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Karia-El-Abbassi
Ben-Auda Beni-Hassen

KARIA-EL-ABBASSI


Levato l’accampamento, ci mettemmo in cammino nell’ordine solito, e fra le grida e le fucilate dei duecento cavalieri del Ben-Auda, arrivammo dopo due ore a un piccolo corso d’acqua che segna il confine della terra dei Seffiàn.

Nel momento che il portabandiera si voltava per dire: — Ecco il fiume; — di dietro a un rialto di terreno della riva opposta uscì improvvisamente una gran folla di cavalieri, in mezzo ai quali ci colpì a primo aspetto la figura elegante e gentile del Governatore.

Era Bu-Bekr-ben-el-Abbassi, governatore della provincia che si stende fra la terra dei Seffiàn e il grande fiume Sebù.

La scorta del Ben-Auda ci voltò le spalle e disparve; l’ambasciata guadò il fiume e si trovò circondata dalla scorta nuova.

Bu-Bekr-ben-el Abbassi strinse vivamente la mano all’ambasciatore, fece un saluto amichevole al Ducali, suo antico compagno di scuola, e diede il benvenuto a tutti gli altri con un gesto pieno di maestà e di grazia.

Ci rimettemmo in cammino.

Per un pezzo, nessuno di noi potè staccar gli occhi da quell’uomo. Era il più simpatico governatore che avessimo incontrato fino allora. Di statura mezzana, di forme snelle, bruno, aveva un occhio penetrante e dolce, un bel naso aquilino e una folta barba nera; e sorridendo, mostrava due file di denti bellissimi. Era tutto ravvolto in una cappa fine e bianca come la neve, col cappuccio tirato sul turbante; e montava un cavallo nero corvino, con tutta la bardatura color celeste. Doveva essere un uomo generoso, amato e contento. E fu un inganno della mia fantasia, o anche l’aspetto dei duecento cavalieri di Karia-el-Abbassi rifletteva vagamente la gentilezza del Governatore. Mi parvero visi aperti e pacati di gente che da molti anni godesse la grazia miracolosa d’un governo umano. E quest’apparenza, e le capanne che cominciavano a farsi più frequenti per la campagna, e il tempo sereno raffrescato da un’arietta odorosa, mi diedero per qualche momento l’illusione che quella provincia fosse un oasi di prosperità e di pace in mezzo al miserando impero dei Sceriffi.


S’attraversò un villaggio, formato da due file di tende di pelo di cammello, chiuse con canne e fascine: ogni tenda fiancheggiata da un orticello cinto da una siepe di fichi d’India. Di là dalle tende pascolavano vacche e cavalli; davanti, sulla nostra strada, v’era qualche gruppo di bimbi mezzi nudi, accorsi per vederci; le donne e gli uomini coperti di cenci, ci guardavano di dietro alle siepi. Nessuno ci mostrò i pugni, nessuno ci maledì. Appena fummo fuori del villaggio, tutti uscirono dalle loro capanne, e allora vedemmo una turba di qualche centinaio di pezzenti neri, luridi, attoniti, che ci fecero l’effetto della popolazione risuscitata d’un camposanto. Alcuni, correndo, ci tennero dietro per un pezzo; altri disparvero dopo pochi momenti dietro un rialto del terreno.


La configurazione del paese che percorrevamo, dava luogo a una mirabile varietà d’effetti pittoreschi della scorta e della carovana. Era una successione di valli profonde, parallele, formate da grandi onde di terreno, tutte fiorite come giardini. Passando d’una valle in un’altra, si perdeva di vista la scorta per qualche momento; poi si vedevano spuntare sulla sommità dell’altura, dietro di noi, prima tutte le punte dei fucili, poi i fez e i turbanti, poi i visi, e man mano le persone intere e i cavalli, come se uscissero dal seno della terra. Arrivati sopra un’altura vedevamo, voltandoci indietro, scorazzare quei duecento cavalli giù nella valle piena di fumo e rimbombante di fucilate; e via via su tutte le alture che ci eravam lasciate alle spalle, cavalli, muli, servi, soldati, che apparivano un momento sulle sommità e sparivano subito come se precipitassero in un burrone. Vista a traverso tutte quelle valli, la carovana pareva interminabile e presentava l’aspetto grandioso d’un esercito di spedizione o d’un popolo emigrante.


