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Tangeri
Had-El-Garbia

Lo stretto di Gibilterra è forse di tutti gli stretti quello che separa più nettamente due paesi più diversi, e questa diversità appare anche maggiore andando a Tangeri da Gibilterra. Qui ferve ancora la vita affrettata, rumorosa e splendida delle città europee; e un viaggiatore di qualunque parte d’Europa sente l’aria della sua patria nella comunanza d’una infinità d’aspetti e di consuetudini. A tre ore di là, il nome del nostro continente suona quasi come un nome favoloso; cristiano significa nemico, la nostra civiltà è ignorata o temuta o derisa; tutto, dai primi fondamenti della vita sociale fino ai più insignificanti particolari della vita privata, è cambiato; e scomparso fin anche ogni indizio della vicinanza d’Europa. S’è in un paese sconosciuto, al quale nulla ci lega e dove tutto ci resta da imparare. Dalla spiaggia si vede ancora la costa europea, ma il cuore se ne sente già smisuratamente lontano, come se quel breve tratto di mare fosse un oceano e quei monti azzurri un’illusione. Nello spazio di tre ore, è seguita intorno a noi una delle più meravigliose trasformazioni a cui si possa assistere sulla terra.

L’emozione, però, che si prova mettendo il piede per la prima volta su quel continente immenso e misterioso che fin dalla prima infanzia ci sgomenta l’immaginazione, è turbata dal modo in cui vi si sbarca. Mentre dal bastimento cominciavo a vedere distintamente le case bianche di Tangeri, una signora spagnuola gridò dietro di me con voce spaventata: — Che cosa vuole quella gente? — Guardai dove accennava, e vidi, dietro le barche che s’avvicinavano per raccogliere i passeggieri, una folla d’arabi cenciosi, seminudi, ritti nell’acqua fino a mezza coscia, i quali s’accennavano l’uno all’altro il bastimento con gesti da spiritati, come una banda di briganti che dicessero: — Ecco la preda. — Non sapendo chi fossero e che cosa volessero, discesi nella barca, in mezzo a parecchi altri, col cuore un po’ inquieto. Quando fummo a una ventina di passi dalla riva, tutta quella bordaglia colore di terra cotta, s’avventò sulle barche, ci mise le mani addosso, e cominciò a vociferare in arabo e in spagnuolo, fin che capimmo che le acque essendo basse tanto da non poter approdare, dovevamo traghettare sulle loro spalle; la qual notizia dissipò la paura d’uno svaligiamento e destò il terrore dei pidocchi. Le signore furono portate via sulle seggiole come in trionfo, ed io feci la mia entrata in Affrica a cavallo a un vecchio mulatto, col mento inchiodato sul suo cocuzzolo e le punte dei piedi nel mare.

Il mulatto, arrivato a terra, mi scaricò nelle mani d’un altro facchino arabo, il quale, infilata una porta della città, mi condusse correndo per una viuzza deserta a un albergo vicino, di dove uscii immediatamente con una guida per andare nella strada più frequentata.

La prima cosa che mi colpì, e più fortemente ch’io non possa esprimere, fu l’aspetto della popolazione.

Tutti portano una specie di lunga cappa di lana o di tela bianca, con un grande cappuccio quasi sempre ritto sul capo, cosicchè la città presenta l’aspetto d’un vasto convento di frati domenicani. Di tutto questo popolo incappato, una parte si muove lentamente, gravemente e senza far rumore, come se volesse passare inosservata; gli altri stanno seduti o accovacciati lungo i muri, davanti alle botteghe, agli angoli delle case, immobili e cogli occhi fissi, come le popolazioni pietrificate delle loro leggende. L’andatura, gli atteggiamenti, il modo di guardare, tutto è novo per noi; tutto rivela un ordine di sentimenti e d’abitudini affatto diverso dal nostro; una tutt’altra maniera di considerare il tempo e la vita. Quella gente non pare punto preoccupata delle sue faccende, nè del luogo dove si trova, nè di quello che accade intorno ad essa. Tutti hanno nell’espressione del viso qualchecosa di vago e di profondo, come di chi sia dominato da un’idea fissa, o pensi a luoghi e a tempi molto lontani, o sogni ad occhi aperti. Appena entrato nella folla, mi ferì un odore particolare, che non avevo mai sentito in mezzo alla gente in Europa; non so di che, ma punto gradevole, e nondimeno cominciai ad aspirarlo con una viva curiosità, come se mi dovesse spiegare qualche cosa. Andando innanzi, quella folla, che da lontano m’era parsa uniforme, mi presentava mille varietà. Mi passavano accanto faccie bianche, nere, giallastre, bronzine; teste ornate di lunghissime ciocche di capelli e cranii rapati e lucidi come palle metalliche; uomini secchi come mummie; vecchi d’una vecchiezza orrenda; donne col viso e tutta la persona ravvolta in un mucchio informe di cenci; bimbi con lunghe trecce; visi di sultani, di selvaggi, di negromanti, d’anacoreti, di banditi, di gente oppressa da una tristezza immensa o da una noia mortale; pochi o nessuno sorridente; gli uni dietro gli altri silenziosi e lenti come una processione di spettri per il viale d’un camposanto. Non so come, ma davanti a quello spettacolo, sentii il bisogno d’abbassar gli occhi sopra me stesso, e di dire dentro di me: — Io sono il tale dei tali, il paese dove mi trovo è l’Affrica, e costoro sono Arabi — e riflettere un momento per ficcarmi questa idea nella testa.

Una volta che vi fu, ci mettemmo a girare per le altre strade. La città corrisponde per ogni verso alla popolazione. È tutta un labirinto inestricabile di stradicciuole tortuose, o piuttosto di corridoi, fiancheggiati da piccole case quadrate, bianchissime, senza finestre, con porticine per le quali passa a stento una persona: case che paiono fatte per nascondervisi più che per abitarvi, ed hanno un aspetto tra di prigione e di convento. In molte strade non si vede che il bianco dei muri e l’azzurro del cielo; di quando in quando, qualche archetto moresco, qualche finestra arabescata, qualche striscia di rosso ai piedi dei muri, qualche mano dipinta in nero accanto a una porta, che serve a scongiurare gl’influssi maligni. Quasi tutte le strade sono ingombre di legumi fradici, di penne, di cenci, d’ossami, e in qualche punto di cani e di gatti morti, che ammorbano l’aria. Per lunghi tratti non s’incontra che qualche gruppo di ragazzi arabi incappucciati che giocano o canterellano con voce nasale i versetti del Corano; qualche povero accovacciato, qualche moro a cavallo a una mula, qualche asino sopraccarico, colla schiena sanguinolenta, sfruconato da un arabo mezzo nudo; cani spelati e scodati, e gatti d’una magrezza favolosa. Qua e là, passando, si sente odor d’aglio, di fumo di kif, d’aloè bruciato, di belgiuino, di pesce. E così si gira l’intera città, che ha per tutto la stessa bianchezza abbagliante e la stessa aria di mistero, di tristezza e di noia.

Dopo un breve giro riuscimmo nella piazza principale, anzi unica, di Tangeri, la quale è tagliata da una lunga strada che salendo dalla parte della marina attraversa tutta la città. È una piazzetta rettangolare, circondata di botteguccie arabe, che parrebbero meschine nel più povero dei nostri villaggi. Da un lato v’è una fontana sempre circondata d’arabi e di neri affaccendati ad attinger acqua con otri e brocche; da un altro lato stanno tutto il giorno sedute in terra otto o dieci donne col viso imbacuccato, che vendon pane. Intorno a questa piazza ci sono le modestissime case delle Legazioni straniere che s’innalzano come palazzi in mezzo alla moltitudine confusa delle casette moresche. In questo piccolo spazio si concentra tutta la vita di Tangeri, che è la vita d’un villaggio. V’è là vicino il solo tabaccaio della città, la sola spezieria, il solo caffè, che è una stanzaccia con un biliardo, e la sola cantonata dove si veda qualche volta qualche annunzio stampato. Là si raccolgono i monelli seminudi, i ricchi mori sfaccendati, gli ebrei che parlano d’affari, i facchini arabi che aspettano l’arrivo del piroscafo, gl’impiegati delle Legazioni che aspettano l’ora del desinare, gli stranieri appena arrivati, gl’interpreti, gli accattoni. Là s’incontra il corriere che arriva cogli ordini del sultano da Fez, da Mechinez o da Marocco, e il servitore che vien dalla posta coi giornali di Londra e di Parigi; la bella dell’arem e la moglie del ministro; il cammello del beduino e il cagnolino da salotto; il turbante e il cappello cilindrico; l’onda sonora del pianoforte che erompe dalle finestre d’un Consolato e la cantilena lamentevole che esce dalla porta della moschea. Ed è il punto dove l’ultimo flutto della civiltà europea s’infrange e ristagna nell’immensa acqua morta della barbarie affricana.

Dalla piazza, rimontando la strada principale, e passando per due vecchie porte, uscimmo, che cominciava a imbrunire, dalle mura della città, e ci trovammo in una piazza aperta sul fianco d’una collina, chiamata Soc de Barra, o mercato esteriore, poichè ogni domenica e ogni giovedì vi si fa il mercato. È forse di tutti i luoghi ch’io vidi nel Marocco, quello che mi fece sentire più profondamente il carattere del paese. È un tratto di terreno nudo, tutto gobbe e incavature, colla tomba d’un santo, formata da quattro muri bianchi, a mezza china; sulla sommità un cimitero; più lontano qualche aloè e qualche fico d’india; sotto, le mura merlate della città. In quel momento, vicino alla porta v’era un gruppo di donne arabe, sedute in terra, con mucchi d’erbaggi dinanzi; accanto alla tomba del santo una lunga fila di cammelli accosciati; più su, alcune tende nerastre e un cerchio d’arabi attoniti, seduti intorno a un vecchio, in piedi, che raccontava una storia; qua e là, vacche e cavalli; e sulla sommità, fra le pietre e i monticelli di terra del cimitero, altri arabi immobili come statue, col viso rivolto verso la città, tutta la persona nell’ombra, e le punte dei cappucci che spiccavano sull’orizzonte dorato dal crepuscolo. Su tutta questa scena una pace di colori, un silenzio, una mestizia, da non potersi efficacemente descrivere a voce, se non stillando parola per parola nell’orecchio di chi ascolta, come quando si confida un segreto.

La guida mi svegliò dalla mia contemplazione e mi ricondusse all’albergo, dove il mio dispiacere di trovarmi in mezzo a gente sconosciuta fu per la prima volta mitigato dal fatto ch’eran tutti Europei, cristiani e vestiti come me. V’erano a tavola una ventina di persone, tra uomini e signore, di nazione diversa, che offrivano una bella immagine di quello strano incrociamento di famiglie e d’interessi che segue in quei paesi: un francese nato in Algeri, marito d’un’inglese di Gibilterra; uno spagnuolo di Gibilterra, marito della sorella d’un console portoghese della costa dell’Atlantico; un vecchio inglese con una figliuola nativa di Tangeri e una nipotina nativa d’Algeria; famiglie erranti da un continente all’altro, o sparpagliate sulle due coste, che parlano cinque lingue, e vivono metà all’araba e metà all’europea. Appena cominciato il desinare, cominciò una conversazione vivissima, ora in francese, ora in spagnuolo, tempestata di parole arabe, sopra soggetti affatto estranei alla consuetudine delle conversazioni europee: come il prezzo d’un cammello, lo stipendio d’un Pascià, se il Sultano fosse bianco o mulatto, se era vero che fossero state portate a Fez dieci teste di rivoltosi della provincia di Garet, quando sarebbero arrivati a Tangeri quei religiosi fanatici che mangiano i montoni vivi, ed altre cose di questo genere, che mi facevano saltellare dentro all’anima il diavolo della curiosità. Poi vennero a parlare di politica europea con quel non so che di scucito che c’è sempre nei discorsi di gente di vario paese, e quelle solite gran frasi vuote con cui si parla d’una politica lontana, fantasticando alleanze spropositate e guerre favolose. E poi il discorso cadde su Gibilterra, argomento inevitabile; la gran Gibilterra, il centro d’attrazione di tutti gli Europei della costa, dove si mandano i figliuoli a studiare, dove si va a comprare il vestito, a ordinare un mobile, a sentire l’opera in musica, a respirare una boccata d’aria d’Europa. E finalmente venne in campo la partenza dell’ambasciata italiana per Fez, ed io ebbi il grandissimo piacere di sentire che l’avvenimento era assai più importante di quel che credevo, che se ne parlava in tutta Tangeri e in tutta Gibilterra e ad Algesira e a Cadice e a Malaga, e che la carovana sarebbe stata lunga un miglio, e che coll’ambasciata c’erano dei pittori italiani, e che forse ci sarebbe stato perfino un representante de la prensa. Alla quale notizia mi alzai modestamente da tavola e mi allontanai con passo maestoso.

Più tardi, a notte inoltrata, volli fare un altro giro per veder Tangeri addormentata. Non v’era un lampione, non una finestra illuminata, non uno spiraglio da cui trapelasse un barlume; la città pareva disabitata e non riceveva altra luce che quella del cielo stellato, sul quale biancheggiavano, come enormi tombe di marmo, le case più alte, e si disegnavano nitidamente le cime dei minareti e i rami delle palme. Andai sino in fondo alla strada principale: le porte della città erano chiuse. Girai per altre vie: tutto chiuso, immobile, muto. Due o tre volte inciampai in qualchecosa che a primo aspetto mi parve un mucchio di cenci, ed era un arabo addormentato. Sentii più volte, con raccapriccio, scricchiolare sotto il mio piede penne ed ossami, o cedere mollemente qualcosa che doveva essere la carogna d’un cane. Mi passò accanto, rasente il muro, come uno spettro, un arabo incappato; ne vidi un altro biancheggiare un momento in fondo a un vicolo; e a una svoltata sentii, senza veder nulla, un fruscìo affrettato di pantofole e di cappe, che mi fece sospettare d’aver turbato un conciliabolo. Andando, non sentivo che il rumore del mio passo; fermandomi, non sentivo che il mio respiro. Mi pareva che tutta la vita di Tangeri si fosse ridotta in me solo, e che se avessi gettato un grido, sarebbe risonato da un capo all’altro della città come uno scoppio di tuono. Pensavo alle tante belle arabe addormentate, alle quali passavo vicino, e agli strani misteri che avrei scoperti, se quelle case si fossero aperte tutt’a un tratto come una scena di teatro. Di quando in quando mi fermavo dinanzi alla splendida bianchezza di certi spazi di muro, su cui batteva la luna, che parevano illuminati dalla luce elettrica. In un vicolo oscuro incontrai un nero con una lanterna, che si fermò per lasciarmi passare, mormorando qualche parola che non compresi. Nel punto che sboccavo nella piazzetta, sentii sonare in quel profondo silenzio una risata sgangherata, che mi diede i brividi. Erano due giovanotti col cappello cilindrico, probabilmente due impiegati di Legazione, che passeggiavano discorrendo. In un angolo della piazza, sotto la tenda d’una bottega chiusa, un lumicino moribondo rischiarava confusamente un ammasso di cenci biancastri, da cui usciva un suono leggerissimo di chitarra e un filo di voce tremola e lamentevole, che pareva portata dal vento da una gran lontananza. Io stetti là immobile, sognando piuttosto che pensando, fin che i due giovani sparirono e il lumicino si spense, e allora tornai all’albergo, stanco, sbalordito, coll’imaginazione in tumulto, e con un sentimento nuovo e stranamente confuso di me medesimo, come ho più volte pensato che dovrebbe essere quello d’un uomo trasportato dalla terra in un altro pianeta.


