< Marocco
Questo testo è stato riletto e controllato.
Had-El-Garbia
Tangeri Tleta de Reissana


Era una folla di ministri, di consoli, di dracomanni, di segretarii, di cancellieri, una grande ambasciata internazionale, che rappresentava sei monarchie e due repubbliche, composta per la maggior parte di gente che aveva girato mezza la terra. Fra gli altri, il console di Spagna, vestito del grazioso costume della provincia di Murcia, con un pugnaletto alla cintura; il console gigantesco degli Stati Uniti, antico colonnello di cavalleria, che s’alzava di tutta la testa al di sopra della comitiva, e cavalcava un bel cavallo arabo bardato alla messicana; il dracomanno della Legazione di Francia, un uomo di forme atletiche, piantato sopra un enorme cavallo bianco, col quale presentava in certi atteggiamenti i contorni fantastici e poderosi di un centauro; delle faccie inglesi, portoghesi, andaluse, tedesche. Tutti parlavano, ed era una conversazione in dieci lingue, accompagnata da risate, canterellamenti e nitriti. Davanti a noi cavalcava il portabandiera, seguito da due soldati della Legazione d’Italia; dietro venivano i cavalieri della scorta, guidati dal generale mulatto, coi fucili ritti sulle selle; dai lati uno sciame di servi arabi a piedi. Tutta questa comitiva, dorata dagli ultimi raggi del sole, presentava uno spettacolo così splendidamente pittoresco, che ognuno di noi lasciava trasparire sul volto la compiacenza d’essere una figura del quadro.

A poco a poco quasi tutti coloro che ci accompagnavano, si accomiatarono e tornarono a Tangeri; non rimasero più con noi che l’America e la Spagna.

La strada, per allora, non era delle peggio; la mia mula pareva la mula più docile dell’Impero; che cosa mi rimaneva a desiderare? Ma non c’è felicità intera sulla terra. Il capitano mi si avvicinò e mi diede una notizia spiacevole. Il vice-console, Paolo Grande, nostro compagno di tenda, era sonnambulo. Il capitano stesso l’aveva incontrato la notte prima, su per le scale della casa della Legazione, ravvolto in un lenzuolo, con un lume in una mano e una pistola nell’altra. I servi della casa, interrogati, avevano confermata la cosa. Dormire sotto la tenda con lui era pericoloso. Il capitano pregava me, poichè avevo maggiore famigliarità col vice-console, d’indurlo a rimettere a qualcuno le sue armi durante la notte. Io promisi di fare tutto il possibile. — Mi raccomando —; disse allontanandosi; — anche in nome del Comandante; si tratta di salvare la pelle. — Questa ci mancava! — pensai, e cercai subito il vice-console. Egli stesso mi venne accanto. Di domanda in domanda riuscii a sapere che aveva con sè un piccolo arsenale, tra armi da fuoco e armi da taglio; compreso un pugnalaccio moresco, di cui mi fece la descrizione, e che, non so perchè, mi pareva stato fabbricato apposta per farmi un buco nel cuore. Ma come fargli capire la cosa? E se non ne avesse avuto coscienza? Decisi di aspettare fino a notte, quando andassimo a letto, e per tutta la strada non mi potei più liberare da quel pensiero molesto.

Camminavamo sopra un terreno ondulato a grandi curve, in una campagna verde e solitaria. La strada, se si può chiamar strada, era formata da un gran numero di sentieri paralleli, in alcuni punti incrociati, serpeggianti in mezzo a cespugli e pietroni, infossati come letti di rigagnoli. Qualche palma e qualche aloè disegnava le sue forme nere sull’orizzonte dorato. Il cielo cominciava a coprirsi di stelle. Non si vedeva nessuno nè vicino nè lontano. A un certo punto, sentimmo alcune fucilate. Era un gruppo d’arabi che dalla sommità d’una collina salutavano l’ambasciatore. Dopo tre ore di cammino, era notte fitta; cominciavamo a desiderare l’accampamento. La fame in qualcuno, in altri la stanchezza aveva troncate le conversazioni. Non si sentiva più che il passo dei cavalli e il respiro affannoso dei servi che ci seguivano correndo. A un tratto risuonò un grido del Caid. Ci voltammo e vedemmo un’altura, alla nostra destra, tutta scintillante di lumi. Era il nostro primo accampamento e lo salutammo con un grido.

Non saprei esprimere il piacere che provai mettendo piede a terra in mezzo a quelle tende. Se non fosse stata la dignità, che dovevo serbare, di rappresentante della letteratura italiana, mi sarei messo a fare delle capriole. Era una piccola città, illuminata, popolata, rumorosa. Da ogni parte scoppiettavano i fuochi delle cucine. Servi, soldati, cuochi, marinai andavano e venivano scambiandosi ordini e domande in tutte le lingue della torre di Babele. Le tende formavano un gran circolo, in mezzo al quale era piantata la bandiera italiana. Di là dalle tende erano schierati i cavalli ed i muli. La scorta aveva il suo piccolo accampamento appartato. Tutto era ordinato militarmente. Riconobbi subito casa mia e corsi a prenderne possesso. V’erano quattro letti da campagna, stuoie e tappeti, lanterne, candelieri, tavolini, seggiole a ìccase, lavamani colle asticciuole strisciate dei tre colori italiani e un grande sventolatore all’indiana. Era un accampamento principesco, da passarci volentieri un annetto. La nostra tenda era posta fra quella dell’ambasciatore e quella degli artisti.

Un’ora dopo l’arrivo ci sedemmo a tavola sotto la gran tenda consacrata a Lucullo. Credo che fu quello il pranzo più allegro che sia mai stato fatto dentro i confini del Marocco dalla fondazione di Fez in poi. Eravamo sedici, compreso il console d’America coi suoi due figli e il console di Spagna con due impiegati della Legazione. La cucina italiana riportò un trionfo solenne. Era la prima volta, credo, che in mezzo a quella campagna deserta s’alzavano ad Allà i vapori dei maccheroni al sugo e del risotto alla milanese. L’autore, un grosso cuoco francese venuto per quella sola notte da Tangeri, fu chiamato clamorosamente agli onori del proscenio. I brindisi scoppiarono l’un dall’altro in italiano, in spagnuolo, in verso, in prosa, in musica. Il console di Spagna, un bel castigliano dello stampo antico, gran barba, gran torace e gran cuore, declamò, con una mano sul manico del pugnale, il dialogo di don Juan Tenorio e di don Luis Mendia nel dramma famoso di Josè Zorilla. Si disputò sulla quistione d’Oriente, sugli occhi delle donne arabe, sulla guerra carlista, sull’immortalità dell’anima, sulle proprietà del terribile cobra capello, l’aspide di Cleopatra, dal quale si lasciano morsicare impunemente i ciarlatani marocchini. Qualcuno, in mezzo al clamore della conversazione, mi disse nell’orecchio che mi sarebbe stato riconoscente per la vita se nel mio futuro libro sul Marocco avessi scritto ch’egli aveva ammazzato un leone. Io colsi quest’occasione per pregare i commensali di darmi ciascheduno una nota bene ordinata delle bestie feroci di cui desideravano che li facessi trionfare. Il console di Spagna, per riconoscenza, improvvisò una strofetta castigliana in onore della mia mula, e cantando tutti insieme questa strofetta sopra un motivo dell’Italiana in Algeri, uscimmo dalla tenda per andar a dormire.