Arrivammo finalmente a un villaggio, Karia-el-Abbassi, formato dalla casa del Governatore, e da un gruppo di capanne e di casupole ombreggiate da qualche fico e da qualche olivo selvatico.

Il Governatore ci offerse di riposare in casa sua: la carovana tirò innanzi fino al luogo designato per l’accampamento.

S’attraversarono due o tre cortiletti chiusi fra quattro muri nudi, e s’entrò in un giardino, sul quale s’apriva la porta principale della casa di Ben-el-Abbassi: una casetta bianca, senza finestre, silenziosa come un convento. Il governatore era scomparso. Alcuni schiavi mulatti ci fecero entrare in una piccola stanza a terreno, pure bianca, senz’altra apertura che la porta principale, e una porticina in un angolo. V’erano due alcove, tre materasse bianche stese sul pavimento a musaico e qualche cuscino ricamato. Era la prima volta che riposavamo fra quattro pareti dopo la nostra partenza da Tangeri! Ci sdraiammo voluttuosamente nelle alcove e stemmo aspettando con viva curiosità la continuazione dello spettacolo.

Il Governatore ricomparve, ravvolto in un caic bianchissimo, che gli scendeva dal turbante fino ai piedi. Lasciò le babbuccie gialle in un canto e sedette, coi piedi nudi, sopra una materassa, in mezzo al Ducali e all’Ambasciatore. Gli schiavi portarono vasi di latte e piatti di dolci, ed egli stesso, Ben-el-Abbassi, fece il tè e lo versò in bellissime tazzine di porcellana chinese, che il suo servo favorito, un giovane mulatto dal viso rabescato, portò in giro ad una ad una. Non si può dire la grazia e la dignità che aveva nell’aspetto e nei modi quel governatore, probabilmente ignorantissimo, di poche migliaia d’arabi attendati, che forse in tutta la sua vita non aveva avuto che fare con cinquanta persone civili! Messo nel più aristocratico salotto d’Europa, nessuno avrebbe avuto una sillaba a ridire sopra il menomo dei suoi movimenti. Era pulito, lindo, odoroso come un’odalisca uscita dal bagno. Ad ogni movimento che facesse, il caic rimosso lasciava trasparire qui un po’ di color di rosa, là un po’ d’azzurro, qua un po’ di ranciato, tutti i colorini pomposi del vestimento nascosto, che mettevano una gran voglia di strappargli il velo per vedere che meraviglie ci avesse sotto, come fanno i bambini ai fantocci. Parlava con dolcezza, sorridendo e guardandoci senza apparenza di curiosità, come se ci avesse visti il giorno prima. Non era mai uscito dal Marocco, diceva che avrebbe visto volentieri le nostre strade ferrate e i nostri grandi palazzi, e sapeva che in Italia c’eran tre città che si chiamavano Genova, Roma e Venezia. Mentre egli parlava, si aperse la porticina ch’era dietro a lui, e fece capolino una bella ragazzetta mulatta di dieci o dodici anni, che volse intorno rapidamente due grand’occhi spaventati e curiosi, e disparve. Era una figliuola del governatore e d’una nera. Il governatore se n’accorse e sorrise. Seguì un lungo intervallo di silenzio. In mezzo alla stanza fumava l’aloè nei profumieri; davanti alla porta v’era un drappello di schiavi attoniti; dietro agli schiavi s’alzava un gruppo di palme; dietro le palme rideva il sereno purissimo del cielo d’Africa. Tutt’a un tratto, non so come, rimasi profondamente stupito di trovarmi in quel luogo e pensai a me stesso, seduto nella mia cameretta a Torino, come a un’altra persona. Il Governatore, alzandosi, mi richiamò al sentimento della realtà. Strinse la mano a tutti, infilò i piedi nelle babbuccie, s’inchinò con bel garbo e disparve per la porticina. — Va a portar notizie alla sua favorita — disse uno. Se potessi sentire quello che gli domanda! — pensai — Come sono? Cosa sono? Come parlano? Che vestiti hanno? Oh lasciameli vedere, amor mio, un momento solo, a traverso le fessure della porta ed io ti colmerò di carezze! — E probabilmente l’amante cortese cedette, e la bella misteriosa, spiandoci all’uscita, esclamò: — Allà mi protegga! Che spaventose figure!