La mattina dopo uscii per andarmi a presentare al nostro incaricato d’affari, Comm. Stefano Scovasso. Egli non avrebbe potuto dirmi che non ero puntuale al convegno. Il giorno otto d’aprile, a Torino, avevo ricevuto l’invito, coll’annunzio che la carovana sarebbe partita da Tangeri il giorno diciannove: la mattina del diciotto mi trovavo alla porta della Legazione. Non conoscevo di persona il Comm. Scovasso; ma sapevo di lui qualche cosa, che mi dava una gran curiosità di conoscerlo. Di due suoi amici che avevo interrogati prima di partire, uno m’aveva assicurato ch’era un uomo capace d’andare a cavallo da Tangeri a Tumbuctù, senz’altra compagnia che un paio di pistole; l’altro aveva biasimato la sua pessima abitudine di rischiare la propria vita per salvare quella degli altri. In grazia di queste informazioni lo riconobbi a primo aspetto, da lontano, prima ancora che l’interprete dell’albergo, il quale m’accompagnava, me lo indicasse. Era sulla porta della Legazione, in mezzo ad alcuni arabi immobili in un atteggiamento ossequioso, che pareva aspettassero degli ordini. Mi presentai, mi ricevette da par suo, mi volle sin da quel momento ospite del quartier generale, e mi diede notizie della spedizione. La partenza era rimandata ai primi di maggio, perchè a Fez, in quei giorni, v’era l’ambasciata inglese. S’aspettavano di là i cavalli, i cammelli, i muli e un drappello di cavalleria che ci avrebbe scortati in viaggio. Un bastimento da trasporto della nostra marina militare, il Dora, allora ancorato a Gibilterra, aveva già portato a Larrace, sulla costa dell’Atlantico, i regali che Vittorio Emanuele mandava all’Imperatore del Marocco. Lo scopo principale del viaggio, per l’incaricato d’affari, era di presentare le credenziali al giovine sultano Mulei el Hassen, salito al trono nel settembre del 1873. Nessun’ambasciata italiana era mai stata a Fez. Era la prima volta che si portava nell’interno del Marocco la bandiera della nuova Italia. Perciò l’ambasciata sarebbe stata ricevuta con straordinaria solennità. Il nostro Ministero della guerra aveva mandato un capitano di stato maggiore, il signor Giulio di Boccard; il Ministero della Marina, un capitano di fregata, il signor Fortunato Cassone, allora comandante del Dora, ora capitano di vascello. Questi, insieme col vice-console italiano di Tangeri e col nostro agente consolare di Mazagan formavano la parte ufficiale dell’ambasciata. Il pittore Ussi di Firenze, il pittore Biseo di Roma ed io eravamo invitati privatamente dal signor Scovasso. Tutti, eccetto l’agente di Mazagan, si trovavano già a Tangeri.

La mia prima occupazione, appena rimasto solo, fu di osservare la casa nella quale ero ospitato; e veramente la casa d’un Ministro europeo in Africa, d’un Ministro, in specie, che si prepara ad un viaggio nell’interno, è degna d’osservazione. L’edificio, per sè stesso, non ha nulla di straordinario: di fuori è bianco e nudo, ha un giardinetto davanti, un piccolo cortile nell’interno, e nel cortile quattro colonne sulle quali s’appoggia una galleria coperta che gira tutt’intorno all’altezza del primo piano. È una casa signorile di Cadice o di Siviglia. Ma la gente, la vita di questa casa mi riuscì affatto nuova. Governante e cuoco, piemontesi; una serva mora di Tangeri ed una negra del Sudan, coi piedi nudi; camerieri e stallieri arabi vestiti di grandi camicie bianche; guardie consolari, con fez, caffettano rosso e pugnale; tutta questa gente in moto per tutta la giornata. Poi, a certe ore, un andirivieni di operai ebrei, di facchini neri, d’interpreti, di soldati del Pascià, di mori protetti dalla Legazione. Il cortile era ingombro di casse, di letti da campo, di tappeti, di lanterne. A tutte le ore si sentiva picchiare il martello e strider la sega, e i servi chiamarsi fra loro con quei nomi strani di Fatma, Racma, Selam, Mohammed, Alì, Abd-er-Rhaman. E la mescolanza delle lingue! Un moro faceva un’imbasciata in arabo a un altro moro, che la trasmetteva in spagnolo alla governante, che la ripeteva in piemontese al cuoco. Era un continuo intrecciarsi di traduzioni, di commenti, d’equivoci, di dubbi, intercalati di Por dios, d’Allá e di sacrati italiani. Nella strada una processione di cavalli e di mule. Davanti alla porta un gruppo permanente di curiosi, o di poveri diavoli, arabi ed ebrei, aspiranti, alla lontana, alla protezione della Legazione. Di tratto in tratto la visita d’un ministro o d’un console, a cui si inchinavano tutti i fez e tutti i turbanti. Ogni momento l’apparizione d’un messo misterioso, d’un vestiario sconosciuto, d’una faccia strana. Infine una varietà di figure, di colori, di gesti, d’accenti, di faccende, da non mancarvi che la musica per credere d’essere in teatro, alla rappresentazione d’un ballo mimico di soggetto orientale.

Il mio secondo pensiero fu d’impadronirmi di qualche libro del mio ospite per sapere in che paese mi trovassi, prima di mettermi a studiare i costumi. Questo paese, chiuso fra il Mediterraneo, l’Algeria, il deserto di Sahara e l’Oceano, attraversato dalla grande catena dell’Atlante, bagnato da larghi fiumi, aperto in pianure immense, dominato da tutti i climi, privilegiato, nei tre regni della natura, di ricchezze inestimabili, destinato, per la sua giacitura, ad essere una gran via di commercio fra l’Africa centrale e l’Europa; è ora occupato da circa otto milioni d’abitanti tra berberi, mori, arabi, ebrei, negri ed europei, sparsi sopra una estensione di terreno più vasta della Francia. I berberi, che formano il fondo della popolazione indigena, selvaggi, turbolenti, indomiti, vivono sulle montagne inaccessibili dell’Atlante, quasi indipendenti dall’autorità imperiale. Gli arabi, il popolo conquistatore, occupano le pianure, ancora nomadi e pastori e non in tutto degeneri dalla fierezza del carattere antico. I mori, arabi incrociati e corrotti, discendenti in gran parte dai mori di Spagna, abitano le città, ed hanno nelle mani le ricchezze, le cariche, il commercio. I neri, cinquecentomila circa, provenienti dal Sudan, sono per lo più servi, lavoratori e soldati. Gli Ebrei, presso a poco eguali di numero ai neri, discendenti la più parte dagli Ebrei esiliati d’Europa nel medio evo, oppressi, odiati, avviliti, perseguitati più che in nessun altro paese del mondo, esercitano le arti e i mestieri, mercanteggiano, s’industriano in mille modi coll’ingegno, la pieghevolezza e la costanza propria della loro razza, e trovano un compenso all’oppressione nel possedimento dei denari strappati ai loro oppressori. Gli Europei, che l’intolleranza mussulmana respinse a poco a poco dall’interno dell’Impero verso le coste, son meno di due migliaia in tutto il Marocco, abitano la maggior parte la città città di Tangeri, e vivono liberamente all’ombra delle bandiere dei Consolati. Questa popolazione eterogenea, dispersa, inconciliabile, è, piuttosto che retta, oppressa da un governo soldatesco, che succhia come un immenso polipo tutti gli umori vitali dello Stato. Le tribù e le borgate obbediscono agli sceicchi, le città e le provincie ai Caid, le grandi provincie ai pascià, e i pascià al Sultano, grande Sceriffo, sommo sacerdote, giudice supremo, esecutore della legge che emana da lui, libero di mutare a suo capriccio monete, imposte, pesi, misure, padrone delle sostanze e delle vite dei suoi sudditi. Sotto il peso di questo governo, e dentro al cerchio inflessibile della religione mussulmana, rimasta immune da ogni influsso europeo, e snaturata da un fanatismo selvaggio, tutto ciò che negli altri paesi s’agita e procede, là rimane immobile o rovina. Il commercio è strozzato dai monopoli, dalle proibizioni d’esportazione e d’importazione, dalla capricciosa mutabilità delle leggi. L’industria, ristretta nella sua attività dai vincoli posti al commercio, è rimasta come prima della cacciata dei Mori dalla Spagna, coi suoi strumenti primitivi e coi suoi procedimenti infantili. L’agricoltura, oberata di balzelli, vincolata nell’esportazione dei prodotti, non curata che quanto richiedono le prime necessità della vita, è decaduta a segno da non meritar quasi il nome d’arte. La scienza, soffocata dal Corano, contaminata dalla superstizione, si riduce, nelle maggiori scuole, a pochi elementi, quali s’insegnavano nel medio evo. Non v’è stampa, nè libri, nè carte geografiche; la lingua stessa, corruzione dell’arabo, non rappresentata che da una scrittura imperfetta e variabile, si va sempre più degradando; il carattere nazionale nella generale decadenza si corrompe; tutta l’antica civiltà mussulmana deperisce. Il Marocco, questo estremo baluardo occidentale dell’Islamismo, già sede d’una monarchia che dominava dall’Ebro al Sudan e dal Niger alle Baleari, glorioso d’Università fiorenti, di biblioteche immense, di dotti famosi, d’eserciti e di flotte formidabili, non è più che un piccolo Stato pressochè sconosciuto, pieno di miseria e di rovine, che resiste colle ultime sue forze all’invasione della civiltà europea, sorretto ancora sulle sue fondamenta sfasciate dalle reciproche gelosie degli Stati civili.

Quanto a Tangeri, l’antica Tingis, che diede il nome alla Mauritania tingitana, e passò successivamente dalle mani dei Romani in quelle dei Vandali, dei Greci, dei Visigoti, degli Arabi, dei Portoghesi, degl’Inglesi, è una città di quindicimila abitanti, che le sue sorelle dell’Impero considerano come una «prostituta dei Cristiani», benchè non vi rimanga più traccia delle chiese e dei monasteri che vi fondarono i Portoghesi, e la religione cristiana non v’abbia che una piccola cappella, nascosta in mezzo alle case consolari.

Dopo ciò cominciai a fare per le strade di Tangeri qualche studio preparatorio per il viaggio, notando giorno per giorno le mie osservazioni. Ed eccone alcune, incomplete e slegate, ma scritte sotto l’impressione immediata delle cose, e perciò forse più efficaci d’una descrizione pensata.

Io mi vergogno quando mi passa accanto un bel moro vestito in gala. Paragono il mio cappelluccio al suo enorme turbante di mussolina, la mia misera giacchetta al suo lungo caffettano color di gelsomino o di rosa, l’angustia, insomma, del mio vestiario grigio e nero, all’ampiezza, al candore, alla dignità semplice e gentile del suo, e mi par di far la figura d’un scarabeo accanto a una farfalla. Sto qualche volta lungo tempo a contemplare, dalla finestra della mia camera, un palmo di calzoncino color di sangue e una babuccia color giallo d’oro, che spuntano di dietro a un pilastro, giù nella piazzetta, e ci provo un piacere, che non ne posso staccar lo sguardo. E più d’ogni cosa m’innamora e mi mette invidia il caìc: quel lungo pezzo di lana o di seta bianchissima, a striscie trasparenti, che si avvolge intorno al turbante, casca sulla schiena, gira intorno alla vita, si ripiega sulle spalle, e ridiscende fino ai piedi, e velando vagamente i colori pomposi dei panni, ad ogni alito di vento tremola, ondeggia, si gonfia, par che s’accenda ai raggi del sole, e dà a tutta la persona l’apparenza vaporosa d’una visione. In questo bellissimo velo avvolge e stringe sè e la sposa il mussulmano innamorato nella notte nuziale.

Chi non abbia visto, non può immaginare fino a che punto giunga, presso gli Arabi, l’arte di sdraiarsi. In angoli dove noi ci troveremmo imbarazzati a mettere un sacco di cenci o un fastello di paglia, essi trovano il modo di adagiarsi come sopra un letto di piume. Si arrotondano intorno a tutte le sporgenze, riempiono tutte le cavità, si appiccicano ai muri come bassorilievi, si allungano e si schiacciano sul terreno in maniera da non parer più che cappe bianche distese ad asciugare, asciugare, si attorcigliano, piglian la forma di palle, di cubi, di mostri senza braccia, senza gambe, senza testa; così che le strade e le piazze della città paiono seminate di cadaveri e di tronchi umani, come dopo una strage.

Più considero questa gente, e più ammiro la nobiltà dei loro movimenti. Fra noi non v’è quasi alcuno che o per l’impedimento degli abiti, o per la strettezza della calzatura, o per vezzo, non abbia un’andatura contraffatta. Costoro si movono colla libera eleganza di superbi animali selvaggi. Cerco e non trovo in mezzo a loro nemmeno uno di quei mille atteggiamenti da rodomonte, da ballerino e da innamorato svenevole, ai quali abbiamo l’occhio abituato nei nostri paesi. Tutti hanno nel loro modo di camminare qualcosa della compostezza d’un sacerdote, della maestà d’un re e della disinvoltura d’un soldato. Ed è strano che quella stessa gente che sta tante ore del giorno accovacciata, immobile, quasi intorpidita, spieghi, non appena è scossa dalla passione, un vigore di gesto e di voce che tocca la frenesia. Ma anche nel prorompere delle passioni più violente, serbano una sorta di dignità tragica, che potrebbe servir d’esempio a molti attori. Ricorderò per molto tempo l’arabo di stamane, un vecchio alto e consunto, il quale, avendo ricevuto, per quello che si disse, una mentita da un tale con cui fino allora era andato disputando pacatamente, impallidì, dette indietro, e poi si slanciò giù per la strada coprendosi il viso colle mani convulse e gettando un urlo di rabbia e di dolore. Io non ho mai visto una figura più terribile e più bella.

La maggior parte non hanno addosso che una semplicissima cappa bianca; eppure quanta varietà fra di loro! Chi la porta aperta, chi chiusa, chi tirata da un lato, chi ripiegata sulla spalla, chi infilata, chi sciolta, ma sempre posta con garbo, variata di pieghe pittoresche, cascante, in linee facili e severe, come se l’avesse panneggiata, o piuttosto, come la vorrebbe saper panneggiare un artista. Ognuno di costoro arieggia un senatore romano. Stamattina l’Ussi ha scoperto un meraviglioso Marco Bruto in mezzo a un gruppo di beduini. Ma se non ci è abituata la persona, non basta la cappa a nobilitar la figura. Parecchi di noi n’han comperata una per il viaggio, e se la provarono; e m’è parso vedere dei vecchietti convalescenti infagottati in un lenzuolo da bagno.

