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BENI-HASSEN
Per più d’un’ora, si camminò in mezzo a campi d’orzo altissimo, dai quali usciva qua e là una tenda nera, una testa di cammello, un nuvolo di fumo. Per i sentieri dove passavamo, correvano scorpioni, biscie e lucertole. Il sole, in quel poco tempo, ci aveva infocate le selle per modo che quasi non vi si poteva tener sopra la mano. La luce ci offendeva gli occhi, il polverìo ci soffocava, tutti tacevano. La pianura che ci si stendeva dinanzi come un oceano mi dava non so che sgomento, come se la carovana dovesse camminare eternamente. Ma la curiosità di veder da vicino quei fieri Beni-Hassen, di cui avevo tanto inteso parlare, mi rianimava. — Che gente sono? — domandai a un interprete. — Ladri e assassini — mi rispose; — faccie dell’altro mondo, la peggior genìa del Marocco. — Ed io spiavo ansiosamente l’orizzonte.
Le faccie dell’altro mondo non si fecero aspettare lungo tempo.
Vedemmo lontano, davanti a noi, un gran nuvolo di polvere, e pochi momenti dopo fummo circondati da una turba di trecento selvaggi a cavallo, verdi, gialli, scarlatti, bianchi, violetti, cenciosi, scarmigliati, ansanti, che pareva che venissero da una mischia. In mezzo al fitto polverìo che ci avvolgeva, vedemmo il loro Governatore, un gigante con lunghi capelli e gran barba nera, seguito da due vicegovernatori canuti, armati tutti e tre di fucile, avvicinarsi all’Ambasciatore, stringergli la mano e sparire. Subito dopo cominciarono le cariche, gli urli e le fucilate. Parevano frenetici. Sparavano fra le gambe delle nostre mule, sopra la nostra testa, rasente le nostre spalle. Visti da lontano, dovevan sembrare una banda d’assassini che ci assalisse. V’eran dei vecchi formidabili con lunghe barbe bianche, ridotti a ossa e pelle; ma che parevan fatti per resistere ai secoli. V’eran dei giovani con lunghissime ciocche di capelli neri che ondeggiavano al vento come criniere. Molti avevano il petto, le gambe e le braccia nude, turbanti in brandelli e cenci rossi attorcigliati intorno al capo; caic laceri, selle disfatte, briglie di corda, sciabolaccie e pugnali di forme strane. Le faccie poi! — È assurdo, — diceva il comandante, facendo la caricatura di don Abbondio, — è assurdo il supporre che questa gente possa fare il sacrifizio di non ucciderci! — Ognuna di quelle faccie raccontava una storia di sangue. Ci guardavano passando, colla coda dell’occhio, come per nasconderci l’espressione del loro sguardo. Cento ci venivan dietro, cento a destra, cento a sinistra, sparsi per i campi a grande distanza. Questa guardia dai lati era nuova per noi; ma non tardò ad essere giustificata. Più andavamo innanzi, più spesseggiavano le tende nella campagna, fin che passammo in mezzo a veri villaggi circondati di fichi d’India e d’aloé. Da tutte queste tende accorrevano arabi, vestiti d’una semplice camicia, a gruppi, a piedi, a cavallo, in groppa agli asini, due, persino tre sopra una sola cavalcatura; le donne coi bimbi appesi alle spalle, i vecchi sostenuti dai ragazzi, tutti affannati, smaniosi di vederci, e forse non di vederci soltanto. A poco a poco ci fu intorno un popolo. Allora i soldati della scorta cominciarono a disperderli. Si slanciarono al galoppo di qua e di là contro i gruppi più numerosi, urlando, percotendo, rovesciando cavalcature e cavalcatori, tirandosi dietro da ogni parte improperii e maledizioni. Ma i gruppi dispersi si riannodavano e continuavano ad accompagnarci correndo. A traverso il fumo e il polverìo, rotto dai lampi delle fucilate, vedevamo per quei vastissimi campi, in lontananza, tende, cavalli, cammelli, armenti, gruppi di aloé, colonne di fumo, frotte di gente rivolta verso di noi, immobile, in atteggiamento di stupore. Eravamo finalmente arrivati in una terra abitata! Esisteva dunque, non era una fiaba, questa benedetta popolazione del Marocco! Dopo un’ora di passo accelerato, ci si trovò di nuovo in una campagna solitaria, non accompagnati da altri che dalla scorta; e fatto appena un altro miglio, svoltando intorno a una macchia di fichi d’India, s’ebbe l’inaspettato e sempre vivissimo piacere di veder sventolare la bandiera italiana in mezzo alla nostra piccola città vagante, di cui s’alzavano in quel momento appunto le ultime case.