Andando all’accampamento, ch’era a un mezzo miglio dalla casa del Governatore, sopra un altopiano coperto d’erba secca, ci sentimmo per la prima volta scottar dal sole in maniera che ognuno di noi cominciò, come dice della plebe milanese, ai tempi della peste, il Tadino, «a chiudere li denti et inarcare le ciglia.» E non erano che gli otto di maggio! E non eravamo ancora a cento miglia dalla costa del Mediterraneo! E ci rimaneva da attraversare la grande pianura del Sebù!

Nonostante il caldo, l’accampamento di Karia-el-Abbassi fu rallegrato, verso sera, da un insolito concorso di gente. Da una parte una lunga fila d’arabi, seduti in terra, assistevano alle cariche dei cavalieri della scorta; dalla parte opposta altri arabi giuocavano alla palla; un po’ più lontano, un gruppo di donne imbacuccate nel loro rozzo caic ci osservavano con stupore gesticolando fra loro; e frotte di bambini scorazzavano tutt’intorno. Il popolo di Ben-el-Abbassi pareva veramente meno selvaggio dei suoi vicini del Garb.

Il Biseo ed io ci avvicinammo ai giuocatori. Appena ci videro, smisero di giuocare, si consultarono gli uni cogli altri e poi ricominciarono. Erano quindici o venti, la maggior parte pezzi di giovani larghi, lunghi e nerboruti, che non avevano altro addosso che una camicia stretta intorno alla vita, e una specie di mantello di tela grossolana e sudicia, rigirato intorno al corpo come un caic. Giocavano diversamente da quelli che avevo visti a Tangeri. Uno con un colpo del piede buttava la palla a una grande altezza; tutti gli altri facevano ad afferrarla in aria quanto più in su fosse possibile, spiccando in direzione verticale dei salti altissimi, come se si levassero a volo; e chi riusciva ad afferrarla, la buttava in aria alla sua volta. Spesso, in quel serra serra, uno dei più robusti, cadendo, travolgeva nella caduta alcuni altri, i quali si trascinavan dietro i rimanenti, e allora rotolavano per un lungo tratto tutti insieme intrecciati e confusi sgambettando e ridendo, senza darsi pensiero al mondo di ciò che esponevano al sole. Più d’uno, in quel rotolamento, lasciò intravvedere un pugnale ricurvo legato alla cintura; altri una borsicina appesa al collo, che conteneva probabilmente qualche versetto del Corano preservatore dalla tigna. Una volta la palla cadde ai miei piedi. Mi venne un’idea. La raccolsi, la misi sopra una palma aperta, vi feci su coll’altra mano due o tre gesti di negromante e la ributtai. Per qualche momento nessuno dei giuocatori osò riprenderla. Vi si avvicinarono, la guardarono, la toccarono col piede in atto di diffidenza; e solo dopo avermi visto ridere e accennare che era stato uno scherzo, il più ardito la raccolse e la rilanciò ridendo ai suoi compagni.

Intanto quasi tutti i ragazzi che scorazzavano qua e là ci s’erano affollati intorno. Saranno stati una cinquantina, e di tutta la roba che avevano addosso fra tutti non si sarebbe trovato un rigattiere che offrisse cinquanta centesimi. Alcuni erano bellissimi, molti tignosi, la maggior parte color caffè, alcuni così tra il verdastro e il giallognolo, che parevano impastati di sostanze vegetali. Parecchi avevano il codino alla chinese. Da principio ci stavano discosti una decina di passi, guardandoci con sospetto, e scambiandosi, a bassa voce, le proprie osservazioni. Poi, vedendo che non facevamo nessun atto ostile, ci si avvicinarono a poco a poco fin quasi a toccarci e cominciarono ad alzarsi in punta dei piedi, a chinarsi, a piegarsi di qua e di là, per vederci bene da tutte le parti, come avrebbero fatto intorno a due statue. E noi due immobili. Uno ci toccò una scarpa colla punta del dito e ritirò subito la mano come se si fosse scottato; un altro mi fiutò la manica. Eravamo circondati, sentivamo ogni sorta d’odori esotici, ci pareva già che ci brulicasse addosso qualchecosa. — Andiamo, — dissi al Biseo, — è tempo di liberarsi — Io ho un mezzo infallibile, — rispose. Così dicendo tirò fuori bruscamente l’album e la matita e fece l’atto di mettersi a copiare una di quelle faccie. In un batter d’occhio si dispersero tutti come uno sciame d’uccelli.