Non ho ancora visto tra gli arabi un gobbo nè uno storpio nè un rachitico; ma molti senza naso, effetto di morbo celtico; moltissimi ciechi, e i più fra questi colle occhiaie vuote; vista che mi fa rabbrividire quando penso che ad alcuni, forse, è stato strappato il globo dell’occhio in virtù della legge del taglione, che vige nell’Impero. Ma nessuna bruttezza ridicola in mezzo a tante figure strane e rincrescevoli. Il vestito ampio nasconde i piccoli difetti, come la gravità comune e l’apparenza lignea, terracea o bronzina delle carni, dissimula la differenza d’età. Il perchè s’incontrano ad ogni passo uomini d’un’età indefinibile, dei quali si può dire soltanto che non sono nè vecchi nè adolescenti; e o si giudicano maturi, e un lampo di sorriso rivela inaspettatamente la giovinezza; o si credono giovani, e il cappuccio rovesciato mostra tutt’a un tratto i capelli grigi.

Gli Ebrei di qui arieggiano nei lineamenti del viso quelli dei nostri paesi; ma la statura più alta, il colorito più bruno, i lunghi capelli neri, e sopra tutto il vestire pittoresco li fa parere tutt’altra gente. Portano un vestito della forma presso a poco d’una veste da camera, di vario colore, per lo più oscuro, stretto intorno alla vita da una fascia rossa; una berrettina nera; calzoni larghi che sporgono appena un palmo disotto alle falde, e le pantofole gialle. Ed è strano il numero di «eleganti» che si vedono in mezzo a loro, vestiti di stoffe finissime, con camicie ricamate, ciarpe di seta, catene ed anelli d’oro; ma punto vistosi; austeri, invece, nell’insieme dell’abbigliamento, e pieni di grazia e di dignità signorile, eccetto quei pochi disgraziati che si prostituirono al cappello cilindrico e al soprabito nero. Fra i ragazzi vi sono delle figurine gentili; ma quella specie di veste da camera in cui si fasciano, non s’addice alla età loro. Ogni ragazzo ebreo mi par un dilettante da teatrino di collegio, vestito per far la parte del protagonista nel Campanello dello speziale.

Trovo, sinora, che non è un’esagerazione quello che si dice della bellezza delle ebree marocchine, che ha un carattere suo proprio, sconosciuto in ogni altro paese. È una bellezza opulenta e splendida, di grandi occhi neri, di fronti nivee, di bocche porporine, di contorni statuarii, una bellezza da palco scenico, che abbarbaglia da lontano, e strappa piuttosto un applauso che un sospiro, e piace di raffigurarsela in mezzo alle fiaccole e alle tazze inghirlandate d’un banchetto antico, come nella sua cornice naturale. Le ebree di Tangeri non vestono in pubblico il ricchissimo costume tradizionale; son vestite presso a poco all’europea, ma di colori ciarlatanissimamente vistosi, blù solferino e rosso di carminio, giallo di zolfo e verde d’erba montanina, scialli e gonnelle che feriscon l’occhio da una collina all’altra; in modo che paiono donne ravvolte dentro a bandiere di tutti gli Stati del mondo. Il sabato, passando per le strade abitate dagli ebrei, si vedono da ogni parte quei colori, quei visi floridi, quegli occhioni dolci e ridenti, quelle treccie lunghe e nerissime; nidiate di ragazze chiassose e curiose; un rigoglio di gioventù e di bellezza sensuale, che contrasta vivamente colla solitudine austera delle altre vie.

Mi fanno ridere i ragazzi arabi. Di quei piccini, che possono appena camminare, anch’essi insaccati nella cappa bianca, non si vede altro che il cappuccio, e paiono spegnitoi ambulanti. La maggior parte hanno la testa rasa nuda come la mano, eccetto una trecciolina sul cocuzzolo lunga un par di palmi, che si direbbe lasciata apposta per poterli appendere ai chiodi come le marionette. Alcuni l’hanno invece dietro l’orecchio o sopra la tempia, con qualche ciocca di capelli tagliati in forma di quadrato o di triangolo, che è il distintivo degli ultimi nati nelle famiglie. I più hanno un bel visetto pallido, un corpicino ritto e sciolto e un’espressione d’intelligenza precoce. Nelle parti più frequentate della città, non badano agli Europei; nelle strade appartate, si contentano di guardarli attentamente, coll’aria di dire: — Non mi piaci. — Qualcuno avrebbe voglia di dire un’impertinenza: glie la vedete scintillare negli occhi e guizzare sulle labbra; ma di rado se la lasciano sfuggire dalla bocca, non tanto per rispetto del Nazareno, quanto per paura del padre, che sente l’odore delle Legazioni. In ogni caso, però, alla vista d’un soldo si quetano. Ma bisogna guardarsi da tirare il codino, perchè ieri, passando, diedi una tiratina a un fantoccio alto un palmo, e lui mi si voltò contro inviperito, borbottando alcune parole, che significavano, mi disse l’interprete: — Dio faccia arrostire tuo nonno, maledetto Cristiano!

Ho finalmente veduto due santi, che vuol dire idioti o pazzi, poichè qui, come in tutta l’Affrica settentrionale, è venerato come santo colui al quale Dio, in segno di predilezione, ha tolto la ragione per ritenerla prigioniera nel cielo. Il primo era davanti a una bottega, sulla strada principale. Lo vidi da lontano e mi fermai. Sapevo che ai santi tutto è lecito, e non volevo espormi a ricevere una legnata tra capo e collo come il signor Sourdeau, console di Francia, o uno sputo nel viso come il signor Drummond Hay. Ma l’interprete che m’accompagnava mi spinse innanzi dicendomi: — Vada franco; i santi di Tangeri han messo testa a partito dopo che le Legazioni fecero dare degli esempi sonori, e in ogni caso gli arabi stessi le servirebbero di scudo, per impedire al santo di compromettersi. — Allora passai davanti a quello spauracchio, osservandolo attentamente. Era un vecchio, tutto faccia e tutto pancia, coi capelli bianchi lunghissimi, una barbaccia che gli scendeva fin sul petto, una corona di carta intorno alla fronte, un mantello rosso sbrandellato sulle spalle e in mano una piccola lancia colla punta dorata. Stava seduto in terra, colle gambe incrociate e le spalle al muro, guardando con aria annoiata la gente che passava. Mi soffermai: mi guardò. Ci siamo — pensai — ora lavora la lancia. — Ma la lancia ebbe giudizio, e fui anzi meravigliato dell’espressione tranquilla e intelligente di quegli occhi e d’un risolino astuto che vi brillava dentro, come se volesse dire: — Tu aspetti ch’io ti dia addosso, eh? A esser minchioni! Era certamente uno di quegli impostori che, sani di mente, si fingono pazzi per godere i privilegi della santità. Gli gettai una moneta ch’egli raccolse con sbadataggine affettata, e tornai verso la piazzetta dove, appena arrivato, ne incontrai un altro. Questo era santo davvero. Era un mulatto, quasi tutto nudo, appena umano nel viso, tutt’una crosta immonda dalla testa ai piedi, e secco a segno che lasciava veder lo scheletro osso per osso, e pareva un prodigio che vivesse. Girava lentamente per la piazza sorreggendo a fatica una gran bandiera bianca, che i ragazzi correvano a baciare, e un altro pezzente accompagnato da due rabbiosi suonatori di piffero e di tamburo, chiedeva la limosina per lui di bottega in bottega. Gli passai accanto, mi mostrò il bianco dell’occhio; lo fissai, si fermò; mi parve che apparecchiasse qualcosa in bocca, mi scansai lesto lesto e non mi volsi più indietro. — Ha fatto bene, mi disse l’interprete, a scansarsi, perchè, se avesse sputato, lei non avrebbe avuto dagli altri arabi altra consolazione che di sentirsi dire: Non asciugare, fortunato Cristiano! Non cancellare il segno della benevolenza di Dio! Te benedetto, che il santo t’ha sputato sul viso!

Sta notte ho inteso di nuovo il suono di chitarra e la voce della prima sera, e ho sentito per la prima volta la musica araba. In quella perpetua ripetizione dello stesso motivo, quasi sempre malinconico, c’è qualcosa che a poco a poco va all’anima. È una specie di lamentazione monotona che finisce per soggiogare il pensiero come il mormorio d’una fontana, il canto dei grilli e il battere dei martelli sulle incudini che si ode la sera passando vicino a un villaggio. Mi sento forzato a raccogliermi e a meditare come per afferrare il significato riposto di quella eterna parola che mi risuona all’orecchio. È una musica barbara, ingenua e piena di dolcezza, che mi fa risalire col pensiero fino alle età primitive, mi ravviva le impressioni infantili delle prime letture della Bibbia, mi richiama alla mente dei sogni dimenticati, mi desta mille curiosità di paesi e di popoli favolosi, mi trasporta a grandi lontananze, in boschi d’alberi sconosciuti, in mezzo a sacerdoti secolari curvi intorno a idoli d’oro; o in pianure sconfinate, in solitudini solenni, dietro le carovane stanche che interrogano collo sguardo l’immenso orizzonte infocato e ripiegano la testa raccomandandosi a Dio. Nulla di quello che mi circonda mi fa sentire un così mesto desiderio di riveder mia madre, come quelle poche note d’una voce fioca e d’una chitarra scordata.

Una stranissima cosa son le botteghe moresche. Sono tutte una specie d’alcova, alta circa un metro da terra, con una sola apertura verso la strada, alla quale il compratore s’affaccia, come ad una finestra, appoggiandosi al muro. Il bottegaio sta dentro, seduto all’orientale, con una parte delle merci ammontata dinanzi, e una parte dietro, disposta in piccoli scaffali. È curioso l’effetto che fan quei vecchi mori barbuti, immobili come automi, in fondo a quei bugigattoli oscuri. Pare che non la merce, ma essi medesimi siano esposti in mostra, come i fenomeni viventi nelle baracche delle fiere. Son vivi? son di legno? dov’è l’ordigno che li fa comparire e sparire? E così immobili e silenziosi passano ore ed ore, e giornate intere, facendo scorrere fra le dita le pallottoline d’un rosario, e borbottando preghiere. Non si può immaginare l’aria di solitudine, di noia, di tristezza che spira là dentro. Si direbbe che ognuna di quelle botteghe è una tomba, nella quale il padrone, già separato dal mondo, aspetta la morte.

Ho visto due bambini condotti in trionfo dopo la funzione solenne della circoncisione. Uno poteva avere sei anni, l’altro cinque. Erano tutti e due a cavallo a una mula bianca, vestiti d’abiti rossi, gialli e verdi, ricamati d’oro, e coperti di nastri e di fiori, in mezzo ai quali si vedevano appena i loro visetti pallidi, che serbavano ancora l’espressione dello spavento e dello stupore. Davanti alla mula, gualdrappata e inghirlandata come un cavallo di corte, camminavano tre sonatori col tamburo, il piffero e il cornetto, sonando furiosamente; dai lati e dietro, venivano i parenti e gli amici, uno dei quali teneva i bimbi fermi sulla sella, un altro porgeva loro dei confetti, altri li accarezzavano, alcuni tiravan schioppettate in aria saltando e gridando. Se non avessi saputo il significato della cerimonia, avrei creduto che quei poveri bimbi fossero due vittime condotte al sacrificio; e nondimeno era uno spettacolo non privo di gentilezza e di poesia. Ma l’avrei trovato anche più poetico, se non m’avessero detto che l’operazione sacra era stata fatta dal rasoio d’un barbiere.

Stasera ho assistito ad una strana metamorfosi di Racma, la serva nera del ministro. La sua compagna mi venne a cercare, mi condusse in punta di piedi davanti a un uscio socchiuso, e spalancandolo tutt’a un tratto, esclamò: — Guardi Racma! — Io rimasi talmente meravigliato dell’aspetto in cui mi si presentò quella nera, ch’ero abituato a vedere nei panni di una modestissima schiava, che per un momento non credetti ai miei occhi. Avrei detto ch’era una sultana fuggita dal palazzo dell’Imperatore, la regina di Tumbuctu, una principessa di qualche regno sconosciuto dell’Affrica, venuta là sul tappeto miracoloso di Bisnagar. Non la vidi che per pochi momenti, non saprei dire esattamente com’era vestita. Era un bianco di neve, un rosso di porpora e uno sfolgorio di larghi galloni d’oro, sotto un gran velo trasparente, che presentavano insieme col viso nerissimo una così fragorosa armonia di colori e una ricchezza così barbaramente magnifica da non trovar parola per descriverla. Mentre m’avvicinavo per osservarne i particolari, tutta quella pompa scomparve sotto il lugubre lenzuolo maomettano, e la regina si trasformò in spettro, e lo spettro scomparve, lasciando nella stanza il puzzo nauseabondo di selvaggiume, proprio della razza nera, che finì di togliermi ogni illusione.

Udendo un gran chiasso nella piazzetta, mi affacciai alla finestra e vidi passare un nero con tutto il busto nudo, a cavallo a un asino, fiancheggiato da alcuni arabi armati di bastoni e seguito da uno sciame di ragazzi che urlavano. Sul primo momento credetti che fosse uno scherzo e guardai col cannocchiale. Mi ritirai inorridito. I calzoni bianchi del nero erano macchiati di sangue, che gocciolava dalla schiena. Gli arabi coi bastoni erano soldati che lo battevano. Domandai informazioni. Aveva rubato una gallina. — Fortunato lui! — mi disse un soldato della Legazione: — pare che non gli taglieranno la mano.

Sono da sette giorni a Tangeri, e non ho ancora visto il viso d’un’araba. Mi par di trovarmi in un grande veglione di donne mascherate da streghe, come se le figurano i bimbi, camuffate in un lenzuolo mortuario. Camminano a passi lunghi, lentamente, un po’ curve, coprendosi il viso col lembo d’una specie di mantello di tela, sotto il quale non hanno altro che una camicia a larghe maniche, stretta intorno alla vita da un cordone, come la tonaca d’un frate. Del loro corpo non si vede che gli occhi, la mano che copre il viso, tinta di rosso coll’henné alle estremità delle dita, e i piedi nudi, pure tinti, infilati in larghe pantofole di cuoio giallo. La maggior parte non lasciano vedere che mezza la fronte ed un occhio: l’occhio, per lo più, scuro, e la fronte color di cera. Incontrando un Europeo per una strada appartata alcune si coprono tutto il viso con un movimento brusco e sgraziato e passano stringendosi al muro; altre arrischiano un’occhiata tra diffidente e curiosa; qualcuna, più ardita, saetta uno sguardo provocatore e abbassa il viso sorridendo. Ma la più parte hanno un aspetto triste, stanco, avvilito. Son graziose le ragazzine, non ancora obbligate a coprirsi; occhi neri, visetto pieno, carnagione pallida, boccuccie rotonde, mani e piedi piccini. Ma a vent’anni son già vizze, a trenta, vecchie, a cinquanta, disfatte.