L’accampamento era immerso in un profondo silenzio. Davanti alla tenda dell’Ambasciatore, che s’era ritirato prima di noi, vegliava il fido Selam, primo soldato della Legazione. Fra le tende lontane passeggiava lentamente, come una larva bianca, il Caid della scorta. Il cielo era tutto scintillante di stelle. Che beata notte, se non avessi avuto quella spina del sonnambulo!

Entrando nella tenda, il capitano mi ripetè la raccomandazione. Decisi d’intavolare il discorso quando fossimo a letto. Era indispensabile; ma mi costava un grande sforzo. Il viceconsole avrebbe potuto prender la cosa in mala parte e ne sarei stato dolentissimo. Era un compagno così piacevole! Da schietto siciliano, pieno di fuoco, parlava delle cose più insignificanti collo stile e coll’accento d’un predicatore ispirato. Profondeva gli aggettivi terribile — immenso — divino — ad ogni proposito. Il suo gesto più riposato era di agitare le mani al di sopra della testa. A vederlo discutere, con quegli occhi che gli uscivan dal capo, con quel naso aquilino che pareva volesse agganciare l’avversario, si sarebbe giudicato un uomo irascibile e imperioso; ed era invece la più buona, la più arrendevole pasta di giovanotto che si possa immaginare.

— Animo — disse il capitano quando fummo tutti e quattro a letto.

— Signor Grande, — io cominciai — lei ha l’abitudine di levarsi durante la notte?

Parve molto meravigliato della mia domanda. — No — rispose — e mi spiacerebbe che l’avesse qualchedun altro.

Quest’è curiosa! pensai. — Dunque — soggiunsi — lei riconosce che è un abitudine pericolosa.

Mi guardò.

— Scusi — disse poi — mi pare che su quest’argomento lei non dovrebbe scherzare.

— Mi scusi lei, io risposi, — non ho menomamente l’intenzione di scherzare. Non è mia abitudine di scherzare sulle cose tristi.

— È una cosa triste davvero, e toccherebbe a lei a scongiurarne le cattive conseguenze.

— Questa è bella! Pretenderebbe che andassi a dormire in mezzo ai campi?

— Dei due mi pare che ci dovrebbe andar lei e non io.

— È una vera impertinenza! — diss’io balzando a sedere sul letto.

— Oh stiamo a vedere adesso, — gridò il viceconsole alzandosi istizzito, — che è un’impertinenza il non volersi lasciar ammazzare!

Una gran risata del capitano e del comandante troncò la discussione, e prima ancora che essi parlassero, il signor Grande ed io capimmo d’esser stati corbellati tutt’e due. A lui pure avevan fatto credere che io giravo la notte per la casa della Legazione, con un lenzuolo sulle spalle e una pistola nel pugno.


La notte passò senz’accidenti, e la mattina mi svegliai in tempo per vedere l’aurora.

L’accampamento europeo era ancora immerso nel sonno; soltanto in mezzo alle tende della scorta si cominciava a mover qualcuno.

Il cielo era tutto color di rosa ad oriente.

Mi avanzai fino in mezzo all’accampamento e rimasi per molto tempo immobile a contemplare lo spettacolo che mi si spiegava d’intorno.

Le tende erano piantate sul fianco d’una collina tutta coperta d’erbe, di fichi d’india, d’aloè e d’arbusti fioriti. Vicino alla tenda dell’ambasciatore s’alzava una palma altissima, inclinata graziosamente verso oriente. Davanti alla collina si stendeva una grande pianura ondulata e florida, chiusa lontano da una catena di monti di color verde cupo, di là dalla quale apparivano altri monti azzurrini quasi svaniti nella limpidezza del cielo. Non si vedeva in tutto quello spazio nè una casa, nè una tenda, nè un armento, nè un nuvolo di fumo. Era come un immenso giardino chiuso ad ogni creatura vivente. Un’aria fresca e odorosa faceva stormire leggermente le foglie della palma: unico rumore che mi giungesse all’orecchio. A un tratto, voltandomi, vidi dieci occhi spalancati fissi nei miei. Erano cinque arabi seduti sopra un masso di roccia, a pochi passi da me: lavoratori della campagna, venuti durante la notte, chi sa di dove, per vedere l’accampamento. Parevano scolpiti nella roccia medesima su cui riposavano. Mi guardavano senza battere palpebra, senza dar segno nè di curiosità, nè di simpatia, nè di malevolenza, nè d’imbarazzo: tutti e cinque immobili e impassibili, coi visi mezzo nascosti nei cappucci, che parevano la personificazione della solitudine e del silenzio della campagna. Misi una mano in tasca; quei dieci occhi accompagnarono il movimento della mano; tirai fuori un sigaro; quei dieci occhi si fissarono sul sigaro; andai innanzi, tornai indietro, mi chinai a raccogliere un sasso, e quei dieci occhi m’erano sempre addosso. E non erano i soli. A poco a poco, ne scopersi molti altri, più lontano, seduti in mezzo all’erba, a due a due, a tre a tre, anch’essi incappucciati, immobili, cogli occhi fissi su di me. Parevano gente sbucata allora di sotto terra, morti cogli occhi aperti, apparenze piuttosto che persone reali, che dovessero svanire ai primi raggi del sole. Un grido lungo e tremulo, che veniva dall’accampamento della scorta, mi distrasse da quello spettacolo. Un soldato mussulmano annuciava ai compagni l’ora della preghiera, la prima delle cinque preghiere canoniche che ogni musulmano deve fare ogni giorno. Alcuni soldati uscirono dalle tende, stesero per terra le loro cappe, vi s’inginocchiarono su, rivolti verso l’oriente; si soffregarono tre volte le mani, le braccia, la testa e i piedi con una manata di terra, e poi cominciarono a recitare a bassa voce le loro preghiere inginocchiandosi, rizzandosi in piedi, prostrandosi col viso sull’erba, alzando le mani aperte all’altezza delle orecchie, e accoccolandosi sulle calcagna. Poco dopo uscì dalla sua tenda il comandante della scorta, poi i servi, poi i cuochi; in pochi minuti la maggior parte della popolazione del campo fu in piedi. Il sole, appena spuntato sull’orizzonte, scottava.