Poco dopo ci si avvicinarono alcune donne. — Oh miracolo! — si disse noi altri. — Purchè non vengano a darci una pugnalata in nome di Maometto! — E ci tenemmo sull’avviso. Erano invece povere malate, smunte, che avevano appena la forza di reggersi in piedi e di tener su il braccio per coprirsi il viso col caic; fra le quali una giovane, che gemeva da metter compassione, non lasciando vedere che un occhio azzurro velato dalle lagrime. Capii che cercavano il medico e accennai dove dovevano andare. Una di esse, spiegando la parola col gesto, mi domandò se si pagava. Risposi di no. Allora s’avviarono vacillando verso la tenda del medico. Volli assistere al consulto. — Che cosa vi sentite? — domandò il signor Miguerez, in arabo, alla prima che si presentò. — Un gran dolore qui, — rispose, indicando una spalla. — Che cosa ci avete? — (Non ricordo che cosa abbia risposto). — Bisogna ch’io ci veda, — disse il medico; scopritevi un momento. — La donna non si mosse. Ecco il gran punto! Ho una cosa qui, più sotto, più sopra, di qua, di là; ma nessuna, nemmeno una vecchia nonagenaria, vuol lasciarsi vedere, e tutte pretendono che il medico indovini. — Insomma, volete o non volete scoprirvi? ridomandò il Miguerez. — La donna non si mosse. — Quand’è così, vediamo le altre. — E interrogò le altre, mentre quella si allontanava tutta malinconica. Le altre non avevano bisogno di scoprirsi; il medico distribuì loro delle pillole e delle polveri, e le mandò con Dio. Povere creature! Nessuna di loro toccava forse ancora i trent’anni, e la gioventù era già passata per tutte, e col passare della gioventù, eran cominciate le fatiche smodate, i trattamenti brutali e il disprezzo che rendono orribile la vecchiaia della donna araba: strumento di piacere fino a vent’anni, bestia da soma fino alla morte.


Il pranzo fu rallegrato da una visita di Ben-el-Abbassi, e la notte funestata da una spaventosa invasione d’insetti.

Già nelle ore calde della giornata, avevo pronosticato male dal brulichìo straordinario che si vedeva fra l’erbe. Le formiche formavano delle lunghissime strisce nere, gli scarabei c’erano a mucchi, le cavallette fitte come le mosche; e con questi un gran numero d’altri insetti, non visti mai negli altri accampamenti, che m’ispiravano pochissima fiducia. Il capitano Di Boccard, intendente di Entomologia, me ne faceva la nomenclatura. C’era, tra gli altri, la cicindela campestris, trabocchetto vivente, che chiude colla grossa testa l’apertura della sua tana, e fa sprofondare, abbassandosi, gl’insetti incauti che vi passano sopra; il Pheropsophus africanus, che slancia dall’ano, contro il nemico che l’insegue, un buffo di vapori corrosivi; la Meloe majalis che strascina a stento, come un’idropica, l’enorme addome gonfio d’erba e d’ova; il Carabus rugosus, la Pimelia scabrosa, la Cetonia opaca, il Cossyphus Hoffmanseggi, foglia animata, di cui Vittor Hugo farebbe una descrizione fantastica da metter freddo nelle ossa. Più un gran numero di lucertoloni, di ragnacci, di centopiedi lunghi un palmo, di grilli cantaioli grossi come un pollice, di cimici verdi larghe come un soldo, che andavano e venivano come se s’apparecchiassero d’accordo comune a una qualche impresa guerresca. Come se questo non bastasse, appena seduto a tavola, nel punto che stendevo la mano per versarmi da bere, avevo visto far capolino dal mio bicchiere una spropositata locusta, la quale, invece di volar via a un mio gesto minaccioso, s’era messa a guardarmi con un’aria d’impertinenza inaudita. E infine, per colmo di spavento, mentre ci alzavamo da tavola, era comparso il servo Hamed, col viso di chi ha corso un grande pericolo, e ci aveva messo sotto gli occhi, infilata in uno stecco, nientemeno che una tarantola, una lycosa tarentula, il ragno terribile, che cuando pica á un hombre, quando punge un uomo, diceva lui, Allà ce ne guardi! il disgraziato comincia a ridere, a piangere, a cantare e a ballare, e non c’è che una buona musica, ma buona! la musica della banda del Sultano, che lo possa guarire. Ora immagini il lettore, con che animo io sia andato a dormire. Nondimeno, i miei tre compagni ed io eravamo già a letto da parecchi minuti, avevamo già spento il lume e cessato di parlare, e nessuno sentiva nulla. Ma fu una gioia passeggera. Tutt’a un tratto il Comandante balzò a sedere sul letto e gridò: — Io mi sento popolato! — Allora anche noi cominciammo a sentir qualche cosa. Per qualche tempo non furono che contatti furtivi, punture timide, stuzzicamenti, piccole provocazioni di esploratori e di sentinelle avanzate, alle quali si poteva non badare. Ma entrarono in campo ben presto le grosse pattuglie e allora diventò necessaria una vigorosa resistenza offensiva. La lotta fu feroce. Più ci dibattevamo, e più gli assalitori raffittivano. Venivan dal capezzale, salivan dai piedi, scendevano dall’alto della tenda. Pareva che eseguissero degli assalti coordinati ad un vasto concetto strategico di qualche insettaccio d’ingegno. Era evidentemente una guerra di religione. In breve non fummo più capaci di resistere. — La luce! — gridò il viceconsole. Saltammo tutti e quattro in terra, s’accese il lume, si cominciò la strage. La soldataglia l’ammazzavamo senz’altro; i capi, i pezzi grossi, classificati prima dal capitano e giudicati dal comandante, erano messi sul rogo dal vice-console, ed io ne facevo l’elogio funebre in prosa e in versi sciolti che saran pubblicati dopo la mia morte. In poco tempo il terreno fu seminato d’ale, di zampe, di gambe, di teste, i superstiti si dispersero, e noi, stanchi dell’eccidio, dopo esserci nominati reciprocamente cavalieri di varii ordini, rimettemmo la testa sul guanciale. Ma che chiasso! Che matta allegria, benchè non fossimo più nessuno di primo pelo! Che risate che venivano proprio d’in fondo e facevano bene all’anima e al corpo!