V’è a Tangeri un mostro, una di quelle creature su cui non si può fissare lo sguardo, e che gettano per un momento anche nell’anima d’un credente lo sgomento del dubbio. Si dice che è una donna; ma non sembra nè donna nè uomo. È una testa d’urango, mulatta, coi capelli corti ed irsuti, uno scheletro colla pelle, coperta di cenci neri, quasi sempre distesa come un corpo morto nel mezzo della piazzetta, o seduta in un angolo, immobile e muta come un’insensata, quando non la molestino i ragazzi, ai quali si rivolta urlando o piangendo. Può aver quindici anni, può averne trenta: la sua mostruosità nasconde l’età. Non ha parenti, non ha casa, non si sa come si chiami nè donde venga. Passa la notte accovacciata per le strade, in mezzo alle immondizie e ai cani. Gran parte del giorno dorme; quando ha da mangiare, ride; quando ha fame, piange; quando è sole, è un mucchio di polvere; quando piove, è un ammasso di fango. Una notte, passandole accanto, uno di noi le mise nelle mani una moneta d’argento ravvolta in un pezzo di carta, affinchè la mattina avesse il piacere d’una sorpresa. La mattina la trovammo in mezzo alla piazza che singhiozzava disperatamente, mostrando una mano insanguinata: qualcuno, graffiandola, le aveva strappato la moneta. Tre giorni dopo la incontrai, a cavallo a un asino, tutta in lagrime, sostenuta da due soldati, seguita da una turba di ragazzi che le davan la baia. Qualcuno mi disse che la portavano all’ospedale. Non la rividi che ieri addormentata accanto al carcame d’un cane, più fortunato di lei.

So finalmente chi sono questi uomini biondi dalla faccia di malaugurio, che passandomi accanto per le strade appartate mi gettano uno sguardo in cui pare che scintilli la tentazione dell’omicidio! Sono quei Rifani, berberi di razza, che non hanno altra legge che il loro fucile, che non riconoscono nè caid nè magistrato; i pirati audaci, i banditi sanguinarii, i ribelli eterni che popolano le montagne della costa da Tetuan alla frontiera algerina; che non riuscirono a domare nè i cannoni dei vascelli europei nè gli eserciti del Sultano; gli abitanti, in fine, di quel Rif famoso, dove nessun straniero può mettere piede che sotto la salvaguardia dei santi e dei sceicchi; a cui si riferiscono ogni sorta di leggende paurose; e i popoli vicini ne parlano vagamente come d’un paese lontano e inaccessibile. Se ne vedono di frequente per Tangeri. Son uomini alti e robusti; molti vestiti d’una cappa oscura, ornata di nappine di vario colore; alcuni col viso segnato di rabeschi gialli; tutti armati di fucili lunghissimi, di cui portano la guaina rossa attorcigliata intorno alla fronte in forma di turbante; e vanno a gruppi, parlando a voce bassa, col capo chino e gli occhi all’erta, come drappelli di bravi che cerchino la vittima. E appetto a loro gli Arabi più selvaggi mi paiono amici d’infanzia.

Eravamo a desinare, a notte fitta, quando risonarono alcune fucilate nella piazzetta. Si corse fuori, e si vide ancora, da lontano, un bizzarro spettacolo. La stradetta che conduce alla porta del Soc di Barra era rischiarata, per un buon tratto, da grandi fiaccole, che apparivano al disopra delle teste della folla, intorno a qualcosa che pareva una cassa, posta sulla groppa d’un cavallo; e questa enimmatica processione andava innanzi lentamente, accompagnata da una musica malinconica, da un canto strascicato e nasale, da fucilate, da grida stridule, da latrati di cani. Rimasto solo in mezzo alla piazza, stetti qualche minuto almanaccando che cosa potesse significare quell’apparato lugubre, se in quella cassa ci fosse un cadavere, un condannato a morte, un mostro, un animale destinato al sacrifizio; e in quell’incertezza mi prese un senso di ribrezzo, che mi fece voltar le spalle e tornare a casa pieno di tristi pensieri. Un minuto dopo sopraggiunsero gli amici, ed ebbi da loro la spiegazione dell’enimma. Dentro la cassa v’era chiusa una sposa, e la gente intorno erano i parenti che la portavano a casa del marito.

È passata per la piazzetta una turba d’arabi, uomini e donne, preceduta da sei vecchi che portavano sei grandi bandiere di colori diversi, e tutti insieme cantavano ad alta voce non so che preghiera, con un accento supplichevole ed un aspetto triste, che mi fece senso. Domandai: mi si disse che chiedevano ad Allà la grazia della pioggia. Li seguitai, andavano alla moschea principale. Non sapendo che qui è rigorosamente proibito ai cristiani di metter piede nelle moschee, quando fui davanti alla porta, feci l’atto d’entrare. Un vecchio arabo mi si slanciò contro e borbottando con voce affannata qualcosa che interpretai per: — Che cosa fai, disgraziato! — mi spinse indietro coll’atto di chi rimova un fanciullo da un precipizio. Mi dovetti dunque contentare di vedere dalla strada le arcate bianche del cortile, non dolendomi però gran fatto, dopo aver visto le gigantesche moschee di Costantinopoli, d’essere escluso da quelle di Tangeri, prive d’ogni aspetto monumentale, fatta eccezione dei minareti. Ma nè anco i loro minareti, — grosse torri quadrate od esagone, rivestite di mosaici di molti colori, e sormontate da una torricina a tetto piramidale, — valgono i minareti bianchi e leggerissimi che si alzano al cielo come smisurate antenne d’avorio dalla sommità delle colline di Stambul. Mentre stavo là guardando nel cortile, una donna, di dietro alla fontana delle abluzioni, mi fece un atto colla mano. Potrei lasciar credere che fosse un bacio; ma era un pugno.

Son salito alla Casba, o castello, posto sopra una collina che domina Tangeri. È un gruppo di piccoli edifici circondati di vecchie mura, dove stanno le autorità, i soldati e i prigionieri. Non ci trovai che due sentinelle assonnate, sedute davanti a una porta, in fondo a una piazzetta deserta, e qualche mendicante disteso in terra, saettato dal sole e divorato dalle mosche. Di lassù si abbraccia collo sguardo tutta Tangeri, che si stende ai piedi delle mura della Casba e risale su per un’altra collina. L’occhio rifugge quasi da tutta quella bianchezza purissima, macchiata soltanto qua e là dal verde di qualche fico imprigionato fra muro e muro. Si vedono i terrazzi di tutte le case, i minareti delle moschee, le bandiere delle Legazioni, i merli delle mura, la spiaggia solitaria, la baia deserta, i monti della costa, uno spettacolo vasto, silenzioso e splendido, che rasserenerebbe la più cupa nostalgia. Mentre stavo contemplando mi riscosse una voce acuta e tremula, d’un’intonazione strana, che veniva dall’alto. Mi voltai, e solamente dopo aver un po’ cercato, scopersi sulla cima del minareto d’una moschea della Casba una piccola macchia nera, il muezzin, che invita i fedeli alla preghiera lanciando ai quattro venti il nome di Allà e di Maometto. Poi tornò a regnare tutt’intorno il silenzio malinconico del mezzogiorno.

Farsi cambiare il danaro, in questo paese, è una calamità. Ho dato una lira francese al tabaccaio perchè mi rendesse dieci soldi. Questo moro feroce aprì una cassetta e cominciò a pigliare e a buttar sul banco manate di monetaccie nere e sformate, finchè ce ne fu un mucchio da farne il carico ordinario d’un facchino, diede una contata alla lesta e stette ad aspettare che me le intascassi. — Scusate — gli dissi, cercando di ripigliar la mia lira; — non sono abbastanza robusto da poter comprare nella vostra bottega. — Poi m’accomodai pigliando altri sigari e portando via una tascata soltanto di quel tritume di danaro per farmi spiegare che cosa fosse. È una moneta chiamata flu, di rame, la cui unità val meno d’un centesimo e va ancora scemando ogni giorno di valore, perchè il Marocco n’è inondato, ed è inutile aggiungere a qual fine l’abbia profusa e la profonda il Governo, quando si dica che il Governo paga con questa moneta e non riceve che oro ed argento. Ma ogni male ha il suo bene, e questi flù, questo flagello del commercio, hanno la inestimabile virtù di preservare i marocchini da molti malanni, e in specie dalla jettatura, in grazia del così detto anello di Salomone, una stella di sei punte che v’è impressa da una parte; immagine dell’anello vero chiuso nella tomba del gran Re, il quale governava con esso i buoni e i cattivi genii.

Non v’è che un luogo dove passeggiare, ed è la spiaggia che si stende dalla città verso il capo Malabat, una spiaggia sparsa di conchiglie e di vegetali rigettati dal mare, e coperta in varii punti da larghe distese d’acqua, difficili a guadarsi durante l’alta marea. Questi sono i Campi Elisi o le Cascine di Tangeri. L’ora della passeggiata è la sera, verso il tramonto. A quell’ora vi sarà una cinquantina d’Europei che passeggiano a coppie o a gruppi, a qualche centinaio di passi gli uni dagli altri, in modo che dalle mura della città si riconoscono uno per uno alla distanza d’un miglio. Viene innanzi una signora inglese a cavallo, accompagnata da una guida; più in là, due mori della campagna; dopo i mori, il Console di Spagna colla sua signora; poi un Santo; poi una cameriera francese con due bimbi; poi uno stormo di campagnuole arabe che passano un’acqua, scoprendo le ginocchia e nascondendosi il viso, e più lontano, a intervalli, un cappello a staio, un cappuccio bianco, un chignon, fino all’ultimo che dev’essere il Segretario della Legazione di Portogallo coi calzoni chiari che gli hanno portato ieri da Gibilterra; perchè in questa piccola colonia europea tutti sanno tutto di tutti. Se non fosse irriverente il paragone, direi che mi pare una passeggiata di condannati a domicilio coatto, o di viaggiatori tenuti in ostaggio dai pirati d’un’isola selvaggia, che aspettino l’arrivo d’un bastimento col denaro del riscatto.


È assai più facile raccapezzarsi nell’immensità di Londra che in mezzo a questo pugno di case che starebbero tutte in un canto dell’Hayd-Park. Tutti questi vicoletti, cantucci, crocicchi, dove appena si può passare, si somigliano fra loro come le cellule d’un’arnia, e non è che un’attentissima osservazione dei più minuti particolari che possa far distinguere un luogo da un altro. Finora, appena uscito dalla piazza e dalla strada principale, mi smarrisco. In pieno giorno, in uno di questi corridoi silenziosi, due arabi potrebbero legarmi, imbavagliarmi e farmi sparire per sempre dalla faccia della terra senza che nessuno vedesse e sentisse nulla. Eppure un cristiano può girare solo per questo labirinto, in mezzo a questi barbari, di giorno e di notte, con maggior sicurezza che in qualunque nostra città. Qualche asta di bandiera europea, ritta sopra un terrazzo come l’indice minaccioso di una mano nascosta, basta a ottenere quello che non ottiene fra noi una legione d’armati. Che differenza di civiltà tra Londra e Tangeri! Ma ogni città ha i suoi vantaggi. Là vi sono i grandi palazzi e le strade ferrate sotterranee; qui si può attraversar la folla col soprabito sbottonato.


Non c’è in tutta Tangeri nè un carro nè una carrozza; non si sente strepito d’officine nè suono di campane nè grida di venditori; non si vede nessun movimento affrettato nè di cose nè di persone; gli stessi Europei, per non saper dove battere il capo, restano per ore immobili in mezzo alla piazza; tutto riposa e invita al riposo. Io stesso, che son qui da pochi giorni, comincio a sentir l’influsso di questa vita molle e sonnolenta. Arrivato al Soc di Barra, mi sento irresistibilmente risospinto verso casa; lette dieci pagine d’un libro, il libro mi sfugge di mano; una volta abbandonata la testa sulla spalliera della poltrona, ho bisogno di riepilogarmi almeno un paio di capitoli dello Smiles, per riescire a risollevarla; e il solo pensiero del lavoro e delle cure che m’aspettano a casa, mi stanca. Questo cielo sempre azzurro e questa città tutta bianca sono un’immagine della pace inalterata e monotona che diventa a poco a poco, in chi abita questo paese, il supremo desiderio della vita. Ed ecco la cagione per cui interrompo qui le mie note. La mollezza affricana m’ha vinto.....