L’accampamento era sulla sponda del Sebù, il quale descrive un grand’arco dal punto dove l’avevano passato fino a quello dove eravamo giunti.
Una fitta catena di sentinelle a piedi, armate di fucile, si stendeva tutt’intorno alle tende.
Il paese era dunque pericoloso davvero.
Se ne avessi ancora potuto dubitare, me ne avrebbero arcipersuaso le notizie che raccolsi poi.
I Beni-Hassen sono il popolo più turbolento, più audace, più manesco, più ladro di tutta la vallata del Sebù. L’ultima loro prova fu una rivolta sanguinosa scoppiata nell’estate del 1873, quando salì al trono il Sultano regnante, la quale cominciò col saccheggio della casa del Governatore, a cui rubarono perfino le donne. Il latrocinio è il loro mestiere principale. Si raccolgono in bande, a cavallo, armati, e fanno delle scorrerie di là dal Sebù o nelle altre terre vicine, rubando quanto possono portare o trascinare, e ammazzando, per precauzione, quanti incontrano. Sono disciplinati, hanno dei capi, degli statuti, dei diritti riconosciuti, in un certo senso, persino dal Governo, il quale si serve qualche volta di loro per riavere quello che gli è stato rubato. Rubano per via d’imposte forzate. La gente depredata, invece di sciupare il tempo in ricerche e in ricorsi, ricupera l’aver suo pagando una somma convenuta al capo dei ladri. Per i ragazzi, specialmente, è ammesso come cosa naturalissima che debbano tutti rubare. Se si pigliano una palla nella schiena o si fanno spezzare il capo da una sassata, peggio per loro; si sa che nessuno vuol lasciarsi rubare; e poi non c’è rosa senza spine. I padri lo dicono ingenuamente: un figliuolo di otto anni rende poco, uno di dodici anni assai di più, uno di sedici molto. Ogni ladro ha il suo genere proprio: c’è il ladro di biade, il ladro di bestie bovine, il ladro di cavalli, il ladro di mercato, il ladro di duar1, il ladro di strada. Ci sono persino i ladri che riscuotono un’imposta fissa da tutte le donne che fanno derrata di sè, non rare nemmeno fra quelle tribù vagabonde. Per le strade, assaltano particolarmente gli Ebrei, ai quali è proibito di portar armi. Ma il latrocinio più comune è quello a danno dei duar. In questo sono artisti insuperabili, non solo fra i Beni-Hassen, ma in tutto il Marocco. Vanno a rubare a cavallo, e la grand’arte consiste più nella rapidità che nell’accortezza, più nel non lasciarsi raggiungere che nel non lasciarsi vedere. Passano, afferrano e dispaiono, senza dar tempo alla gente di riconoscerli. Son furti a volo, fulminei, giochi di prestidigitazione equestre. Rubano pure a piedi e anche in questo son maestri. S’introducono nei duar, nudi, perchè i cani non abbaiano agli uomini nudi; insaponati da capo a piedi, per sguisciare dalle mani di chi li afferri; con un fascio di fronde tra le braccia, perchè i cavalli, pigliandoli per alberi, non si spaventino. I cavalli sono la preda più ghiotta. Vi si attaccano al collo, stendono le gambe sotto il ventre, e via come saette. La loro audacia è incredibile. Non c’è accampamento di carovana, sia anche d’un pascià o d’un’ambasciata, dove non penetrino, malgrado la più oculata sorveglianza. Strisciano, guizzano, si schiacciano contro terra, coperti d’erba, di paglia, di foglie, vestiti di pelli di montone, in apparenza d’accattoni, di malati, di pazzi, di soldati, di santi. Rischian la vita per un pollo, fanno dieci miglia per uno scudo. Giunsero persino a rubare dei sacchetti di denaro sotto il capo ad ambasciatori che dormivano. E appunto quella notte, malgrado la catena delle sentinelle, rubarono un montone legato al letto del cuoco, il quale, accortosi la mattina del furto, stette una mezz’ora immobile davanti alla tenda, colle braccia incrociate, e lo sguardo fisso all’orizzonte, esclamando di tratto in tratto: — Ah! madona santa, che pais! che pais! che pais!