La mattina seguente, al levar del sole, il governatore Ben-el-Abbassi si presentò all’ambasciatore per accompagnarlo fino ai confini della sua provincia.

Appena discesi dall’altopiano dell’accampamento, ci si spiegò dinanzi agli occhi l’orizzonte immenso della pianura del Sebù.

Questo fiume, uno dei più grandi del Magreb, scende dal fianco occidentale della catena di montagne che si allunga dall’alto Atlante verso lo stretto di Gibilterra, e con un corso di circa duecento quaranta chilometri, ingrossato da molti affluenti, si va a versare, descrivendo un grande arco, nell’Oceano atlantico, presso Mchedia, dove l’ammontamento delle sabbie, comune alle foci di quasi tutti i fiumi marocchini di quel versante, impedisce l’entrata ai bastimenti e produce grandi innondazioni al tempo delle cresciute. La vallata di questo fiume, che abbraccia, alla sua apertura, tutto lo spazio compreso fra le due città di Laracce e di Salé, e tocca alla sua estremità superiore l’alto bacino della Muluia (il grande fiume che segna il confine orientale del Marocco), apre agli Europei, per il litorale e per Teza, la via della città di Fez; comprende, oltre a Fez, la grande città di Mechinez, terza capitale; raccoglie in sè tutta, si può dire, la vita politica dell’Impero, ed è la sede principale della ricchezza e della forza dei Sceriffi. Il Sebù, particolarità da notarsi, segna, dalla parte del settentrione, il confine che i Sultani non oltrepassano mai fuor che in caso di guerra, poichè rimangono a mezzogiorno del fiume le tre città, Fez, Marocco e Mechinez, nelle quali essi soggiornano alternativamente, e la doppia città di Salé-Rabatt, dove passano per recarsi da Fez a Marocco. E fanno questo giro per non valicare la catena dei monti che chiude a mezzogiorno la vallata del Sebù, il versante della quale è abitato dalla tribù dei Zairi, di razza berbera mista, che hanno fama d’essere, coi Beni-Mitir, i più turbolenti e i più indomiti abitatori di quei monti.

Dopo un’ora di cammino arrivammo al Sebù.

Mi parve di vedere il Tevere nella Campagna romana.

In quel punto era largo un centinaio di metri, color di mota, grosso, rapido, incassato fra due rive altissime, quasi verticali, aride, ai piedi delle quali si stendevano due zone di terreno fangoso.