Tra la molta gente che ronzava intorno alla porta della Legazione v’era un moro elegante, che fin dal primo giorno m’aveva dato nell’occhio; uno dei più bei giovani che io abbia visto nel Marocco; alto e snello, con due occhi neri e melanconici, e un sorriso dolcissimo; una figura da sultano innamorato, che Danas, lo spirito maligno delle Mille e una notte, avrebbe potuto mettere accanto alla principessa Badura, in vece del principe Camaralzaman, sicuro che non si sarebbe lamentata del cambio. Si chiamava Maometto, aveva diciotto anni ed era figliuolo d’un moro agiato di Tangeri, protetto dalla Legazione d’Italia, un grosso ed onesto mussulmano, che da qualche tempo, essendo minacciato di morte da un suo nemico, veniva quasi ogni giorno, colla faccia spaurita, a chieder aiuto al Ministro. Questo Maometto parlava un poco spagnuolo, alla moresca, con tutti i verbi all’infinito, e così aveva potuto stringere amicizia coi miei compagni. Era sposo da pochi giorni. L’aveva fatto sposare suo padre, perchè mettesse giudizio, e gli aveva dato una ragazza di quindici anni, bella come lui. Ma il matrimonio non l’aveva molto cangiato. Egli era rimasto, come dicevamo noi, un moro dell’avvenire, il che consisteva nel bere, di nascosto, qualche bicchiere di vino, fumare qualche sigaro, annoiarsi a Tangeri, bazzicare cogli Europei e almanaccare un viaggio in Spagna. In quei giorni però, quello che ce lo tirava intorno, era il desiderio d’ottenere, per mezzo nostro, il permesso d’unirsi alla carovana, e andare così a veder Fez, la grande metropoli, la sua Roma, il sogno della sua infanzia; e a questo fine ci prodigava inchini, sorrisi e strette di mano, con una espansione e una grazia che avrebbe sedotto tutto l’arem dell’Imperatore. Come quasi tutti gli altri giovani mori della sua condizione, ammazzava il tempo trascinandosi di strada in strada, di crocchio in crocchio, a parlare del nuovo cavallo d’un ministro, della partenza dell’amico per Gibilterra, d’un bastimento arrivato, d’un furto commesso, di pettegolezzi da donne; o rimanendo molte ore immobile e taciturno in un angolo della piazzetta del mercato, colla testa chi sa dove. A questo bellissimo ozioso si lega il ricordo della prima casa moresca in cui misi il piede, e del primo pranzo arabo a cui arrischiai il palato. Un giorno suo padre ci invitò a desinare. Era un desiderio che avevamo da molto tempo. Una sera tardi, guidati da un interprete e accompagnati da quattro servi della Legazione, s’arrivò, per alcune stradette oscure, a una porta arabescata, che s’aperse, come per incanto, al nostro avvicinarsi; e attraversata una stanzina bianca e nuda, ci trovammo nel cuore della casa. La prima cosa che ci colpì fu una gran confusione di gente, una luce strana, una pompa meravigliosa di colori. Ci vennero incontro il padrone di casa, il figliuolo e i parenti coronati di gran turbanti bianchi; dietro di loro, c’erano i servi incappucciati; più in là, negli angoli oscuri, dietro gli spigoli delle porte, faccie attonite di donne e di bambini; e malgrado tanta gente, un silenzio profondo. Credevo d’essere in una sala: alzai gli occhi, e vidi le stelle. Eravamo nel cortile. Quella, come tutte le altre case moresche, era un piccolo edifizio quadrato, con un cortiletto nel mezzo, su due lati del quale si aprivano due stanze alte e lunghe, senza finestre, con una sola gran porta arcata, chiusa da una cortina. I muri esterni erano bianchi come la neve, gli archi delle porte, dentellati, i pavimenti a mosaico; qua e là una finestrina binata e una nicchietta per le pantofole. La casa era stata addobbata. I pavimenti coperti di tappeti; accanto alle porte dei grandi candellieri, con candele rosse, gialle e verdi; sui tavolini, specchi e mazzi di fiori. Ma l’effetto di tutte queste cose, in sè medesime punto strane, era stranissimo. C’era un po’ della decorazione d’una chiesa, e insieme un’aria di teatrino, di sala da ballo, di reggia posticcia; ma piena di gentilezza e di grazia; e nella distribuzion della luce e nella combinazione dei colori, un effetto novo, un significato profondo, una corrispondenza meravigliosa con tutto ciò che noi avevamo sempre pensato e sentito, confusamente, di quel popolo; come se quella fosse la luce, per così dire, e il colorito della sua filosofia e della sua religione, e vedendo l’interno di quella casa, vedessimo per la prima volta dentro all’anima della razza. Si spese qualche minuto in inchini e in vigorose strette di mano, e poi fummo invitati a vedere la camera degli sposi. Io cercai inutilmente, con una curiosità da sfacciato europeo, gli occhi di Maometto: egli aveva già chinato la testa e nascosto il rossore sotto il turbante. La camera nuziale era una sala alta, lunga e stretta, colla porta sul cortile. Da una parte, in fondo, vi era il letto della sposa; dalla parte opposta quello di Maometto; tutti e due decorati di ricche stoffe, di un colore rosso carico, con sopra una trina; il pavimento coperto di grossi tappeti di Rabat; le pareti, d’arazzi gialli e rossi; e fra i due letti, il vestiario della sposa appeso al muro: busti, gonnelline, calzoncini, vestitini di taglio sconosciuto, di tutti i colori d’un giardino fiorito, di lana di seta e di velluto, gallonati e stelleggiati d’oro e d’argento; tutto il corredo d’una bambola da principessina; una vista da far girar la testa a un coreografo e morir d’invidia una mima. Di là passammo nella stanza da pranzo. Anche qui tappeti, arazzi, mazzi di fiori, grandi candellieri posati sul pavimento, materassine e guanciali di cento colori stesi a pie’ dei muri, e due letti addobbati con gran pompa, poichè era la camera nuziale del padrone. Vicino a uno dei letti era apparecchiata la tavola, contro l’uso degli arabi, che mettono i piatti in terra, e mangiano senza posate; e vi scintillava su, a dispetto del Profeta, una corona di vecchie bottiglie, incaricate di rammentarci, in mezzo alle voluttà del banchetto moresco, che eravamo cristiani. Prima di metterci a tavola, ci sedemmo, a gambe incrociate, sopra i tappeti, intorno al segretario del padrone di casa, un bel moro in turbante, il quale preparò il tè sotto i nostri occhi e ce ne fece pigliare, secondo l’uso, tre tazze per uno, spropositatamente inzuccherate, e profumate di menta; e tra una tazza e l’altra accarezzammo il codino e la testina rasata d’un bel bambino di quattr’anni, ultimo fratello di Maometto, il quale contava furtivamente le dita delle nostre mani per assicurarsi ch’eran cinque come quelle di tutti i maomettani. Preso il tè, sedemmo a tavola. Il padrone, pregato, sedette anche lui, per tenerci compagnia, e cominciarono a sfilare i piatti arabi, oggetto della nostra vivissima curiosità. Io assaggiai il primo con grande fiducia.... Eterno Iddio! Il mio primo pensiero fu di precipitarmi sul cuoco. Tutte le contrazioni che si possono produrre sul viso d’un uomo all’assalto improvviso d’una colica, o alla notizia del fallimento del suo banchiere, io credo che si sian prodotte sul mio. Capii sul momento come una gente che mangiava a quel modo dovesse credere in un altro Dio e pigliare in un altro senso la vita umana. Non saprei esprimere quello ch’io sentii nella bocca fuorchè paragonandomi a un disgraziato costretto a far colazione coi vasetti d’un parrucchiere. Eran sapori di pomate, di cerette, di saponi, d’unguenti, di tinture, di cosmetici, di tutto ciò che si può immaginare di meno proprio a passare per una bocca umana. A ogni piatto ci scambiavamo degli sguardi di meraviglia e di terrore. La materia prima doveva esser buona: era pollame, montone, caccia, pesce; piatti enormi e di bella cera; ma tutto nuotante in salse abbominevoli, tutto unto, profumato, impomatato, tutto cucinato in maniera da parer più naturale di metterci dentro il pettine che la forchetta. Pure bisognava mandar giù qualcosa, ed io mi confortavo al sacrifizio ripetendo quei versi dell’Aleardi:


                                     Oh nella vita
    Qualche delitto incognito ne pesa!
    Qualche cosa si espia!


La sola cosa mangiabile era il montone allo spiedo. Nemmeno il cuscussu, il piatto nazionale dei mori, fatto con grano tritato della grossezza della semola, cotto a vapore e condito con latte o brodo, — perfido simulacro di risotto — , nemmeno questo famoso cuscussu, che piace a molti europei, mi è riuscito d’inghiottirlo senza cangiar colore. E ci fu qualcuno di noi che, per punto, mangiò di tutto! cosa consolante la quale dimostra che in Italia ci sono ancora dei grandi caratteri. A ogni boccone, il nostro ospite c’interrogava umilmente collo sguardo, e noi, stralunando gli occhi, rispondevamo in coro: — Eccellente! Squisito! — e buttavamo giù subito un bicchier di vino per ravvivarci gli spiriti. A un certo punto, scoppiò nel cortiletto una musica bizzarra che ci fece balzar tutti in piedi. Erano tre sonatori, venuti, come vuole il costume moresco, a rallegrare il banchetto: tre arabi dai grandi occhi e dal naso forcuto, vestiti di bianco e di rosso, uno colla tiorba, l’altro col mandolino, il terzo col tamburello; tutti e tre seduti fuori della porta della nostra stanza, vicino a una nicchietta dove avevano deposto le pantofole. Tornammo a sedere e i piatti ricominciarono a sfilare (ventitrè, comprese le frutta, se ben mi ricordo) e i nostri volti a contorcersi e i turaccioli a saltare in aria. A poco a poco le libazioni, l’odore dei fiori, il fumo dell’aloé che ardeva nei profumieri cesellati di Fez, e quella bizzarra musica araba, che a furia di ripetere il suo lamento misterioso, s’impadronisce dell’anima con una simpatia irresistibile; ci diedero per qualche momento una specie di ebbrezza taciturna e fantastica, durante la quale ognuno di noi credette di sentirsi il turbante sul capo e la testa d’una sultana sul cuore. Finito il pranzo, tutti si alzarono e si sparpagliarono per la sala, per il cortile, per il vestibolo, a guardare e a fiutare da ogni parte con una curiosità infantile. In ogni angolo oscuro si rizzava, come una statua, un arabo ravvolto nella sua cappa bianca. La porta della camera nuziale era stata chiusa colle cortine, e per lo spiraglio si vedeva un gran movimento di teste bendate. Alle finestrine superiori apparivano e sparivano dei lumi. Si sentivano fruscii e voci di gente nascosta. Intorno e sopra di noi ferveva una vita invisibile, la quale ci avvertiva che eravamo dentro le mura, ma fuori della casa; che la bellezza, l’amore, l’anima della famiglia s’era rifugiata nei suoi penetrali; che lo spettacolo eravamo noi e che la casa rimaneva un mistero. A una cert’ora uscì da una porticina la governante del Ministro, ch’era stata a veder la sposa, e passando per andarsene, esclamò: — Ah! se vedessero, che bottone di rosa! Che creatura di paradiso! — E intanto la musica continuava a suonare, e l’aloé continuava ad ardere, e noi seguitavamo a girare e a fiutare, e la fantasia lavorava, lavorava. E lavorava ancora, e più che mai, quando usciti da quell’aria piena di luce e di profumi, infilammo una viuzza solitaria e tenebrosa, al lume d’una lanterna, in mezzo a un silenzio profondo.


Una sera si sparse la notizia, da molto tempo aspettata, che il giorno dopo sarebbero entrati in città gli Aïssaua.

Gli Aïssaua sono una delle principali confraternite religiose del Marocco, fondata, come le altre, per ispirazione di Dio, da un Santo chiamato Sidì-Mohammed-ben-Aïssa, nato a Mechinez due secoli sono; la vita del quale è una lunga e confusa leggenda di miracoli e d’avventure favolose, variamente raccontata. Gli Aïssaua si propongono di ottenere dal cielo una protezione speciale, pregando continuamente, esercitando certe pratiche loro proprie, tenendo vivo nel loro cuore, piuttosto che il sentimento della fede, un’esaltazione, una febbre religiosa, un furore divino, che prorompe in manifestazioni stravaganti e feroci. Hanno una grande moschea a Fez, che è come la casa centrale dell’ordine, e di qui si spandono ogni anno a turbe, in tutte le province dell’impero, dove raccolgono intorno a sè, per celebrare le loro feste, i confratelli sparsi per le città e per le campagne. Il loro rito, simile a quello dei dervis urlanti e giranti dell’Oriente, consiste in una specie di danza sfrenata accompagnata da salti, scontorcimenti e grida, nella quale vanno via via infuriando e inferocendosi finchè, perduto ogni lume, stritolano legno e ferro coi denti, si brucian le carni con carboni accesi, si straziano coi coltelli, inghiottiscono fango e sassi, sbranano animali e li divoran vivi e grondanti di sangue, e cadono a terra senza forze e senza ragione. A questi eccessi non giunsero gli Aïssaua che io vidi a Tangeri, e credo che ci giungano raramente, e assai pochi, se pure qualcuno vi giunge ancora; ma fecero però abbastanza per lasciarmi nell’animo un’impressione incancellabile.

Il Ministro del Belgio c’invitò ad assistere allo spettacolo dal terrazzo di casa sua, che guarda sulla strada principale di Tangeri, dove sogliono passare gli Aïssaua per andare alla moschea. Dovevano passare alle dieci della mattina, scendendo dalla porta del Soc di Barra. Un’ora prima, la strada era già piena di gente e le case coronate di donne arabe ed ebree, vestite dei loro colori vivissimi, che davano alle terrazze bianche l’aspetto di grandi ceste di fiori. All’ora fissata, tutti gli occhi si voltarono verso la porta, all’estremità della strada, e pochi minuti dopo comparvero i forieri della turba. La strada era tanto affollata, che gli Aïssaua, fin che non furono vicini, rimasero confusi cogli spettatori. Per qualche tempo non vidi che una massa ondeggiante di teste incappucciate, in mezzo alle quali sorgevano, sparivano e ricomparivano alcune teste scoperte, che parevan di gente che si picchiasse. Al di sopra delle teste s’alzavano parecchie bandiere. Di tratto in tratto si udiva un grido simultaneo di molte voci. La folla veniva innanzi lentamente. A poco a poco si cominciò a notare, nel movimento di tutte quelle teste, un cert’ordine. Le prime formavano un circolo; altre, più in là, una doppia schiera; altre più lontane, un altro circolo; poi le prime, alla loro volta, si schieravano, le seconde si disponevano in cerchio, e così via via. Ma non son neanco ben sicuro di quello che dico, perchè in quella gran curiosità che mi affannava di osservare singolarmente le persone, è facile che la legge precisa del movimento comune mi sia sfuggita. In capo a pochi minuti, giunsero i primi sotto il nostro terrazzo. Il mio primo senso fu un misto di compassione e di orrore. Eran due file di uomini, rivolti gli uni in faccia agli altri, vestiti di cappe e di lunghissime camicie bianche, che si tenevano per le mani, per le braccia o per le spalle, e pestavano i piedi in cadenza, dondolandosi, rovesciando il capo avanti e indietro, e levando un mormorio sordo e affannoso, rotto da gemiti, rantoli, soffi e interiezioni di spavento e di rabbia. Solamente gli ossessi del Rubens, i morti risuscitati del Goya e il moribondo magnetizzato del Pöe potrebbero dare un’idea di quelle figure. Eran faccie livide e convulse, cogli occhi fuori dell’orbita e la bocca schiumosa; visi di febbricitanti e di epilettici; alcuni illuminati da sorrisi indefinibili, altri che non mostravano che il bianco dell’occhio, altri contratti come da uno spasimo atroce, o pallidi ed immobili come visi di cadaveri. Di tratto in tratto, facendo gli uni agli altri un gesto strano col braccio spenzoloni, gettavano tutti insieme un grido acuto e doloroso, come di chi riceva una pugnalata mortale; poi andavano alcuni passi innanzi, e ricominciavano la danza, gemendo e sbuffando; e allora si vedeva un ondeggiamento disordinato di cappucci, di grandi maniche, di treccie, di ciuffi, di folte capigliature spartite in lunghe ciocche ondulate, che parevano teste anguicrinite. Alcuni, più spiritati, andavano fra una schiera e l’altra, barcollando come ubbriachi, sbatacchiandosi contro i muri e le porte. Altri, come rapiti in estasi, camminavano ritti, lenti, col viso in alto, gli occhi socchiusi, le braccia abbandonate. Parecchi, sfiniti, che non potevano più nè gridare nè reggersi, eran tenuti su per le ascelle dai compagni, e travolti così, come corpi morti, nella folla. La ridda si faceva di mano in mano più scomposta, e il gridìo più assordante. Erano dondolamenti di testa da lussarsi le vertebre del collo e rantoli da spezzarsi la cassa del petto. Da tutti quei corpi grondanti di sudore, veniva su un puzzo nauseabondo come da un serraglio di fiere. Ogni tanto uno di quei visi stravolti si alzava verso il terrazzo e fissava nei miei due occhi stralunati, che mi facevano torcere indietro la testa. Di momento in momento, dentro di me, cangiava l’effetto di quello spettacolo. Ora mi pareva una gran mascherata, ed ero tentato di riderne; ora ci vedevo l’immagine d’una gran baldoria di pazzi, di malati in delirio, di galeotti ubbriachi, di condannati a morte che volessero stordire il proprio terrore, e mi stringevano il cuore; ora non consideravo che la bellezza selvaggia del quadro, e ci provavo la voluttà d’un artista. Ma a poco a poco, il senso intimo di quel rito, s’impose alla mia mente; il sentimento, che quelle smanie traducevano, e che tutti abbiamo provato molte volte, lo spasimo dell’anima umana che si agita sotto l’immensa pressione dell’Infinito, si risvegliò; e senz’accorgermene, accompagnavo quel turbinìo col linguaggio che lo spiegava: — Sì, ti sento, Potenza misteriosa e tremenda: mi dibatto nella stretta della tua mano invisibile; il sentimento di Te mi opprime, non ho forza di contenerlo, il mio cuore si sgomenta, la mia ragione si perde, il mio involucro di creta si spezza! — E continuavano a passare, fitti, pallidi, scapigliati, mettendo voci supplichevoli, in cui pareva che esalassero la vita. Un vecchio cadente, un’immagine di re Lear forsennato, si staccò dalla schiera e s’avventò come per spaccarsi il cranio nel muro: i compagni lo trattennero. Un giovane cadde di picchio in terra, fuori dei sensi. Un altro, coi capelli sciolti giù per le spalle, la faccia nascosta nelle mani, passò a lunghissimi passi, curvato fino a terra, come un maledetto da Dio. Passarono beduini, mori, berberi, neri, colossi, mummie, satiri, faccie di cannibali, di santi, d’uccelli di rapina, di sfingi, d’idoli indiani, di furie, di fauni, di diavoli. Potevano essere un tre o quattrocento. In meno di mezz’ora sfilarono tutti. Le ultime erano due donne (perchè anche le donne possono appartenere all’ordine), due figure di sepolte vive, riuscite a spezzare la bara, due scheletri animati, vestite di bianco, coi capelli rovesciati sul viso, gli occhi sbarrati, la bocca bianca di schiuma, sfinite di forze, ma ancora animate da un movimento di cui non parevano aver più coscienza, che si scontorcevano, urlavano e stramazzavano; e in mezzo a loro un vecchio gigantesco, una figura di negromante centenario, vestito d’una camicia lunghissima, che allungando due grandi braccia cadaveriche, posava la mano sul capo ora all’una ora all’altra, in atto di protezione, e le aiutava a rialzarsi da terra. Dietro a questi tre spettri si precipitò una folla di arabi armati, di donne, di pezzenti, di bimbi; e tutta quella barbarie, tutto quel furore, tutto quell’orrendo cumulo di miseria umana, irruppe nella piazza e scomparve.