Ho nominato i duar: non si può parlare del Marocco senza descriverli, e lo posso fare ampiamente con quello che vidi, e quello che ne seppi dal signor Morteo, il quale ci vive in mezzo da vent’anni.
Questo signor Morteo, fra parentesi, è un singolare stampo d’uomo. Genovese di nascita, ancora giovane, marito d’una bella inglese, padre di due bambini vezzosissimi e ricco da poter vivere splendidamente in qualunque città d’Europa, se ne sta invece, relegato volontario, a Mazagan, piccola città posta sulla riva dell’Atlantico, a duecento chilometri da Marocco, in mezzo agli arabi e ai mori, non occupato d’altro che della sua famiglia e del suo commercio, non vedendo, per mesi e mesi, la faccia d’un europeo, e non serbando col mondo civile altra relazione che quella d’abbonato a due giornali illustrati. Di tempo in tempo viene a fare un giro in Italia o in Francia, ma vi s’annoia appena arrivato, e dai palchetti della Scala e del Grand-Opéra sospira la sua casetta moresca bagnata dalle onde dell’oceano, i suoi armenti, i suoi duar, la vita ignorata e tranquilla della sua seconda patria affricana. In quel paese, dove, non è molto, un agente consolare di Francia, preso da una malinconia disperata, diventò pazzo, e un altro cercò di seppellirsi vivo nelle sabbie della marina; egli non ha mai avuto un giorno di spleen. Parla l’arabo, mangia all’araba, vive tra gli arabi, li studia, li ama, li difende; ha contratto qualcuno dei loro difetti e parecchie delle loro buone qualità; non ha più d’europeo, insomma, che la famiglia, il vestito e la pronuncia genovese. Contuttociò, egli non avrebbe potuto mostrarsi più amabilmente italiano di quel che fece dal primo all’ultimo giorno del viaggio. Interprete, intendente, guida, compagno, riuscì caro ed utile a tutti, e nessuno dissentì mai da lui che sopra un punto: noi auguravamo al Marocco la civiltà; egli sosteneva che la civiltà avrebbe reso quel popolo due volte più tristo e quattro volte più infelice; e bisogna confessare che, sebbene avesse torto, s’era qualche volta tentati di dargli ragione.