Rientrando nella tenda feci la conoscenza di parecchi personaggi assai curiosi, di cui mi occorrerà di parlare sovente.

Il primo a comparire fu uno dei due marinai italiani, ordinanza del comandante di fregata, siciliano, nato a Porto Empedocle, di nome Ranni, un giovanotto di venticinque anni, di alta statura, di forza erculea, d’indole buonissima, sempre grave come un magistrato, e dotato della singolare virtù di non stupirsi di nulla, di trovar tutto naturale, come il Goe delle Cinque settimane in pallone, di meravigliarsi soltanto della meraviglia degli altri. Per lui, Porto Empedocle, Gibilterra, l’Africa, la China dov’era stato, la luna se ce l’avessero portato, erano la stessissima cosa.

— Che ne dici di questa vita? — gli domandò il comandante, mentre l’aiutava a vestirsi.

— Che vuol che ne dica? — rispose.

— Oh bella! Il viaggio, il paese nuovo, tutto questo trambusto, non t’ha fatto nessuna impressione?

Stette un po’ pensando, e rispose ingenuamente: — Nessuna impressione.

— Ma come! Quest’accampamento, almeno, non è uno spettacolo nuovo per te?

— Eh no, signor comandante.

— Ma quando mai l’hai visto prima d’ora?

— L’ho visto ieri sera.

Il comandante lo guardò.

— Ma ieri sera — domandò poi reprimendo la stizza — che impressione t’ha fatto?

— Eh.... rispose candidamente il buon marinaio —; si capisce.... la stessa impressione di questa mattina.

Il comandante abbassò la testa in atto di rassegnazione.

Poco dopo entrò un altro personaggio non meno curioso. Era un arabo di Tangeri, che il viceconsole aveva preso al suo servizio, per tutto il tempo del viaggio. Aveva nome Ciua; ma il padrone lo chiamava Civo per maggiore facilità di pronunzia. Era un giovanotto grande e grosso, minchione quanto ce n’entrava, ma buono e pieno di buon volere; un fanciullone ingenuo, che a guardarlo, si metteva a ridere e nascondeva il viso. Non aveva altro vestito che una lunga e larga camicia bianca, sciolta, che quando camminava, gli sventolava addosso in una maniera ridicola, e gli dava l’aria d’una caricatura di cherubino. Sapeva una trentina di parole spagnuole, e con queste s’ingegnava di farsi capire, quando era costretto a parlare; ma col suo padrone s’esprimeva quasi sempre a gesti. Così a occhio gli avrei dati venticinque anni; ma cogli arabi è facile sbagliare. Glielo domandai.

Prima si coperse il viso con una mano, poi meditò qualche momento e rispose:

Cuando guerra España.... año y medio. Al tempo della guerra colla Spagna, che fu nel 1860, un anno e mezzo; aveva dunque diciasette anni.

— Che pezzo d’uomo per la sua età! dissi al vice-console.

— Immenso! — rispose.

Il terzo personaggio fu il cuoco dell’Ambasciatore, che ci portò il caffè; un piemontese pretto, tagliato tutto d’un pezzo in un pilastro dei portici di piazza Castello, il quale da Torino, ch’egli chiamava il giardino d’Italia, era piovuto, pochi giorni prima, a Tangeri, e non aveva ancora ritrovato sè stesso. Il pover’uomo non faceva che esclamare: — Oh che paese! Oh che paese!

Gli domandai se prima di partire da Torino, non gliel’avevan detto che paese fosse il Marocco, che città fosse Tangeri. Mi rispose di sì. Gli avevan detto: — Badate, Tangeri non è Torino. — Non sarà come Torino — egli aveva pensato —; pazienza! Sarà come Genova, come Alessandria, via! — E invece s’era ritrovato in una città di quella fatta! N mes ai sarvaj!1 E gli avevan messo ad aiutarlo due arabi che non capivano una parola di piemontese! O mi povr’om! E oltre a questo bisognava fare un viaggio di due mesi a traverso i deserti dell’Egitto! Egli prevedeva che non ne sarebbe tornato vivo.

— Ma almeno — gli dissi — quando tornerete a Torino, avrete qualche cosa da raccontare.

— Ah! — rispose con accento malinconico, andandosene via — che cosa si può raccontare d’un paese dove non si trovano due foglie d’insalata!


Fatta colezione, l’Ambasciatore diede ordine di levare l’accampamento.

Durante quella lunga operazione, alla quale lavoravano poco meno di cento persone, osservai un tratto singolare del carattere degli arabi, che è la passione smaniosa del comando. Non c’era bisogno di nessun’indicazione, per riconoscere alla prima in mezzo a quella folla confusa il capo mulattiere, il capo dei facchini, il capo dei servi delle tende, il capo dei soldati della Legazione. Chiunque era investito d’un’autorità, la faceva sentire e vedere, a proposito e a sproposito, colla voce, colle mani, cogli occhi, con tutte le forze dell’anima e del corpo. E chi non aveva autorità, coglieva ogni menomo pretesto per dare un ordine a un eguale, per illudersi d’essere qualchecosa più degli altri. Il più cencioso dei servi pareva beato di poter assumere per un momento un atteggiamento imperioso. La più semplice operazione, come d’annodare una corda o di sollevare una cassa, provocava uno scambio di grida tonanti, di sguardi fulminei, di gesti da sultano sdegnato. Persino Civo, il modesto Civo, sultaneggiava contro due arabi della campagna che si permettevano di guardar da lontano i bauli del suo padrone.


Alle dieci della mattina, sotto un sole ardente, la lunga carovana cominciò a discendere lentamente nella pianura.

Il console di Spagna e i suoi due compagni ci avevano lasciati all’alba; non rimanevano più con noi altre persone estranee all’ambasciata che il console d’America e i suoi figliuoli.