Due barconi antidiluviani, spinti a remi da una decina d’arabi, s’avvicinavano alla nostra riva.

Basterebbero quei barconi, quando non ci fosse altro, a far capire che cos’è il Marocco. Da centinaia d’anni, sultani, pascià, carovane, ambasciate passano il fiume su due carcasse di quella fatta, coi piedi nell’acqua e nella mota, qualche volta con pericolo d’affondare; e quando le carcasse, come segue spessissimo, sono bucate, carovane e ambasciate e pascià e sultani aspettano che i barcaiuoli abbian turati i buchi col fango, o in altro modo, qualche volta per due o tre ore, al sole o sotto la pioggia; e da centinaia d’anni, cavalli, muli e cammelli, per la mancanza d’un pezzo di tavola lungo due metri, rischiano di rompersi le gambe, e se le rompono, saltando dalla sponda nei barconi; e nessuno ha mai pensato a costrurre un ponte di barche, e nessuno ha mai portato sulle sponde un pezzo di tavola lungo due metri, e chi rimprovera a quella gente la mancanza dell’una e dell’altra cosa, è guardato con un’aria di profondo stupore, come se li rimproverasse di non aver fatto un prodigio. In molti luoghi si attraversano i fiumi sopra barche di canne, e gli eserciti li passano per lo più sopra ponti galleggianti, formati con otri rigonfi d’aria e coperti di rami e di terra.

Si smontò tutti da cavallo, e si discese per un sentiero ripido fino alle barche.

La prima barca facendo due o tre larghi giri per scansare le correnti e i ringorghi, portò all’altra sponda tutti gli italiani.

Di là assistemmo al passaggio dell’intera carovana.

Che bel quadro! Me lo vedo ancora dinanzi nel momento della sua maggior vivezza. Nel mezzo del fiume, scivola un barcone pieno di cammelli e di mori d’una carovana mercantile, e un po’ più oltre l’altro barcone che porta i cavalli e i cavalieri della scorta di Fez, in mezzo ai quali sventola la bandiera di Maometto e spicca il viso nero e il turbante di mussolina del Caid. Di là dal fiume, in mezzo a una grande confusione di cavalli, di mule, di servi, di casse, che ingombrano un lunghissimo tratto di sponda, biancheggia la figura gentile del governatore Ben-el-Abbassi, seduto sopra un rialto di terreno, in mezzo ai suoi ufficiali, all’ombra del suo bel cavallo nero dalla sella color celeste. Sull’alto della riva, che si mostra come il muro d’una fortezza, dietro una lunga fila d’arabi della campagna, seduti sull’orlo colle gambe spenzoloni, sono schierati i duecento cavalieri del Governatore, che visti così in alto, sul fondo azzurro del cielo, presentano l’apparenza di duecento giganti. Alcuni servi neri ignudi si tuffano e si rituffano nell’acqua spruzzandosi e gridando. Parecchi arabi lavano i loro cenci sulla sponda, all’uso moresco, ballonzolandovi sopra con movimenti di marionetta. Altri attraversano il fiume a nuoto. Sul nostro capo passano degli stormi di cicogne; lontano, sulla riva, s’alza una colonna di fumo da un gruppo di tende di beduini; i barcaiuoli cantano una preghiera al Profeta per la buona riuscita dell’impresa; le acque mandano scintille d’oro, e Selam, ritto a dieci passi dinanzi a noi, col suo famoso caffettano, fa su questo gran quadro barbaresco e festoso, la più armoniosa macchietta rossa che possa immaginare un pittore.

Il passaggio durò parecchie ore, e via via che passava, la carovana si rimetteva in cammino.

Quando gli ultimi cavalli furono sulla sponda sinistra, il governatore Ben-el-Abbassi rimontò in sella e raggiunse i suoi soldati sull’alto della riva opposta.

Sul punto di partire, l’Ambasciatore e tutti noi alzammo la mano in segno di saluto.

La scorta di Karia-el-Abbassi rispose con una tempesta di fucilate e disparve; ma per qualche momento vedemmo ancora in mezzo al fumo la bella figura bianca del Governatore, ritta sulle staffe, col braccio teso verso di noi in segno di buon augurio e d’addio.

Accompagnati dalla sola scorta di Fez, c’innoltrammo nella terra dei Beni-Hassen, tristamente famosa.


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