sasso bianco si faceva sempre più triste, sempre più cupo, tra il mugo, le felci e gli aconiti, sotto il cielo pallido della sera.


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