Dal luogo dove avevamo passato la notte, chiamato in arabo Ain-Dalia, che significa fontana di vino, per le vigne che v’erano nei tempi andati, dovevamo andare quel giorno a Had-el-Garbia, di là dalle montagne che chiudevano la pianura.

Per più d’un’ora si camminò sopra un terreno leggermente ondulato, in mezzo a campi d’orzo e di miglio, per sentieri tortuosi, che formavano coi loro incrociamenti un gran numero d’isolette coperte d’erbe rigogliose e di fiori altissimi. Non si vedea nessuno per la campagna, nessuno per la strada. Solamente dopo una mezz’ora di cammino, incontrammo una lunga fila di cammelli condotta da due beduini, i quali passandoci accanto mormorarono il solito saluto: — La pace sia sulla vostra strada.


Era una pietà per me il vedere quei poveri servi arabi che venivano accanto a noi, a piedi, carichi d’ombrelli, di pastrani, di cannocchiali, d’album, di mille gingilli, di cui ignoravano il nome e l’uso; costretti a seguitare correndo il passo rapido delle nostre mule, soffocati dalla polvere, arsi dal sole, mal nutriti, mezzi nudi, soggetti a tutti, non possessori d’altro al mondo che d’un cencio di camicia e d’un paio di ciabatte; venuti a piedi da Fez a Tangeri, per tornare a piedi da Tangeri a Fez; e poi, chi sa! seguitare qualche altra carovana da Fez a Marocco, e tirare innanzi così tutta la vita, senz’altro compenso che di non morire di fame e di poter riposare le ossa sotto una tenda! Pensavo, guardandoli, alla «piramide della esistenza» del Goethe. V’era, fra gli altri, un ragazzo mulatto di tredici o quattordici anni, bello e sveltissimo, il quale fissava sempre in viso ora a me ora ad altri dell’ambasciata due grandi occhi neri pieni di curiosità e di simpatia, che diceano e domandavano confusamente mille cose. Era un trovatello, frutto chi sa di che strani amori, che cominciava coll’ambasciata italiana la corsa faticosa, nella quale forse non doveva arrestarsi che per cadere nella fossa. Un altro, un vecchio tutt’ossa e pelle, correva col capo basso, cogli occhi chiusi, coi pugni stretti, colla rassegnazione disperata d’un dannato. Altri parlavano e ridevano ansando. A un tratto, uno spiccò la corsa, passò dinnanzi a tutti e disparve. Dieci minuti dopo lo trovammo seduto all’ombra d’un fico. Aveva fatto un mezzo miglio per guadagnare sulla carovana cinque minuti di cammino e goderseli all’ombra.


Intanto eravamo arrivati ai piedi d’una piccola montagna, chiamata in arabo la Montagna Rossa dal colore della sua terra; ripida, rocciosa e ancora irta degli avanzi d’un bosco abbattuto. Quella salita c’era stata annunziata fin da Tangeri come il passo più pericoloso del viaggio. Mula mia, — dissi tra me — ti raccomando il mio contratto coll’editore; — e la spinsi su coll’animo preparato a un capitombolo. I sentieri salivano serpeggiando in mezzo a grandi sassi che mi parevano stati acuminati e affilati apposta da un mio nemico personale per incidermi le parti posteriori; a ogni movimento incerto della mula, mi sentivo scappare dalla testa un capitolo del mio libro futuro; due volte la povera bestia, piegandosi sui ginocchi, slanciò la mia anima sui confini d’un mondo migliore; ma infine riuscii a toccare sano e salvo la sommità, dove m’accorsi con grande meraviglia d’essermi lasciato indietro i compagni, i due pittori eccettuati, i quali m’avevano preceduto per osservare dall’alto l’ambasciata che s’avanzava.

Lo spettacolo valeva veramente la fatica d’una salita forzata.

La carovana da mezzo il fianco della montagna s’allungava per più d’un miglio nella pianura. Il primo era il gruppo dell’ambasciata, fra cui spiccava il cappello piumato dell’Ambasciatore e il turbante bianco di Mohammed Ducali; e ai lati e dietro uno sciame di servi a piedi e a cavallo sparpagliati pittorescamente fra i massi e i cespugli della salita. Dietro a questi, venivano su a coppie, a gruppi, a piccole file, ravvolti nelle loro cappe bianche e turchine, curvi sulle loro selle scarlatte, i cavalieri della scorta che presentavano l’immagine d’una gran cavalcata di maschere; e dietro la scorta, la fila interminabile dei muli e dei cavalli, che portavan le tende, le casse, il mobilio, la cucina, i viveri, fiancheggiati da servi e da soldati, gli ultimi dei quali apparivano appena come una punteggiatura bianca e rossa nel verde della campagna. Non si può immaginare come questa processione variopinta, armata, luccicante, animava quella vallata solitaria, che spettacolo bizzarro e festoso presentava! Se in quel momento avessi avuto la virtù di pietrificarla in sull’atto, per poterla contemplare a mio comodo, non so se avrei resistito alla tentazione. Voltandomi per rimettermi in cammino, ebbi un’altra sorpresa — l’Oceano Atlantico — che si stendeva azzurro e queto come un lago a poche miglia dalla montagna. V’era un sol bastimento in vista, vicinissimo alla costa, che navigava verso lo stretto. Il Comandante guardò col cannocchiale: era un bastimento italiano. Quanto avremmo dato per esser visti e riconosciuti!

Dalla Montagna Rossa si discese in un’altra bellissima valle, tutta coperta di fiori, che formavano come tanti tappeti di color lilla, roseo e bianco. Nessuna casa, nessuna tenda, nessuna creatura umana.

L’ambasciatore decise di fare una fermata: scendemmo da cavallo e sedemmo all’ombra d’un gruppo d’alberi; il convoglio dei bagagli seguitò la sua strada.