Il duar è formato ordinariamente da dieci, quindici o venti famiglie, che per lo più son legate fra loro da un vincolo di parentela; e ogni famiglia ha una tenda. Le tende sono disposte in due ordini paralleli, distanti una trentina di passi l’uno dall’altro, in modo che formano nel mezzo una specie di piazzetta rettangolare, aperta alle due estremità. Queste tende sono quasi tutte eguali. Consistono in un gran pezzo di stoffa nera o color di cioccolatte, tessuta con fibre di palme nane o con pelo di capra e di cammello; la quale è sostenuta da due pali o due grosse canne, unite insieme da una traversa di legno, che regge il tetto. La loro forma è ancora quella delle abitazioni dei Numidi di Giugurta, che il Sallustio paragonava a una nave rovesciata colla carena in alto. Nell’inverno e nell’autunno, la tela è distesa fino a terra e fissata per mezzo di corde a pioli, in maniera che non v’entri nè vento nè acqua. In estate, è lasciata tutt’intorno una larga apertura per la circolazione dell’aria, protetta da una piccola siepe di giunchi, di canne o di rovi secchi. Con questo mezzo, le tende sono più fresche in estate e meglio chiuse nella stagione piovosa, che le stesse case moresche delle città, le quali non hanno nè usci nè vetrate. L’altezza massima d’una tenda è di due metri e mezzo; la massima lunghezza di dieci; quelle che superano questa misura appartengono a qualche sceicco opulento, e son rare. Una parete di giunchi divide la casetta in due parti: di qua dormono il padre e la madre, di là i figliuoli e il rimanente della famiglia. Una o due stuoie di vimini, un cassone di legno variopinto e arabescato, in cui tengono la roba; uno specchietto rotondo di Trieste o di Venezia, un alto treppiedi di canna, che ricoprono d’un caic, per lavarvisi sotto; due pietre per macinare il grano, un telaio della forma di quei dei tempi d’Abramo, un rozzo lume di latta, qualche vaso di terra, qualche pelle di capra, qualche piatto, una rocca, una sella, un fucile, un pugnalaccio, sono tutta la suppellettile d’una di queste case. In un angolo v’è una chioccia e una covata di pulcini; davanti all’entrata un fornello, formato di due mattoni; da un lato della tenda un piccolo orto; più in là alcuni fossi rotondi, rivestiti di pietre o di cemento, nei quali conservano il grano. In quasi tutti i grandi duar v’è una tenda appartata dove sta il maestro di scuola, al quale il duar dà cinque lire il mese, oltre a molte provvigioni di viveri. Tutti i ragazzi vanno là a ripetere centomila volte gli stessi versetti del Corano, e a scriverli, quando li sanno a mente, sopra una tavola di legno. La maggior parte, lasciando la scuola prima di saper leggere, per andar a lavorare coi genitori, dimenticano in breve tempo il poco che hanno imparato. I pochissimi che hanno volontà e modo di studiare, continuano fino a vent’anni, per andar poi a compiere gli studi in una città, e diventare taleb, che significa scrivano o notaro, ed equivale a prete, poichè è una cosa sola, presso i Maomettani, la legge religiosa e la civile. La vita che si fa in questi duar è semplicissima. All’alba, tutti si levano, dicono le loro preghiere, mungono le vacche, fanno il burro, e bevono il latte agro che ne rimane. Per bere si servono di gusci di conchiglie e di patelle che comprano dalle popolazioni della costa. Poi gli uomini vanno a lavorare alla campagna, e non tornan più che verso sera. Le donne vanno a pigliar acqua e a cercar legna, macinano il grano, tessono le rozze stoffe di cui si vestono esse e i loro uomini, fanno le corde delle tende con fibre di palma nana, mandano da mangiare ai mariti, e preparano il cuscussù per la sera. Il cuscussù è mescolato con fave, zucche, cipolle e altri erbaggi; qualchevolta inzuccherato, pepato e condito con sugo di carne; nei giorni di scialo, mangiato con carne. Tornati gli uomini, cenano e per lo più, al tramonto del sole, vanno a dormire. Qualche volta, dopo cena, un vecchio racconta una storia in mezzo a una corona di parenti. Durante la notte il duar rimane immerso nel silenzio e nelle tenebre: solo qualche famiglia tiene davanti alla tenda un lumicino acceso, che serve di richiamo ai viaggiatori smarriti. — Il vestire degli uomini e delle donne non è che una