Un altro bello spettacolo, che s’ebbe a Tangeri, fu quello delle feste per la nascita di Maometto; e mi fece un’impressione anche più viva perchè mi ci trovai dinanzi, posso dire, all’impensata.

Tornando da una passeggiata sulla riva del mare, sentii alcuni colpi di fucile dalla parte del Soc di Barra; v’accorsi e sul primo momento non riconobbi più il luogo. Il Soc di Barra era trasfigurato. Dalle mura della città fino alla sommità della collina v’era formicolìo d’arabi, una folla tutta bianca, straordinariamente animata. Saranno state tremila persone, ma sparse e raggruppate in maniera che parevano innumerevoli. Era un’illusione ottica singolarissima. Su tutti i rialti del terreno, come sopra altrettante loggie, v’erano gruppi di arabe sedute all’orientale, immobili, rivolte verso la parte bassa del Soc. Qui, da una parte, la folla divisa in due ali lasciava libero un grande spazio a un drappello di cavalieri che si slanciavano alla carriera, schierati di fronte, sparando i loro fucili lunghissimi; dall’altra parte, v’erano grandi cerchi d’arabi, uomini e donne, in mezzo ai quali davano spettacolo giocatori di palla, tiratori di scherma, incantatori di serpenti, ballerini, cantastorie, suonatori, soldati. Sull’alto della collina, sotto una tenda conica, aperta sul davanti, biancheggiava l’enorme turbante del vice-governatore di Tangeri, il quale presiedeva alla festa, seduto in terra, in mezzo a una corona di mori. Di lassù si vedevano giù in mezzo alla folla i soldati delle Legazioni vestiti dei loro pomposi caffettani rossi, qualche cappello cilindrico, qualche ombrella di consolessa, e i pittori Ussi e Biseo coll’album e la matita in mano; di là dalla folla, Tangeri; di là da Tangeri, il mare. Lo strepito delle fucilate, gli urli dei cavalieri, lo scampanellìo degli acquaioli, le grida festose delle donne, il suono dei pifferi, dei corni, dei tamburi, formavano tutt’insieme un frastuono inaudito, che rendeva più strano ancora quello spettacolo selvaggio, irradiato dalla luce sfolgorante del mezzogiorno.

La curiosità mi spingeva da dieci parti in un punto. Ma un grido d’ammirazione, partito da un gruppo di donne, mi fece correr prima dai cavalieri. Erano dodici soldati di alta statura, col fez a punta, la cappa bianca, i caffettani aranciati, azzurrini e rossi, e fra loro un ragazzo vestito con femminile eleganza, figlio del governatore del Rif. Si schieravano ai piedi delle mura della città, rivolti verso la campagna; il figlio del governatore, nel mezzo, alzava la mano, e si slanciavano tutti insieme alla carriera. Nei primi passi v’era un po’ d’incertezza e un po’ di disordine. Poi quei dodici cavalli, stretti, sfrenati, ventre a terra, non formavano più che un solo corpo, un mostro furioso, di dodici teste e di cento colori, che divorava la via. Allora i cavalieri, inchiodati sulle selle, colla fronte alta, colla cappa al vento, alzavano i fucili sopra la testa, li stringevano con un movimento convulso contro le spalle, sparavano tutti insieme gettando un urlo di trionfo e di rabbia, e sparivano in un nuvolo di polvere e di fumo. Pochi momenti dopo tornavano indietro lentamente, in disordine, i cavalli schiumosi e insanguinati, i cavalieri in atteggiamento stanco e superbo, e in capo ad alcuni minuti ricominciavano. Ad ogni nuova scarica, le donne arabe, come le dame dei tornei, salutavano il drappello con un gridìo loro proprio, che è una ripetizione rapidissima del monosillabo: , simile a un trillo acuto di gioia infantile.

Di là passai al giuoco della palla. Erano una quindicina d’arabi, ragazzi, uomini maturi e vecchi colla barba bianca, alcuni col fucile a tracolla, altri colla sciabola, e giocavano con una palla di cuoio grossa come un arancio. Uno la pigliava, la lasciava cadere e la ributtava in alto con un colpo del piede; tutti gli altri correvano per coglierla in aria; chi la coglieva, rifaceva l’atto del primo; e così il gruppo dei giocatori, seguitando la palla, s’allontanava man mano, e poi, di comune accordo, tornavano tutti insieme nel luogo di dov’eran partiti. Ma il curioso di questo gioco stava nei movimenti delle persone. Erano passi di ballo, gesti misurati, atteggiamenti di mimi, un fare quasi cerimonioso, una certa apparenza di contraddanza, un non so che di severo e di molle insieme, ed una corrispondenza di mosse e di giri, in quell’andare e venire, di cui non mi riuscì di scoprire la legge. Correvano e saltellavano tutti insieme in un piccolo spazio, si serravano, si rimescolavano, e non seguiva mai un urto, nè il più leggero scompiglio. La palla s’alzava, spariva, balzava in mezzo a quelle gambe e al disopra di quelle teste, come se nessuno la toccasse, e fosse rigirata in quella maniera da due venti contrarii. E tutto quel movimento non era accompagnato nè da una parola, nè da un grido, nè da un sorriso. Vecchi e ragazzi, eran tutti egualmente seri, silenziosi e intenti al gioco, come a un lavoro obbligato e triste, e non si sentiva che il suono dei respiri affannosi e il fruscìo delle pantofole.

A pochi passi di là, in mezzo a un altro circolo di spettatori, ballavano dei neri, al suono d’un piffero e d’un piccolo tamburo di forma conica, battuto con un pezzo di legno ritorto a mezzaluna. Erano otto omaccioni, neri e lucidi come l’ebano, senz’altro addosso che una lunga camicia bianchissima, stretta alla cintura da un grosso cordone verde. Sette si tenevano per mano, disposti in cerchio, l’ottavo era in mezzo, e ballavano tutti insieme o piuttosto accompagnavano la musica, senza quasi cangiar di posto, con un movimento di fianchi da non descriversi, che mi metteva un forte prurito nelle punte dei piedi, e quel sorriso di satiri, quell’espressione di beatitudine stupida e di voluttà bestiale, che è tutta propria della razza nera. Mentre stavo guardando questa scena, due ragazzi di una decina d’anni ciascuno, ch’erano fra gli spettatori, mi diedero un saggio della ferocia del sangue arabo, che non dimenticherò per un pezzo. Improvvisamente, non so per che ragione, si saltarono addosso, si avviticchiarono l’uno all’altro come due tigri, e cominciarono a lacerarsi il viso e il collo a morsi e a unghiate con una furia che metteva orrore. Due uomini robusti, usando di tutta la loro forza, li separarono a stento, già sgocciolanti di sangue, e dovettero trattenerli ancora perchè non tornassero ad avvinghiarsi.

Gli schermitori facevan ridere. Eran quattro, e tiravano di bastone a due a due. Non si può dire la stravaganza e la goffaggine di quella scuola; e la chiamo scuola perchè in altre città del Marocco vidi poi che tiravano nella stessa maniera. Eran mosse da funamboli, salti senza scopo, contorsioni, sgambettate, e colpi annunziati un minuto prima con un gran giro del braccio; ogni cosa fatta con una flemma beata, che avrebbe dato modo a un nostro tiratore di addossare a tutti quattro un prodigioso carico di legnate senza pericolo di toccarne una sola. Gli arabi spettatori, però, stavano là a bocca aperta, e molti di tratto in tratto mi guardavano, come per cercare nei miei occhi l’espressione della meraviglia. Io volli contentarli e finsi un’ammirazione benevola. Allora qualcuno si scansò perchè potessi spingermi un po’ più avanti, ed io mi trovai circondato, stretto da ogni parte dagli arabi, e potei soddisfare il mio desiderio di studiare un po’ quella gente nel suo odore, nei movimenti appena percettibili delle narici, delle labbra e delle palpebre, nei segni della pelle, in tutto ciò che sfugge all’osservatore che passa, e serve nonostante a far capir molte cose. Un soldato della Legazione italiana mi vide da lontano in quella stretta, e credendo che fossi prigioniero involontario, venne a liberarmi, mio malgrado, a suon di gomitate e di pugni.

Il cerchio del contastorie era il più piccolo, ma il più bello. Ci arrivai giusto nel momento in cui, avendo terminato la solita preghiera inaugurale, cominciava il racconto. Era un uomo d’una cinquantina d’anni, quasi nero, con una barba nerissima e due grandi occhi scintillanti, ravvolto, come tutti gli altri raccontatori del Marocco, in un amplissimo panno bianco stretto intorno al capo da una corda di pelo di cammello, che gli dava la maestà d’un sacerdote antico. Parlava a voce alta e lenta, ritto in mezzo al circolo degli uditori, accompagnato sommessamente da due suonatori di chiarina e di tamburo. Raccontava forse una storia d’amore, le avventure d’un bandito famoso, le vicende d’un sultano. Io non ne capivo una parola. Ma il suo gesto era così giusto, la voce così espressiva, il volto così parlante che un barlume del senso, in qualche momento, mi traspariva. Mi parve che raccontasse un lungo viaggio; imitava il passo del cavallo stanco; accennava a orizzonti immensi; cercava intorno a sè una goccia d’acqua, lasciava spenzolare le braccia e la testa come un uomo spossato. Poi, a un tratto, scopriva qualcosa lontano dinanzi a sè, pareva incerto, credeva e non credeva ai suoi occhi, — ci credeva, — si rianimava, affrettava il passo, arrivava, ringraziava il cielo e si buttava in terra tirando un gran respiro e ridendo di piacere all’ombra d’un’oasi deliziosa che non sperava più di trovare. Gli uditori stavano là immobili, senza rifiatare, riflettendo coll’espressione del viso tutte le parole dell’oratore; e così com’erano in quel punto, con tutta l’anima negli occhi, lasciavano vedere chiaramente l’ingenuità e la freschezza di sentimento, che celano sotto l’apparenza d’una durezza selvaggia. Il contastorie andava a destra e a sinistra, s’avventava, retrocedeva atterrito, si copriva il viso colle mani, alzava le braccia al cielo, e via via che s’infervorava e levava la voce, i suonatori soffiavano e picchiavano con maggior furia, gli ascoltatori gli si stringevano intorno più ansiosi, finchè il racconto finì in un grido tonante, gli strumenti saltarono per aria e la folla commossa si disperse per cedere il posto ad un altro uditorio.

Tre suonatori tenevano intorno a sè un altro cerchio più grande di tutti gli altri. Le figure, i movimenti e la musica di costoro mi fecero una singolare impressione. Erano tutti e tre strambi, di statura altissima e curvi dai piedi alla testa come le figurine grottesche che rappresentano la ci maiuscola nei titoli di certi giornali illustrati. Uno sonava il piffero, l’altro un tamburello a sonagli, il terzo uno strumento stravagante, una specie di clarinetto, mi parve, combinato, non so come, con due corni da caccia divergenti, che mandavano un suono non mai sentito. Questi tre sonatori, ravvolti in pochi cenci, stavano stretti l’un all’altro, di fianco, come se fossero legati, e sonando continuamente e disperatamente il medesimo motivo, l’unico forse che sonavano da cinquant’anni, facevano il giro dell’arena. Io non so dire come si movessero. Era un non so che tra l’andatura e il ballo, certi scatti come della gallina che becca, certi stringimenti di spalle, fatti da tutti e tre con una simultaneità macchinale, e così lontani da una qualunque somiglianza coi movimenti nostri, così nuovi, così bizzarri, che più li osservavo, e più mi davan da pensare, come se esprimessero una idea, o avessero la loro ragione in qualche proprietà caratteristica del popolo arabo, e ci penso ancora sovente. Quei disgraziati, grondanti di sudore, sonavano e ballonzolavano da più di un’ora, con una serietà inalterabile, e qualche centinaio di persone li stavano a sentire, pigiate e immobili, col sole negli occhi, senza dar segno nè di piacere nè di noia.