Intorno a noi, a pochi passi di distanza, stavano seduti i servi, ciascuno tenendo in mano le briglie d’un cavallo o d’una mula. I pittori tirarono fuori i loro album per fare qualche schizzo. Tempo perso! Appena uno di quegli scamiciati si vedeva guardato, o voltava le spalle o si nascondeva dietro un albero o si tirava il cappuccio sugli occhi. Tre, l’uno dopo l’altro, s’alzarono e se n’andarono brontolando a sedere cinquanta passi più lontano, tirando con sè i loro quadrupedi. Non volevano nemmeno che fossero copiati gli animali. Chi non ha visto il signor Biseo in quei momenti, non ha mai visto in faccia la Stizza. Cercò di farli star fermi pregandoli, canzonandoli, offrendo danaro. Fiato sprecato. Rispondevano facendo cenno di no colla mano, indicando il cielo e sorridendo furbescamente come per dire: — Non siamo così gonzi! — Nemmeno il ragazzo mulatto, nemmeno i soldati della Legazione, cresciuti, si può dire, in mezzo agli Europei, e già quasi famigliari coi due artisti, non vollero permettere che la loro immagine fosse profanata dalla matita cristiana. Il Corano, come tutti sanno, proibisce la rappresentazione della figura umana e degli animali, come un principio o una tentazione all’idolatria. Il signor Biseo fece domandare dall’interprete a uno dei soldati per quale ragione non si voleva lasciar copiare. — Perchè, — rispose, — in quella figura che vuol fare, il pittore non è capace d’infondere l’anima. A che scopo dunque la vorrebbe fare? Dio soltanto può creare degli esseri viventi, ed è un sacrilegio pretendere d’imitarlo. — Fu interrogato il ragazzo mulatto. — Fatemi il ritratto, — egli disse ridendo, — mentre dormo; non me ne importa; non ci avrò colpa io; ma mentre io vedo, mai al mondo. — Allora il Biseo si mise a fare lo schizzo d’uno che dormiva. Tutti gli altri, raggruppati in disparte, stavano attenti, guardando ora il pittore ora il dormiente coi loro grandi occhi stupiti. A un tratto il servo si svegliò, girò gli occhi intorno, capì, fece un atto di dispetto e s’allontanò, mormorando, fra le risa dei compagni che avevan l’aria di dirgli: — Te l’hanno fatta, via; ora sei conciato per le feste.

Ci rimettemmo in cammino e in capo a un’ora circa vedemmo biancheggiare all’orizzonte le tende dell’accampamento.

Un drappello di cavalieri, sbucati non so di dove, ci vennero incontro, di grande carriera, gridando e sparando i loro fucili; a dieci passi da noi, si fermarono; il capo strinse la mano all’ambasciatore; poi si unirono alla scorta. Erano cavalieri del luogo dove sorgeva il nostro accampamento, soldati d’una specie di landwehr, che forma la parte più numerosa dell’esercito marocchino (se il complesso delle forze militari del Marocco si può chiamare esercito), ed è composta di tutti gli uomini atti alle armi dai sedici ai sessantanni. Alcuni avevano il turbante, altri un fazzoletto rosso annodato intorno al capo; tutti il caffettano bianco.

Quando arrivammo alla tappa, si alzavano le ultime tende.

L’accampamento era posto sopra un terreno arido e ondulato; da una parte, lontano, si vedeva una catena di monti azzurri; dall’altra, una catena di colline verdognole. A mezzo miglio dalle tende c’erano due gruppi di capanne di stoppia, mezzo nascoste dai fichi d’India.

Ci radunammo tutti sotto una tenda.

Appena eravamo seduti, arrivò correndo un soldato della Legazione, si piantò davanti all’Ambasciatore e disse con voce allegra: — La mona!

— Venga, — rispose l’ambasciatore alzandosi.

Tutti ci alzammo.

Una lunga fila di arabi, accompagnati dal Comandante della scorta, dai soldati della Legazione e dai servi, attraversò l’accampamento, si venne a schierare davanti alla nostra tenda e depose ai piedi dell’Ambasciatore una gran quantità di carbone, d’ova, di zuccaro, di burro, di candele, di pani, tre dozzine di galline e otto montoni.

Questo tributo era la muna. Oltre i gravi balzelli che pagano in denaro, gli abitanti della campagna sono obbligati a fornire a tutti i personaggi ufficiali, ai soldati del Sultano e alle ambasciate che passano, una certa quantità di viveri e d’altre provvigioni. Il Governo fissa la quantità; ma le autorità locali tassando gli abitanti a loro arbitrio, ne segue che la quantità di roba ricevuta, benchè sempre superiore ai bisogni, non è mai che una piccola parte di quella che è stata estorta un mese prima, o che sarà estorta forse anche un mese dopo il giorno della presentazione.

Un vecchio, che doveva essere un capo di tribù, rivolse, per mezzo dell’interprete, qualche parola ossequiosa all’Ambasciatore. Gli altri, tutti poveri campagnoli vestiti di cenci, guardavano a vicenda noi, le tende e la loro roba, — i frutti del loro sudore sparsi per terra, — con un’aria tra mesta ed attonita, che rivelava una profonda rassegnazione.

Fatta rapidamente la ripartizione della roba fra la mensa dell’ambasciata, la scorta, i mulattieri e i soldati della Legazione, il signor Morteo, ch’era stato nominato quella stessa mattina Intendente generale del campo, diede una mancia al vecchio arabo, questo fece un cenno ai suoi compagni, e tutti ripresero silenziosamente la via delle loro capanne.

Allora cominciò, come doveva poi accadere tutti i giorni, un gran battibecco fra servi, mulattieri e soldati per la ripartizione della mona. Era una scena amenissima. Due o tre di loro andavano e venivano per il campo a passi concitati, con un montone fra le braccia, invocando Allà e l’ambasciatore; altri gridavano la loro ragione battendo i pugni in terra; Civo faceva sventolare di qua e di là il suo camicione bianco colla profonda persuasione di esser terribile; i montoni belavano, le galline scappavano, i cani latravano. A un tratto s’alzò l’Ambasciatore e tutto tacque.

Il solo che brontolò ancora qualche momento fu Selam.