camicia di tela di cotone, una cappa e un caic grossolano. Le cappe e i caic non li lavano che tre o quattro volte l’anno, in occasione delle feste solenni, per cui son quasi sempre del colore della loro pelle o più neri. La pulizia del corpo è più curata, poichè senza far le abluzioni prescritte dal Corano, non potrebbero pregare. Le donne per di più si lavano ogni mattina tutta la persona, nascondendosi sotto il treppiedi coperto col caic. Ma lavorando come fanno, e dormendo come dormono, son sempre sudici a un modo, benchè facciano uso, miracolo! del sapone. Nei ritagli di tempo molti giocano alle carte, e quando non giocano, un gran divertimento degli uomini è di stendersi supini in terra e di sballottare i loro bambini; per i quali però si raffreddano via via che diventan grandi, e così è dei figliuoli per loro. Molti di questi figli del duar, giungono all’età di dieci o quattordici anni senz’aver mai visto una casa, ed è curioso il sentir raccontar dai mori o dagli europei delle città, che li prendono al proprio servizio, lo sbalordimento che provano entrando per la prima volta in una stanza: come palpano le pareti, come pestano il pavimento, con che viva emozione s’affacciano alle finestre e ruzzolano giù per le scale. — Gli avvenimenti principali, in questi villaggi erranti, sono i matrimoni. I parenti e gli amici della sposa, con grande strepito di fucilate e di grida la conducono, seduta sulla groppa d’un cammello, al duar dello sposo, ravvolta in una cappa bianca o turchina, tutta profumata, colle unghie tinte di henné e le soppraciglia nere di sughero bruciato, e per lo più ingrassata, per quell’occasione, con un erba particolare chiamata ebba, di cui fanno grande uso le ragazze. Il duar dello sposo, dal canto suo, invita alla festa i duar vicini, da cui accorrono spesso cento o duecento uomini a cavallo, armati di fucile. La sposa scende dal cammello dinanzi alla tenda del suo futuro marito, siede sopra una sella infronzolita e infiorata, ed assiste alla festa. Mentre gli uomini fanno il giuoco della polvere, le donne e le ragazze, disposte in circolo davanti a lei, saltellano al suono d’un tamburo e d’un piffero, intorno a un caic disteso in terra, nel quale ogni invitato, passando, butta una moneta per gli sposi, e un banditore annunzia ad alta voce l’offerta, facendo un buon augurio all’oblatore. Verso sera, il ballo cessa, i fucili tacciono, tutti siedono in terra, vengon portati enormi piatti di cuscussù, polli arrosto, montoni allo spiedo, tè, dolci, frutta; e la cena si prolunga fino a mezzanotte. Il giorno seguente, la sposa vestita di bianco, con una ciarpa rossa stretta intorno al viso, che le nasconde la bocca, e il cappuccio tirato sul capo, accompagnata dai parenti e dagli amici, va per i duar vicini a raccoglier un’altra volta denaro. E dopo questo, lo sposo ritorna ai campi, la sposa va alla macina, e l’amore vola via. Quando uno muore, ripetono le danze. Il parente più prossimo del defunto ne ricorda le virtù; gli altri, affollati intorno a lui, danzano con gesti e atteggiamenti dolorosi, si coprono di fango, si graffiano il viso, si stracciano i capelli; poi lavano il cadavere, lo ravvolgono in una tela nuova, lo portano, sopra una barella, al cimitero, e lo sepelliscono appoggiato sul lato destro, col viso rivolto a oriente. — Questi sono i loro usi e i loro costumi, per dire così, patenti; ma gl’intimi chi li conosce? Chi può seguire i fili di cui s’ordisce la trama della vita d’un duar? Chi può sapere come parla il primo amore, come s’intrica il pettegolezzo, in che strana forma, con che strani accidenti si producano e lottino l’adulterio, la gelosia, l’invidia; che virtù brillino, che sacrifizi si compiano, che abbominevoli passioni imperversino fra quelle pareti di tela? Chi può rintracciare l’origine delle loro favolose superstizioni? Chi può chiarire quel bizzarro miscuglio di confuse tradizioni pagane e cristiane: le croci segnate sulla pelle, la vaga credenza ai satiri di cui trovano le orme forcute sulla terra, la bambola portata in trionfo al primo spuntare del grano, il nome di Maria invocato in soccorso delle partorienti, le danze circolari che rammentano i riti degli adoratori del sole? — Una sola cosa loro è certa