Il circolo dove si faceva più strepito era quello dei soldati. Erano dodici, tra giovani e vecchi, alcuni col caffettano bianco, altri colla sola camicia, questo col fez, quello col cappuccio, armati di fucili a pietra focaia, lunghi come lancie, nei quali introducevan la polvere sciolta, come fanno tutti i soldati nel Marocco, dove non s’usano cartuccie. Un graduato, vecchio, dirigeva lo spettacolo. Si mettevan sei da una parte e sei dall’altra, di faccia. A un segnale, cangiavano vicendevolmente di posto, correndo, e appoggiavano un ginocchio a terra. Allora uno di essi cantava non so che cosa, con un’acutissima voce in falsetto, tutt’a trilli e a gorgheggi, che durava parecchi minuti, ascoltato con un silenzio profondo. Poi, a un tratto, balzavano tutti in piedi, in circolo, e spiccando un altissimo salto, gettando un grido di gioia, rovesciavano il fucile e sparavano contro terra. Non si può immaginare la rapidità, la furia, e quello che aveva di pazzamente festoso e di diabolicamente simpatico quella ridda tonante e lampeggiante, intraveduta in mezzo a un nuvolo di polvere saettato dal sole. Fra gli spettatori, a pochi passi da me, v’era un’arabina di dieci o dodici anni, non ancora velata, uno dei più bei visetti ch’io abbia visto a Tangeri, d’un bruno pallido delicatissimo, la quale contemplava coi suoi begli occhioni celesti pieni di stupore uno spettacolo assai più meraviglioso per lei che la danza dei soldati: quello che le offrivo io levandomi i guanti; questa seconda pelle delle mani, come dicono i ragazzi arabi, che i cristiani si mettono e si tolgono a loro piacere, senza risentirne il menomo dolore.

Esitai se dovessi andare o no a vedere l’incantatore dei serpenti; ma la curiosità vinse il ribrezzo. Questi così detti incantatori appartengono alla confraternita degli Aissaua e dicono di ricevere dal loro patrono Ben-Aïssa il privilegio di poter sfidare senza pericolo la morsicatura di qualunque animale più velenoso. Molti viaggiatori, infatti, degni di pienissima fede, assicurano d’aver visto parecchi di costoro farsi morsicare a sangue, senz’effetto venefico, da serpenti di cui un momento dopo venne esperimentato il veleno potentissimo sopra altri animali; e dicono di non essere riusciti a scoprire di che mezzo si valessero quei destri ciarlatani per rendere innocua la morsicatura. L’Aissaua che io vidi, dava uno spettacolo orribile, ma incruento. Era un arabo piccolo, tarchiato, col viso smorto, una faccia di giustiziere, chiomato come un re merovingio e vestito d’una specie di camicia azzurrina che gli scendeva fino ai piedi. Quando m’avvicinai, saltellava grottescamente intorno a una pelle di capra distesa in terra, dalla quale usciva la bocca d’un sacco, dov’erano chiusi i serpenti; e saltellando cantava, accompagnato da un flauto, una canzone di motivo malinconico, che doveva essere una invocazione al suo Santo. Finito il canto, chiacchierò e gesticolò lungo tempo per farsi buttar dei denari, poi s’inginocchiò davanti alla pelle di capra, ficcò la mano nel sacco, ne tirò fuori, con molti riguardi, un lungo serpente verdognolo, pieno di vita, e lo portò in giro sotto gli occhi degli spettatori. Poi cominciò a maneggiarlo in tutti i modi, come se fosse stato un pezzo di corda. Lo afferrò per il collo, lo tenne sospeso per la coda, se lo attorcigliò intorno alla fronte, se lo nascose nel petto, lo fece passare per i fori del cerchio di un tamburello, lo buttò in terra, lo trattenne col piede, se lo strinse sotto un’ascella. L’orribile bestia rizzava la testa schiacciata, dardeggiava la lingua, si scontorceva con quei suoi movimenti flessuosi, odiosi, abbietti, che sembrano l’espressione d’una vigliacca perfidia; e schizzava dagli occhi piccolissimi tutta la rabbia che gli fremeva nel corpo; ma non m’accorsi che mordesse mai la mano in cui era imprigionato. Quando fu stanco di quel lavoro, l’Aissaua strinse il serpente per la nuca, gli aggiustò un piccolo ferro nella bocca in modo da fargliela rimanere aperta, e lo mostrò così agli spettatori più vicini, perchè osservassero i denti; osservazione affatto superflua, se pure la sostanza venefica rimaneva, perchè non v’era stata morsicatura. Dopo ciò afferrò il serpente con due mani, si mise la coda in bocca e cominciò a menar le mandibole: la bestia si scontorceva furiosamente; io me n’andai inorridito.

In quel momento comparve nel Soc il nostro Incaricato d’affari. Lo vide dall’alto della collina il vice-governatore, gli corse incontro, e lo condusse sotto la sua tenda, dove si radunarono tutti i membri della futura carovana, io compreso. Allora accorsero suonatori e soldati, si formò un grandissimo semicerchio di arabi davanti all’apertura della tenda, gli uomini dinanzi, il sesso gentile, a gruppi, di dietro; e cominciò un concerto indiavolato di danze, di canti, di grida, di fucilate, che durò più di un’ora, in mezzo a un denso nuvolo di fumo, al suono d’una musica spietata, fra gli strilli entusiastici delle donne e dei bambini, con paterna soddisfazione del vice-governatore e nostro vivo piacere. Prima che finissero, l’Incaricato d’affari mise qualchecosa di giallo nelle mani d’un soldato arabo, perchè lo portasse a chi aveva diretto lo spettacolo. Il soldato tornò poco dopo e riferì, tradotto in spagnuolo, il curioso ringraziamento del beneficato: — L’ambasciatore d’Italia ha fatto una buona azione; Allà benedica tutti i peli della sua barba!

La festa durò fino al tramonto. Strana festa! Tre venditori d’acqua pura bastavano a soddisfare i bisogni di tutta quella folla immobile per una mezza giornata sotto i raggi del sole d’Affrica. Un marengo era forse il massimo del denaro messo in giro da quello straordinario concorso di gente. I soli piaceri erano vedere ed udire. Non uno scandalo amoroso, nè un ubbriaco, nè una coltellata! Nulla di comune colle feste popolari dei paesi civili.


Oltre a godere di tutti questi spettacoli, facevamo, io e i miei futuri compagni di viaggio, delle frequenti passeggiate nella campagna di Tangeri, che non è meno curiosa a vedersi che la città. Intorno alle mura si stende una cintura di giardini e di orti appartenenti la maggior parte ai ministri e ai consoli, quasi tutti trasandati; ma coperti d’una vegetazione meravigliosa. Sono lunghe file di aloè, simili a lancie gigantesche confitte in mezzo a un fascio di enormi daghe ricurve, poichè tale è la forma delle loro foglie; la punta delle quali è usata dagli arabi, colla fibra della foglia medesima, a cucire le ferite. Sono fichi d’India, kermus del Inde, come si chiamano in lingua moresca, altissimi, di foglie spesse un pollice, che sporgono sui sentieri fin quasi a impedire il passo; fichi comuni, all’ombra dei quali si potrebbero rizzare dieci tende; quercie, acacie, leandri, arbusti d’ogni forma, che intrecciano i loro rami coi rami degli alberi più alti, e formano coll’edera, le viti, le canne, le siepi, degli ammassi inestricabili di verzura, sotto i quali spariscono fossi e sentieri. In molti luoghi bisogna camminare a tentoni. Si passa da un podere all’altro a traverso le siepi sforacchiate o sopra le cancellate abbattute, in mezzo all’erbe e ai fiori che s’alzano fino alla cintura d’un uomo; e non si vede nessuno. Qualche casetta bianca, mezzo nascosta fra gli alberi, e qualche pozzo a ruota, dal quale, per mezzo di canaletti incrociati, si spande l’acqua per le terre, sono le sole cose che diano indizio di proprietà e di lavoro. Molte volte, se non fosse stato con me il capitano dello stato maggiore, che è una guida abilissima, mi sarei smarrito in mezzo a quella vegetazione scompigliata; e infatti ci occorreva spesso di chiamarci l’un l’altro, come in un labirinto, per non perderci di vista, e godevamo a tuffarci, a nuotare in quell’immenso verde, ad aprirci la via colle mani, coi piedi e colla testa, coll’allegra furia di selvaggi tornati dalla schiavitù alle loro foreste.

Di là da questa cintura di orti e di giardini, non si trovano più nè alberi, nè case, nè siepi, nè alcun indizio di divisione della campagna. Sono colline, vallette verdi e piani ondulati dove pascola qualche raro armento, di cui non si vede il guardiano, e galoppa qualche cavallo sciolto. Una volta sola mi ricordo d’aver visto lavorare la terra. Un arabo stimolava un asino e una capra attaccati a un aratro piccolissimo, di forma bizzarra, costrutto forse come s’usavano quattromil’anni fa; il quale scavava un solco appena visibile in un terreno sparso di sassi e d’erbaccie. Qualcuno mi assicurò d’aver visto più d’una volta attaccato all’aratro un asino e una donna, e questo può dare un’idea dello stato dell’agricoltura nel Marocco. Il solo concime col quale governan la terra è la cenere della paglia che bruciano dopo il raccolto; e la sola cura usata per non stancarne la fecondità è di lasciarvi crescere l’erba per i pascoli il terz’anno, dopo avervi seminato grano e saggina nei primi due. Malgrado questo, la terra s’impoverisce dopo pochi raccolti, e allora i campagnuoli erranti vanno a dissodare nuovi terreni, che abbandonano poi alla loro volta per ritornare agli antichi; e così non è mai coltivata simultaneamente che una piccolissima parte delle terre arabili; di quelle terre che, anche mal coltivate, riportano cento volte la semenza che vi si sparge.

La più bella passeggiata fu quella al capo Spartel, l’Ampelusium degli antichi, che forma l’estremità nord-ovest del continente africano: un monte di pietra bigia, alto trecento metri, tagliato a picco sul mare, e aperto sotto, sin da tempi antichi, in vaste caverne, la maggiore delle quali era consacrata ad Ercole: specus Herculi sacer. Sulla sommità di questo monte si alza il faro famoso, eretto da pochi anni, e mantenuto con una espressa contribuzione dalla maggior parte degli Stati d’Europa. Salimmo sulla cima della torre, fin dentro alla grande lanterna, che manda il suo all’erta luminoso alla distanza di venticinque miglia. Di lassù l’occhio spazia su due mari e due continenti. Si vedono le ultime acque del Mediterraneo, e l’immenso orizzonte dell’Atlantico, il mare delle tenebre, Bar-ed-Dolma, come lo chiamano gli arabi, che flagella i piedi della roccia. Si vede la costa spagnuola dal capo Trafalgar fino al capo d’Algesira; la costa africana del Mediterraneo fino alle montagne di Ceuta, i septem fratres dei Romani; e lontano, vagamente, lo scoglio enorme di Gibilterra, la sentinella eterna di questa porta del vecchio continente, termine misterioso del mondo antico, diventato Favola vile ai naviganti industri.

In queste passeggiate non incontravamo che pochissima gente: per lo più arabi a piedi, che ci passavano accanto senza quasi guardarci, e qualchevolta un moro a cavallo, che doveva essere un personaggio importante o per denaro o per carica, accompagnato da un drappello di servi armati, il quale, passando, ci lanciava uno sguardo sprezzante. Le donne s’imbacuccavano con maggior cura che in città, alcune brontolando, altre voltandoci bruscamente le spalle. Qualche arabo, invece, ci si fermava dinanzi, ci guardava fisso, mormorava alcune parole quasi in tuono di chi domanda un favore e poi tirava innanzi senza voltarsi. Da principio non capivamo che cosa volessero dire. Ci fu poi spiegato che ci pregavano di domandare a Dio una grazia per loro. È una superstizione molto sparsa fra gli arabi che la preghiera dei mussulmani essendo graditissima a Dio, egli suol tardare lungamente ad accordare le grazie che gli domandano, per godere più a lungo il piacere di sentirsi pregare; mentre la preghiera d’un infedele, d’un cane, come un cristiano od un ebreo, gli è tanto molesta, che per liberarsene, l’esaudisce ipso facto. Le sole faccie amiche che incontrassimo erano i ragazzi ebrei, che giravano a drappelli, a cavallo agli asini, di collina in collina, e ci gettavano un allegro: Buenos dias, caballeros! passandoci accanto di galoppo.


Malgrado però la vita varia e nuova che menavamo a Tangeri, s’era tutti impazienti di partire, per poter essere di ritorno nel mese di Giugno, prima dei grandi calori. L’Incaricato d’affari aveva mandato un corriere a Fez ad annunziare che l’ambasciata era pronta; ma dovevano passare almeno dieci giorni prima che fosse di ritorno. Notizie private dicevano che la scorta era in viaggio; altre che non era ancora partita; eran tutte voci incerte e contraddittorie, come se quella Fez sospirata non fosse a duecento venti chilometri, ma a duemila miglia dalla costa. E questo, da un lato, ci piaceva, perchè quella passeggiata di quindici giorni prendeva così, nella nostra immaginazione, l’apparenza d’un lungo viaggio, e Fez l’attrattiva d’una città misteriosa. Al quale effetto servivano pure le strane cose che ci dicevano di quella città, del suo popolo e dei pericoli del viaggio, coloro che v’erano stati con altre ambasciate. Ci dicevano che erano stati circondati da migliaia di cavalieri, i quali li salutavano con una tempesta di fucilate a bruciapelo, a rischio d’accecarli; che s’erano sentiti fischiar le palle all’orecchio; che a noi italiani assai più probabilmente sarebbe toccata nel capo, per sbaglio, qualche oncia di piombo, diretta alla croce bianca della bandiera, la quale parrebbe agli arabi un insulto a Maometto. Ci parlavano di scorpioni, di serpenti, di tarantole, di nuvoli di cavallette, di ragni e di rospi enormi che avremmo trovati per la strada e sotto le tende. Ci descrivevano con foschi colori l’entrata delle ambasciate in Fez, in mezzo a un turbinio di cavalli, a un’immensa folla ostile, per strade coperte, oscure, ingombre di rovine e di carcasse d’animali. Ci preannunziavano un monte di malanni durante il soggiorno a Fez: languidezze mortali, dissenterie furiose, reumatismi, zanzare mostruosamente feroci, appetto alle quali erano una vera dolcezza quelle dei nostri paesi. E infine la nostalgia; al qual proposito si parlava d’un giovane pittore di Bruxelles, andato a Fez coll’ambasciata belga, il quale in capo a una settimana era stato preso da una così disperata tristezza, che l’ambasciatore aveva dovuto rimandarlo a Tangeri a marcie forzate, per non vederselo morire sotto gli occhi. Ed era vero. Ma queste notizie non facevano che accrescere la nostra impazienza. Ed io mi ricordavo ridendo d’una certa scappata ironica che m’aveva fatto mia madre, dopo aver tentato inutilmente di distogliermi dal viaggio al Marocco collo spauracchio delle bestie feroci: — Oh poi, in fin dei conti, hai ragione: che importa essere divorati da una pantera? Purchè i giornali lo dicano!

Dopo tutto ciò, è facile immaginare che salto si sia fatto sulle seggiole il giorno che il signor Salomone Aflalo, secondo dracomanno della Legazione, si affacciò alla porta della sala da pranzo, e disse con voce sonora: — È arrivata la scorta da Fez.

Colla scorta erano arrivati i cavalli, i muli, i cammelli, i palafrenieri, le tende, l’itinerario fissato dal Sultano e l’annunzio che si poteva partire.

Bisognava però aspettare ancora alcuni giorni per lasciare un po’ di riposo agli uomini e alle bestie.