Selam era un gran personaggio. Veramente due dei soldati della Legazione portavano questo nome, tutti e due addetti al servizio particolare dell’Ambasciatore; ma come dicendo Napoleone, se non s’aggiunge altro, s’intende Napoleone primo, così fra noi, in viaggio, dicendo Selam intendevamo dir quello solo. Come l’ho sempre vivo dinanzi agli occhi! Lui, Mohammed lo sposo, e l’Imperatore, sono veramente per me le tre figure più simpatiche ch’io abbia viste nel Marocco. Era un giovane bello, forte, svelto e pieno d’ingegno. Capiva tutto a volo, faceva tutto in furia, camminava a salti, parlava a sguardi, era in moto dalla mattina alla sera. Per i bagagli, per le tende, per la cucina, per i cavalli, tutti si rivolgevano a lui; egli sapeva tutto e rispondeva a tutti. Parlava mediocremente lo spagnuolo e sapeva qualche parola d’italiano; ma si sarebbe fatto capir anche coll’arabo, tanto la sua mimica era pittoresca e parlante. Per indicare una collina faceva il gesto d’un colonnello focoso che accenni al suo reggimento una batteria da assalire. Per fare un rimprovero a un servo, gli si precipitava addosso come se l’avesse voluto annientare. Mi rammentava ogni momento Tommaso Salvini nelle parti d’Orosmane e d’Otello. In qualunque atteggiamento si mostrasse, da quando versava l’acqua fredda sulla schiena all’ambasciatore a quando ci passava accanto di galoppo, inchiodato sul suo cavallo castagno, presentava sempre una figura bella, elegante ed ardita. I pittori non si stancavan mai di guardarlo. Portava un caffettano scarlatto e i calzoncini azzurri: si riconosceva alla prima da un’estremità all’altra della carovana. Nell’accampamento non si sentiva gridare che il suo nome. Correva di tenda in tenda, scherzava con noi, urlava coi servi, dava e riceveva ordini, si bisticciava, montava in collera, prorompeva in risa; quand’era in collera pareva un selvaggio, quando rideva pareva un bambino. In ogni dieci parole che dicesse, c’entrava el señor ministro. Il signor ministro, per lui, veniva subito dopo Allà e il suo profeta. Dieci fucili appuntati contro il suo petto non l’avrebbero fatto impallidire; un rimprovero non meritato dell’Ambasciatore lo faceva piangere. Aveva venticinque anni.

Finito ch’ebbe di brontolare, venne vicino a me ad aprire una cassa. Mentre si chinava gli cadde il fez e gli vidi sulla testa rasa una larga macchia di sangue. Gli domandai che cos’era. Mi rispose che s’era ferito con uno dei grossi pani di zucchero della mona. — L’ho gettato in aria, — mi disse colla più gran serietà, — e l’ho ricevuto sulla testa. — Non capivo: si spiegò. — Faccio così, — mi disse, — per fortificarmi la testa. Le prime volte cascavo in terra tramortito, adesso non verso più che qualche goccia di sangue. Verrà il tempo che non mi scalfirò nemmeno la pelle. Tutti gli arabi fanno lo stesso. Mio padre si rompeva sul cranio dei mattoni spessi due dita, com’io ci romperei un pezzo di pane. Un vero arabo (conchiuse con aria altera, battendosi il pugno sul cocuzzolo) deve avere la testa di ferro.


L’accampamento, quella sera, presentava un aspetto assai diverso da quello del giorno innanzi. Ognuno aveva già preso le sue abitudini. I pittori avevano rizzato i loro cavalletti davanti alla tenda e dipingevano. Il capitano era andato a osservare il terreno, il vice-console a raccogliere insetti, l’ex-ministro di Spagna alla caccia delle pernici; l’ambasciatore e il comandante giocavano a scacchi sotto la tenda della mensa; i servi si saltavano l’un l’altro appoggiandosi le mani sulle spalle; i soldati della scorta discorrevano seduti in cerchio; degli altri chi passeggiava, chi leggeva, chi scriveva; sembrava che fossimo attendati là da un mese. Se ci fosse stata una piccola stamperia, mi sarebbe saltato il grillo di fondare un giornale.

Il tempo era bellissimo. Si desinò colla tenda aperta, e per tutto il tempo del desinare, i cavalieri di Had-el-Garbia festeggiarono l’ambasciata con cariche clamorose, rischiarate da uno splendido tramonto di sole.


A tavola sedeva dinanzi a me Mohammed Ducali. Ebbi modo per la prima volta di osservarlo attentamente. Era il vero tipo del ricco moro, molle, elegante e ossequioso; e dico ricco, perchè si diceva che possedesse più di trenta case a Tangeri, quantunque in quel tempo i suoi affari fossero un po’ imbrogliati. Poteva avere una quarantina d’anni. Era alto di statura, di lineamenti regolari, bianco, barbuto; portava un piccolo turbante ravvolto in un caïc del più fino tessuto di Fez, che gli scendeva sopra un caffettano di panno amaranto ricamato; sorrideva per far vedere i denti, parlava spagnuolo con una voce femminea, guardava, s’atteggiava e gestiva con una languidezza da innamorato. In altri tempi aveva fatto il negoziante: era stato in Italia, in Spagna, a Londra, a Parigi, ed era tornato al Marocco con idee ed abitudini europee. Beveva vino, fumava sigaretti, portava calze, leggeva romanzi, raccontava le sue avventure amorose. La ragione principale che lo conduceva a Fez era un credito ch’egli aveva col Governo, e sperava, coi buoni uffici dell’ambasciatore, di farsi pagare. Aveva portato con sè la sua tenda, i servi, le mule. I suoi occhi lasciavan capire che, se avesse potuto, avrebbe portato anche le sue donne; ma su quest’argomento serbava il più rigoroso silenzio. Le donne di cui parlava, raccontando le sue avventure, erano europee. L’arèm era anche per lui una cosa sacra. Arrischiai, con parole vaghe, una domanda: mi guardò, sorrise pudicamente e non rispose.


Dopo desinare, soddisfeci un desiderio vivissimo che avevo già fin prima della partenza da Tangeri; feci un’escursione notturna per l’accampamento.

Fu uno dei più bei divertimenti ch’io abbia avuti nel viaggio.

Aspettai che tutti fossero entrati nelle tende; mi ravvolsi in una cappa bianca del comandante ed uscii in cerca d’avventure.

Il cielo era tutto stellato; le lanterne, fuor che quella appesa in cima all’asta della bandiera, erano spente; in tutto l’accampamento regnava un silenzio profondo.

Adagio adagio, cercando di non inciampare nelle cordicelle delle tende, voltai a sinistra.