e manifesta: la miseria. Vivono degli scarsi prodotti della terra mal coltivata, scemati ancora da imposte gravissime e mutevoli, riscosse dal Sceicco, o capo del duar, eletto da loro e direttamente sottoposto al Governatore della provincia. Rimettono al Governo, in danaro o in natura, la decima parte del raccolto, e una lira in media per ogni bestia. Pagano cento lire l’anno per ogni tratto di terreno corrispondente al lavoro di due buoi. Fanno al Sultano, nelle principali feste annuali, un regalo obbligatorio, che equivale presso a poco a un’imposta di cinque lire per tenda. Sborsano denaro o forniscon viveri, ad arbitrio dei governatori, quando passa il Sultano, un pascià, un’ambasciata, un corpo di soldati. Oltre a ciò, chiunque abbia denari è esposto alle estorsioni dei Governatori, non velate, non scusate da alcun pretesto, ma sfacciatamente violente. Aver fama di agiato è una sventura. Chi ha un piccolo peculio, lo sotterra, spende di nascosto, finge la miseria e la fame. Nessuno accetta in pagamento uno scudo annerito, anche se è certo che sia buono, perchè può parer levato di sotto terra e mettere in sospetto chi dà la caccia ai tesori. Quando un agiato muore, i parenti, per scongiurare la rapina, offrono un regalo al Governatore. Offrono regali per chieder giustizia, per prevenire le persecuzioni, per non esser ridotti a morir di fame. E quando finalmente la fame li strazia e la disperazione li accieca, disfan le tende, impugnano i fucili e lanciano il grido della rivolta. Che succede allora? Il Sultano sguinzaglia tremila furie a cavallo a seminare la morte nel paese ribelle. Questi tagliano teste, predano armenti, ruban donne, incendiano messi, riducon la terra un deserto coperto di cenere e di sangue, e ritornano ad annunziare alla reggia che la ribellione è domata. Se poi la ribellione si allarga, e mandando a vuoto le arti con cui il Governo tenta di smembrarne le forze, disperde gli eserciti e riman padrona del campo, che vantaggio ne ricava, fuorchè quei brevi giorni di libertà guerresca, che le costan migliaia di vite? Eleggeranno un altro Sultano, e provocheranno una guerra dinastica tra provincie e provincie, a cui terrà dietro un dispotismo peggiore; ciò che da dieci secoli accade.
La mattina del 10 la carovana si mise in cammino, all’alba, accompagnata dai trecento cavalieri dei Beni-Hassen e dal loro Governatore Abd-Allà, servo di Dio.
Per tutta quella mattina si continuò a camminare in pianura, in mezzo a campi d’orzo, di grano e di saggina, interrotti da grandi spazi coperti di finocchio selvatico e di fiori, e sparsi di gruppi d’alberi e di tende nere, le quali di lontano presentavano l’aspetto di quei grandi mucchi di carbone che si vedono tratto tratto per la maremma toscana. Incontravamo più sovente che nei giorni innanzi, armenti, cavalli, cammelli, brigatelle d’arabi. Lontano, dinanzi a noi, si stendeva una catena di monti d’un color cenerino delicatissimo, e a mezza distanza, fra i monti e la carovana, biancheggiavano due cube, la prima illuminata dal sole, la seconda, visibile appena. Erano le cube di Sidi-Ghedar e di Sidi-Hassem, fra le quali passa il confine della terra dei Beni-Hassen. Presso alla cuba più lontana si doveva piantare quel giorno l’accampamento.
Molto prima però di giungere al confine, il Governatore Sidi-Abd-Allà, che fin dal momento della partenza pareva pensieroso e irrequieto, si avvicinò all’Ambasciatore e fece cenno di voler parlare.
Mohamed Ducali accorse.
— L’Ambasciatore d’Italia mi perdonerà — disse il fiero Governatore — se io oso domandargli il permesso di tornar indietro colla mia scorta.
L’ambasciatore domandò perchè.
— Perchè, — rispose Sidi-Abd-Allà corrugando i suoi grandi sopraccigli neri, — la mia casa non è sicura.
Nientemeno! pensammo noi. A due miglia di distanza! Che delizia di mestiere ha da essere quello di governare i Beni-Hassen!
L’Ambasciatore acconsentì; Sidi-Abd-Allà gli prese la mano e se la strinse sul petto con una energica espressione di gratitudine. Ciò fatto, voltò il cavallo, e quella turba variopinta, cenciosa, terribile, slanciati i cavalli a briglia sciolta, in pochi momenti non fu più che un nuvolo di polvere all’orizzonte.
- ↑ Si chiama duar un accampamento d’arabi.