Le bestie erano state ricoverate alla Casba. Il giorno dopo le andammo a vedere. Erano quarantacinque cavalli, compresi quelli della scorta; una ventina di mule da sella e più di cinquanta mule da carico, alle quali se ne aggiunsero poi molte altre noleggiate a Tangeri; i cavalli piccoli e di forme svelte, come tutti i cavalli marocchini, e le mule robuste; le selle e i basti coperti di panno rosso; le staffe formate da una larga lastra di ferro ripiegata ai due lati, in maniera da sostenere ed abbracciare tutto il piede e servir insieme di sprone e di difesa. Queste povere bestie erano quasi tutte accovacciate, sfinite più che dalle fatiche del viaggio, dall’insufficienza del nutrimento, una parte del quale, forse, era stata secondo l’uso trasformata in metallo dai conducenti. V’eran là alcuni soldati della scorta. Si avvicinarono e cominciarono a parlare, ingegnandosi di farci capire coi gesti che il viaggio era stato faticoso, che avevano patito un gran caldo e una gran sete, ma che grazie ad Allà erano arrivati sani e salvi. Ve n’erano dei neri e dei mulatti, tutti ravvolti nella cappa bianca, uomini alti ed ossuti, faccie ardite, denti ferini, occhiacci che facevano quasi pensare che non sarebbe stata superflua una seconda scorta, schierata fra noi e loro, per tutti i casi possibili. Mentre i miei compagni gesticolavano, io cercai fra le mule quella che aveva negli occhi una più dolce espressione di generosità e di mansuetudine; era una mula bianca colla groppa rabescata; decisi di affidare ad essa la mia vita, e d’allora fino al ritorno, rimasero legate a quella sella tutte le speranze della letteratura italiana nel Marocco.

Di là andammo al Soc di barra, dov’erano state piantate le tende principali. Fu un gran piacere per noi il vedere quelle casette di tela dove dovevamo dormire trenta notti in mezzo a solitudini sconosciute, e vedere e sentire tante cose mirabili, e preparare chi una carta geografica, chi una relazione ufficiale, chi un quadro, chi un libro, formando tutti insieme una piccola Italia pellegrinante a traverso l’Impero dei Sceriffi! Erano tende di forma cilindro-conica, alcune grandi tanto da contenere più di venti persone, tutte altissime, di tela doppia, listate di guernizioni turchine e ornate sulla cima di grosse palle metalliche. La maggior parte appartenevano al Sultano, e chi sa quante belle del suo serraglio ci avevan dormito sotto nei viaggi da Fez a Mechinez e da Mechinez a Marocco! In un angolo dell’accampamento, v’era un gruppo di soldati della scorta, a piedi, e dinanzi a loro un personaggio sconosciuto che aspettava il ministro. Era un omo sui trentacinque anni, di aspetto maestoso, mulatto, corpulento, con un gran turbante bianco, la cappa turchina, i calzoncini rossi, e una sciabola col fodero di cuoio e il manico di corno di rinoceronte. Il ministro, arrivato pochi momenti dopo, ce lo presentò. Era il comandante della scorta; un generale dell’esercito imperiale, di nome Hamed Ben Kasen Buhamei, il quale doveva accompagnarci a Fez e riaccompagnarci a Tangeri, e colla sua testa rispondere al Sultano della sicurezza delle nostre. Ci strinse la mano con molta grazia e ci fece dire dall’interprete che sperava si sarebbe fatto un buon viaggio. Il suo viso e le sue maniere mi rassicurarono completamente riguardo ai denti e agli occhi dei soldati che avevo visti alla Casba. Non era bello; ma il suo volto esprimeva un’indole mite e un’intelligenza sveglia. Doveva saper leggere, scrivere e far di conto, essere insomma uno dei più colti generali dell’esercito, se il ministero della guerra gli aveva affidata quella delicata missione. In sua presenza si fece la distribuzione delle tende. Una fu assegnata alla pittura; della più grande, dopo quella dell’ambasciatore, pigliammo possesso il comandante di fregata, il capitano di stato maggiore, il viceconsole ed io, e fin d’allora si previde che sarebbe stata la tenda più chiassosa del campo. Un’altra, grandissima, fu scelta per sala da pranzo. Poi si fissarono quelle del medico, degli interpreti, dei cuochi, dei servi, dei soldati della Legazione. Il Comandante della scorta e i suoi soldati avevano le loro tende a parte. Altre tende si sarebbero aggiunte il giorno della partenza. In somma, c’era da prevedere che sarebbe riuscito un accampamento bellissimo, e io mi sentivo dentro degli accessi precoci di furore descrittivo.


Il giorno dopo l’Incaricato d’affari andò col comandante di fregata e col capitano a far visita al Rappresentante del governo imperiale, Sidi-Bargas, che esercita in un certo senso l’ufficio di ministro degli affari esteri a Tangeri. Io m’aggregai a loro.

Ero curioso di veder da vicino un ministro degli affari esteri, il quale, se gli stipendi non sono stati accresciuti da vent’anni in qua (cosa poco probabile), riceve dal governo settantacinque lire al mese, compreso il fondo per le spese di rappresentanza; lauto stipendio, nondimeno, appetto a quello dei Governatori, che è solamente di cinquanta. E non è a dire che questa carica sia una sine cura e vi si possa sobbarcare il primo venuto. Il famoso sultano Abd-Er-Rahman, per esempio, che regnò dal 1822 al 1859, non vi seppe trovare altr’uomo adatto che un Sidi-Mohammed-el-Khatib, negoziante di zucchero e di caffè, che pure facendo il ministro continuava a trafficare regolarmente a Tangeri e a Gibilterra. Le istruzioni, infatti, che questo ministro riceve dal suo governo, benchè sieno molto semplici, sono tali da mettere nell’imbarazzo anche il più sottile diplomatico europeo. Un console francese le ha formulate con molta precisione: — a tutte le domande dei consoli, rispondere con promesse; — di queste promesse differire fino al più tardi possibile l’adempimento; — guadagnar tempo; — suscitare difficoltà d’ogni natura ai reclamanti, — fare in modo che, stanchi di reclamare, desistano; — cedere, se minacciano, il meno che si può; — se poi il cannone se ne immischia, cedere, ma non prima del momento supremo. Ma convien dire che dopo la guerra di Spagna, e particolarmente sotto il regno di Mulei-el-Hassen, le cose son molto cangiate.

Salimmo alla Casba, dov’è la casa del ministro. Una schiera di soldati faceva ala davanti alla porta. Si attraversò un giardino, e s’entrò in una sala spaziosa, dove vennero incontro all’Incaricato d’affari il ministro degli esteri e il governatore di Tangeri.

In fondo alla sala v’era un alcova con un sofà e alcune seggiole; in un angolo un letto modestissimo; sotto il letto, un servizio da caffè; le pareti bianche e nude; il pavimento coperto di stuoie.

Sedemmo nell’alcova.

I due personaggi che ci stavano davanti formavano tra loro un contrasto ammirabile. L’uno, Sidi-Bargas, il ministro, era un bel vecchio, colla barba bianca, la carnagione chiara, due occhi d’una vivacità indescrivibile e una gran bocca, sempre sorridente, che lasciava vedere due file di grossi denti bianchi come l’avorio; un viso che rivelava a primo aspetto l’astuzia finissima e l’indole meravigliosamente pieghevole richiesta dalla natura del suo ministero. Gli occhiali, la tabacchiera, certi movimenti cerimoniosi del capo e della mano, gli davan quasi l’aria d’un diplomatico europeo. Si vedeva l’uomo avvezzo a trattare con cristiani, superiore, forse, a molte superstizioni e a molti pregiudizii del suo popolo, un mussulmano di manica larga, un moro inverniciato di civiltà. L’altro, il Caid Misfiui, pareva l’incarnazione del Marocco. Era un omo d’una cinquantina d’anni, di color bronzino, di barba nera, membruto, cupo, taciturno; una faccia che pareva non avesse mai sorriso. Teneva il capo basso, gli occhi a terra, le sopracciglia corrugate; si sarebbe detto che gl’ispiravamo un profondo senso di ripugnanza. Io lo guardavo di sott’occhio, con diffidenza. Mi pareva che quell’uomo non dovesse mai aprir bocca altro che per far rotolare una testa ai suoi piedi. Tutti e due avevano in capo un gran turbante di mussolina ed erano ravvolti dalla testa ai piedi in un caïc trasparente.

L’incaricato d’affari presentò a questi due personaggi, per mezzo dell’interprete, il Comandante di fregata e il capitano. Eran due ufficiali: la presentazione non richiedeva commenti. Presentando me, invece, bisognava spiegare presso a poco che specie di mestiere facessi. L’Incaricato d’affari lo spiegò in termini iperbolici. Sidi-Bargas stette un po’ pensando e poi disse alcune parole all’interprete il quale tradusse:

— Sua Eccellenza domanda perchè avendo codesta abilità nella mano, Vostra Signoria la porta coperta. Vostra Signoria dovrebbe levarsi il guanto perchè si potesse vedere la mano.

Il complimento era così nuovo per me che non trovai subito una risposta.

— Non è necessario, — osservò l’Incaricato d’affari, — perchè la facoltà risiede nella mente e non nella mano.

Pareva che fosse tutto detto. Ma quando un moro s’attacca a una metafora, non la lascia così facilmente.

— È vero, fece rispondere sua Eccellenza, — ma la mano essendo lo strumento è anche il simbolo della facoltà della mente.

La discussione si prolungò per qualche altro minuto.

— È un dono d’Allà — conchiuse finalmente Sidi-Bargas.

— Avaro Allà! dissi in cuor mio.

La conversazione durò un pezzo e s’aggirò quasi sempre intorno al viaggio. Fu una lunga citazione di nomi di governatori, di provincie, di fiumi, di valli, di monti, di pianure, che avremmo trovato sul nostro cammino; nomi che mi suonavano all’orecchio come altrettante promesse di avvenimenti meravigliosi, e mettevano in gran moto la mia immaginazione. Che cos’era la Montagna rossa? Che avremmo veduto sulle sponde del Fiume delle Perle? Che uomo doveva essere un governatore chiamato Figlio della cavalla? Il nostro Incaricato fece varie domande riguardo alle distanze, all’acqua, all’ombra. Sidi-Bargas aveva tutto sulla punta delle dita, e da questo lato bisogna riconoscere ch’era molto al di sopra di Visconti Venosta, il quale non sarebbe certo in grado di dire a un ambasciatore straniero quante sorgenti d’acqua pura e quanti gruppi d’alberi si trovano sulla strada da Napoli a Roma. Augurò infine un buon viaggio colla formola: — La pace sia sulla vostra strada, — e accompagnò l’Incaricato fin sull’uscio, stringendo la mano a tutti coll’apparenza d’una grande cordialità. Il Caid Misfiui, sempre muto, ci porse la punta delle dita, senza guardarci nel viso. — La mano, veh! — dissi tra me stendendogli la mia; — non la testa.

Eravamo già fuori della sala, quando il ministro ci raggiunse.

— Che giorno partite? domandò al Comm. Scovasso.

— Domenica, — questo rispose.

— Partite lunedì! — disse in tono premuroso Sidi-Bargas.

L’Incaricato gli fece domandare perchè.

— Perchè è giorno di buon augurio! — rispose con serietà, — e fatto un nuovo inchino, disparve.

Sidi-Misfiui, mi fu detto poi, ha tra i Mori la fama di gran dotto, fu maestro del Sultano regnante, ed è, come gli si legge nel viso, un mussulmano fanatico. Sidi-Bargas gode la riputazione più amabile di gran giocatore di scacchi.


Tre giorni prima della partenza, la stradetta dove dà la porta della Legazione era già affollata di curiosi. Dieci grandi cammelli, che dovevano portare a Fez, prima del nostro arrivo, una parte delle provvigioni di vino, vennero l’un dopo l’altro a inginocchiarsi davanti alla porta per ricevere il carico, e partirono accompagnati da un drappello di servi e di soldati. Dentro la casa, in quegli ultimi tre giorni, raddoppiò il lavoro e il via vai. Ai servi e ai soldati della Legazione s’aggiunsero i servi venuti da Fez. Ad ogni ora del giorno arrivavano provvigioni. La casa pareva un’officina, un magazzino e uno scalo. Si temette un momento che non bastasse il tempo agli apparecchi per poter partire il giorno fissato. Ma la domenica sera, tre di maggio, tutto era pronto, compresa l’asta altissima d’una smisurata bandiera tricolore che doveva sventolare in mezzo alle tende; e la notte poterono essere caricati sulle mule tutti i bagagli, che partirono il lunedì mattina, molte ore prima di noi, affinchè, arrivando la sera alla tappa, trovassimo l’accampamento piantato.

Ricorderò sempre, con una emozione gradevole, quegli ultimi momenti che passammo nel cortile della Legazione prima della partenza.

C’eravamo tutti. Erano arrivati il giorno innanzi, per unirsi a noi, un vecchio amico dell’Incaricato d’affari, il signor Patxot, antico ministro di Spagna a Tangeri, e il signor Morteo, genovese, agente consolare d’Italia a Mazagan. C’era il medico della carovana, Miguerez, nativo di Algeri; un ricco moro; Mohamed-Ducali, suddito italiano, che accompagnava l’ambasciata in qualità di scrivano; il secondo dracomanno della Legazione, Salomone Aflalo; due marinai italiani, uno ordinanza del comandante Cassone e l’altro calafato a bordo del Dora; i soldati della Legazione in gran gala; i cuochi, gli operai, i servi, tutte persone sconosciute che due mesi di vita comune nell’interno del Marocco dovevano rendermi famigliari, e che io mi preparavo a studiare sin da quel momento, ad uno ad uno, per farli un giorno movere e parlare nel libro che avevo in testa. Tutti avevano nel vestito qualchecosa di particolare, che dava a quella riunione un aspetto straordinariamente pittoresco. Erano cappelli piumati, cappe bianche, grandi ghette, veli, bisaccie, coperte da campo di colori bizzarri. C’era da fare un bazar tra pistole, barometri, quaderni, album e cannocchiali. Pareva che fossimo preparati a partire per il Capo di Buona Speranza. Si fremeva tutti d’impazienza, di curiosità e d’allegrezza. Per giunta il tempo era bellissimo e soffiava un’auretta marina deliziosa. Maometto era coll’Italia.

Alle cinque in punto l’ambasciatore montò a cavallo e sulle terrazze delle Legazioni s’alzarono le bandiere in segno di saluto.

Preoccupato com’ero della mia cavalcatura, in quel tafferuglio pericoloso della partenza, non ricordo che confusamente la folla che ingombrava le strade, le belle ebree affacciate alle terrazze, e un ragazzo arabo che mentre uscivo per la porta del Soc, esclamò con un accento strano: — Italia!

Sul Soc si unirono a noi i rappresentanti di tutte le Legazioni, per accompagnarci, secondo l’uso, fino a qualche miglio da Tangeri; e prendemmo tutti insieme la via di Fez, confusi in una cavalcata rumorosa, davanti a cui sventolava la bandiera verde del Profeta.

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