Fatti dieci passi, un suono inaspettato mi ferì l’orecchio. Mi arrestai. Mi parve un suono di chitarra. Veniva da una tenda chiusa, che non avevo mai vista, posta fra la nostra e quella dell’ambasciatore, una trentina di passi fuori del cerchio dell’accampamento. Mi avvicinai e tesi l’orecchio. La chitarra accompagnava un filo di voce dolcissima che cantava una canzone araba piena di malinconia. Di chi era quella tenda misteriosa? Che ci fosse dentro una donna? Feci un giro intorno. La tenda era chiusa da ogni parte. Mi stesi in terra per guardare per disotto; chinandomi, tossii; il canto cessò. Quasi nello stesso punto una voce soave, vicinissima a me, domandò: — Quien es? (Chi è?) — Allà mi protegga! — pensai — qui c’è una donna. — Un curioso! — risposi coll’inflessione più patetica della mia voce.... Una risata mi fece eco, e una voce maschile disse in spagnuolo: — Bravo! venga a prendere una tazza di tè! — Era la voce di Mohammed Ducali. Oh delusione! Ma fui subito compensato. S’aperse una porticina e mi trovai sotto una bellissima tenda, rivestita d’una ricca stoffa a fiorami, ornata di finestrine ad arco, rischiarata da una lanterna moresca, profumata di belgiuino, degna per ogni verso di ospitare la più bella odalisca del Sultano. Accanto al Ducali, sdraiato voluttuosamente sopra un tappeto di Rabat, col capo appoggiato sopra un ricco cuscino, stava seduto un suo servo, un giovane arabo d’aspetto gentile e pensieroso, che teneva fra le mani una chitarra. Era lui che cantava. Nel mezzo c’era un vassoio con un bel servizio da tè, da una parte fumava un profumiere. Spiegai al Ducali in che maniera fossi capitato vicino alla sua tenda, rise, mi offerse una tazza, mi fece sonare un’arietta, mi augurò buon viaggio, ed uscii. La tenda si richiuse e mi ritrovai nell’oscurità silenziosa dell’accampamento. Girai intorno a un’altra tenda, dove dormivano gli altri servi del Ducali, e mi rivolsi verso quella dell’ambasciatore.

Davanti alla porta dormiva Selam, disteso sulla sua cappa turchina, colla sciabola vicino al capo. — Se lo sveglio, e non mi riconosce subito, — pensai — m’accoppa! Usiamo prudenza. — M’avvicinai in punta di piedi e misi il capo dentro la tenda. La tenda era divisa in due parti da una ricca cortina: di qua serviva di sala da ricevimento, e v’era un tavolino con tappeto, carta, calamaio, e alcune poltrone dorate; di là dormivano l’ambasciatore e il suo amico ex-ministro di Spagna. Pensai di lasciare il biglietto di visita sul tavolino. M’avvicinai. Un maledetto grugnito mi arrestò. Era Diana, la cagna dell’ambasciatore. Quasi nello stesso punto la voce del padrone domandò: — Chi è?

— Un sicario! mormorai.

Riconobbe subito la mia voce.

— Ferisca —, rispose.

Gli spiegai il motivo della mia visita; — ne rise di cuore, e stringendomi la mano al buio, mi augurò buona fortuna.

Uscendo inciampai in qualcosa che m’insospettì: accesi un fiammifero: era una tartaruga. Guardai intorno e vidi a due passi da me un rospo enorme, che pareva che mi guardasse. Ebbi per un momento la tentazione di rinunziare all’impresa; ma la curiosità vinse il ribrezzo e tirai innanzi.

Arrivai davanti alla tenda dell’Intendente. Mentre mi chinavo per origliare, una figura alta e bianca si alzò fra me e la porta, e disse con accento sepolcrale: — Dorme. — Detti indietro come all’apparizione d’un fantasma. Ma subito mi rincorai. Era un arabo, servo del Morteo da molti anni, che parlava un po’ italiano, e che, malgrado la mia cappa bianca, m’aveva riconosciuto a primo aspetto. Come Selam, egli riposava davanti alla tenda del suo padrone, colla sciabola al fianco. Gli diedi la buona notte e continuai la mia strada.

Nella tenda vicina, c’erano il medico e il dracomanno Salomone. Un acuto odore di medicinali l’annunziava a dieci passi all’intorno. V’era il lume acceso. Il dracomanno dormiva; il medico, seduto al tavolino, leggeva. Questo medico, giovane, colto, d’aspetto e di maniere signorili, aveva una particolarità assai curiosa. Nato in Algeri di famiglia francese, vissuto molti anni in Italia, e marito d’una spagnuola, non solo parlava con uguale facilità le lingue dei tre paesi; ma ritraeva egualmente del carattere dei tre popoli, sentiva tre equivalenti amori di patria, era insomma un latino uno e trino, che si sarebbe trovato a casa sua così a Roma, come a Madrid, come a Parigi. Oltre a questo era dotato d’un senso comico finissimo; tanto che senza parlare, senza lasciarsi scorgere, con uno sguardo furtivo, con un leggerissimo movimento delle labbra, rilevava il lato ridicolo d’una persona o d’una cosa in modo da far scoppiare delle risa. Appena mi vide, indovinò la ragione dalla mia presenza, mi offerse un sorso di liquore, e alzando il bicchierino disse sottovoce: — Al felice successo della spedizione! — Coll’aiuto d’Allà! — risposi, e lo lasciai alla sua lettura.

Passai davanti alla gran tenda della mensa: era deserta. Voltai a sinistra, uscii dal cerchio dell’accampamento, passai in mezzo a due lunghe file di cavalli addormentati, e mi trovai in mezzo alle tende della scorta. Tesi l’orecchio: sentii il respiro dei soldati che dormivano. Davanti alle tende erano sparpagliati fucili, sciabole, selle, ciarpe, pugnali, caic e la bandiera di Maometto, come sopra il campo d’una mischia. Guardai la campagna: non si vedeva nessuno. Appena apparivano come due macchie nere ed informi i due gruppi di capanne.

Tornai indietro, passai in mezzo alla tenda del Console d’America e a quella dei suoi servi, tutt’e due chiuse e silenziose; attraversai il piccolo spazio di terreno dov’era piantata la cucina, e superata una barricata di botti, di tegami, di pentole, di brocche, arrivai alla piccola tenda del cuoco.

Con lui dormivano là sotto i due arabi, che gli facevan da sguatteri.

Misi la testa dentro: — era buio. Chiamai il cuoco per nome: — Gioanin!

Il poveretto, afflitto dalla mala riuscita d’una frittura, e forse anche inquieto per la vicinanza dei due «selvaggi», non dormiva.

A l’è chiel? (È lei?) domandò.

— Son io.

Tardò qualche momento a rispondere e poi, voltandosi sul letto, esclamò sospirando: — Ah! che pais!

— Coraggio, — dissi —, pensate che fra dieci giorni sarete dinanzi alle mura della grande città di Fez.

Rispose qualche cosa in confuso di cui non afferrai altro che la parola Moncalieri; dopo di che rispettai il suo dolore, e tirai innanzi.

Nella tenda accanto v’erano i due marinai: il Ranni, ordinanza del comandante, e Luigi, calafato a bordo del Dora, napoletano, un giovanetto gentile, sveglio, operoso, che in due giorni s’era cattivata la simpatia di tutti. Avevano il lume acceso e mangiavano. Tendendo l’orecchio, colsi qualche parola del loro dialogo. Era assai curioso. Luigi domandava a chi fossero destinati gli schizzi a matita che facevano i due pittori sui loro album. — Oh bella! — rispose il Ranni — al Re, si capisce. — Così senza colori? — domandò l’altro. — Eh no: tornati che saranno in Italia, prima ci metteranno i colori e poi li manderanno. — Chi sa quanto glieli pagano! — Eh molto, si sa. Magari uno scudo il foglio. Un re non bada ai denari. — Temendo d’essere scoperto e sospettato di spionaggio, rinunziai, mio malgrado, a sentire il seguito, e mi allontanai in punta di piedi.

Uscii un’altra volta dall’accampamento e girai per qualche minuto in mezzo a lunghe file di cavalli e di mule, fra le quali riconobbi, con una dolce emozione, la mia bianca compagna di viaggio, che pareva assorta in profondi pensieri. Uscito di là, mi trovai davanti alla tenda del signor Vincent, francese, domiciliato a Tangeri, uno di quei personaggi misteriosi che han girato tutto il mondo, parlano tutte le lingue e fanno di tutti i mestieri: cuoco, negoziante, cacciatore, interprete, scopritore d’iscrizioni antiche; aggregatosi con tenda e cavallo all’ambasciata italiana in qualità di alto direttore delle cucine, per andare a vendere al governo di Fez delle uniformi francesi comprate in Algeri. Guardai dentro per uno spiraglio. Era seduto sopra un baule in atto meditabondo, con una grossa pipa in bocca, al chiarore d’un moccoletto confitto in una bottiglia. Che strana figura! Mi richiamò alla mente quei vecchi alchimisti dei pittori olandesi, che meditano in fondo alla loro officina, col viso illuminato dal foco dei lambicchi. Curvo, secco, ossoso, pareva che ogni peripezia della sua vita fosse rappresentata da una ruga del suo viso e da un angolo del suo corpo. Chi sa a che pensava! Chi sa che diavolìo di memorie, di viaggi avventurosi, di bizzarri incontri, di pazze imprese, di strani personaggi, gli turbinava nel capo! — Forse anche, invece che a tutto questo, pensava al prezzo d’un paio di calzoni da turcos o alla sua scarsa provvigione di tabacco. — Nel punto che stavo per dirigergli la parola, spense il lume con un soffio e disparve nell’oscurità come un mago.

A pochi passi di là, c’era la tenda del comandante della scorta; un po’ più oltre quella del suo primo ufficiale; e più lontano quella del capo dei cavalieri d’Had-el-Garbia.

Queste due erano chiuse; la prima era aperta e vuota.

Nell’atto che ci guardavo dentro, sentii alle mie spalle un passo furtivo, e quasi nello stesso punto una mano di ferro mi afferrò per un braccio. Mi voltai: mi vidi in faccia il generale mulatto.

Appena mi vide, ritirò la mano, dando in una risata, e disse in tuono di scusa: — Salamu alikum, salamu alikum! — (La pace sia con voi! la pace sia con voi!)

M’aveva preso per un ladro.

Gli strinsi la mano in segno di riconoscenza e mi rimisi in cammino.

Fatti pochi passi, mi parve di vedere a una certa distanza dalle tende un uomo incappato, seduto in terra, col fucile in mano. Mi venne in mente che fosse una sentinella. Guardai intorno, e vidi infatti che a una cinquantina di passi da quella, ve n’era un’altra, e poi una terza: una catena di sentinelle tutt’intorno all’accampamento. Seppi poi che quella vigilanza non era fatta per timore dell’assalto d’una banda d’assassini; ma per guardare le tende dai ladri della campagna, abilissimi in quel genere di furti, esercitati come sono a depredare le tribù arabe attendate.

Fortunatamente la mia franca andatura non insospettì alcuna sentinella, e potei finire la mia escursione.

Passai accanto a Malek e a Saladino, i due cavalli focosi dell’Ambasciatore, inciampai in qualche altra tartaruga e mi fermai davanti alle tende dei servi a piedi. Erano coricati sopra un po’ di paglia, senza coperte, l’uno a traverso l’altro; ma dormivan tutti d’un sonno così profondo, che non si sentiva un alito, e parevano morti ammucchiati. Il ragazzo dai grandi occhi neri, per la buona ragione ch’era il più piccolo, avea mezzo il corpo fuori della tenda, e poco mancò che non gli mettessi i piedi sul capo. Mi fece compassione; volli che la mattina seguente, svegliandosi, avesse un conforto; e misi una moneta nella mano che riposava sull’erba, colla palma aperta, come per chiedere l’elemosina ai genii della notte.

Un mormorìo di voci allegre, che veniva da una tenda vicina, mi distrasse di là. M’avvicinai. Era la tenda dei soldati e dei servi dell’Ambasciata. Pareva che mangiassero e bevessero. Sentii l’odore del fumo del kif. Riconobbi la voce del secondo Selam, di Abd-el-Rhaman, di Alì, di Hamet, di Mammù, di Civo. Era un’orgietta araba in piena regola. E avevan ben diritto di darsi un po’ di spasso, poveri giovani, dopo aver faticato tutto il giorno a piedi, a cavallo, alle tende, alle mense, chiamati da cento parti, in cento lingue, per cento servizi! Per questo non volli turbare la loro allegrezza e m’allontanai cautamente.

Fino a quel momento la mia escursione era riuscita a meraviglia; ma era destino che non finisse senza un triste accidente.

Non m’ero allontanato di venti passi dalla tenda dei soldati, quando sentii due mani vigorose serrarsi intorno al mio collo e una voce soffocata dall’ira urlarmi una minaccia nell’orecchio. Mi divincolai, mi voltai indietro...

Chi era?

Era l’autore della Cacciata del duca d’Atene, il mio buon amico Ussi, ravvolto come un fantasma nella sua lunga abbaia bianca, portata dall’Egitto, il quale era uscito pochi momenti prima dalla sua tenda per fare, in direzione contraria, lo stesso mio giro, e m’aveva colto alle spalle.

Allora appunto ero arrivato davanti alla tenda dei pittori che chiudeva il cerchio dell’accampamento; il mio viaggio notturno era compiuto, e mi rimbucai nella mia casetta di tela.

  1. In mezzo ai selvaggi.


Note

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.