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VII.
Nella casa antica dei La Gurna, presa in affitto da don Gesualdo Motta, s’aspettavano gli sposi. Davanti alla porta c’era un crocchio di monelli, che il ragazzo di Burgio, in qualità di parente, s’affannava a tener discosti, minacciandoli con una bacchettina; la scala sparsa di foglie d’arancio; un lume a quattro becchi posato sulla ringhiera del pianerottolo; e Brasi Camauro, con una cacciatora di panno blù, la camicia di bucato, gli stivali nuovi, che dava l’ultimo colpo di scopa nel portone imbiancato di fresco. A ogni momento succedeva un falso allarme. I ragazzi gridavano: — Eccoli! eccoli! — Camauro lasciava la scopa, e della gente si affacciava ai balconi illuminati.
Verso un’ora, di notte arrivò il marchese Limòli, facendosi largo colla canna d’India. Vide il lume, vide le foglie d’arancio e disse: — Bravo! — Ma nel salire le scale, stava per rompersi l’osso del collo, e allora scappò anche a bestemmiare:
— Che bestie!... Han fatto un mondezzaio!..
Brasi corse colla scopa. — Spazzo via tutto, signor marchese? Butto via ogni cosa?
— No, no!... Adesso son passato. Non grattar troppo colla scopa, piuttosto... Si sente l’odor di stalla.
Udendo delle voci, Santo Motta che aspettava di sopra, vestito di nuovo, coi pantaloni a staffe e un panciotto di raso a fiori, si affacciò nel pianerottolo, infilandosi la giamberga.
— Eccomi! eccomi!... Sono qui!... Ah, signor marchese!... bacio le mani!...
E rimase un po’ confuso, non vedendo altri che il Limòli.
— Servo, servo, caro don Santo!... Non baciate più nulla... ora siamo parenti.
In cima alla scala comparve anche donna Sara Cirmena, la sola di tutto il parentado della sposa che si fosse degnata di venire, con un moggio di fiori finti in testa, il vestito di seta che aveva preso le pieghe come la carta, nel cassettone, i pendagli di famiglia che le strappavano le orecchie, seccata di aspettare da un gran pezzo in un bagno di sudore, e si mise a strillare di lassù:
— Ma che fanno? C’è qualche altra novità?
— Nulla, nulla, — rispose il marchese salendo adagio adagio.
— Son uscito prima per non far vedere ch'ero solo in chiesa, di tutti i parenti... Son venuto a dare un’occhiata.
Don Gesualdo aveva fatto delle spese: mobili nuovi, fatti venire apposta da Catania, specchi con le cornici dorate, sedie imbottite, dei lumi con le campane di cristallo: una fila di stanze illuminate, che viste così, con tutti gli usci spalancati, pareva di guardare nella lente di un cosmorama.
Don Santo precedeva facendo la spiegazione, tirando in su ogni momento le maniche che gli arrivavano alla punta delle dita.
— Come? Non c’è nessuno ancora? — esclamò il marchese, giunti che furono nella camera nuziale, parata come un altare. Compare Santo rannicchiò il capo nel bavero di velluto, al pari di una testuggine.
— Per me non manca... Io son qui dall’avemaria... Tutto è pronto...
— Credevo di trovare almeno gli altri parenti... Mastro Nunzio... vostra sorella...
— Nossignore... si vergognano... C’è stato un casa del diavolo! Io son venuto per tener d’occhio il trattamento...
E aprì l’uscio per farglielo vedere: una gran tavola carica di dolci e di bottiglie di rosolio, ancora nella carta ritagliata come erano venuti dalla città, sparsa di garofani e gelsomini d’Arabia, tutto quello che dava il paese, perchè la signora Capitana aveva mandato a dire che ci volevano dei fiori; quanti candelieri si erano potuti avere in prestito, a Sant’Agata e nell’altre chiese. Diodata ci aveva pure messi in bell’ordine tutti i tovagliuoli arrotolati in punta, come tanti birilli, che portavano ciascuno un fiore in cima.
— Bello! bello! — approvò il marchese. — Una cosa simile non l’ho mai vista!... E questi qui, cosa fanno?
Ai due lati della tavola, come i giudei del Santo Sepolcro ci erano Pelagatti e Giacalone, che sembravano di cartapesta così lavati e pettinati.
— Per servire il trattamento, sissignore!... Mastro Titta e l’altro barbiere suo compagno si son rifiutati, con un pretesto!... Vanno soltanto nelle casate nobili quei pezzenti!... Temevano di sporcarsi le mani qui, loro che fanno tante porcherie!...
Giacalone, premuroso, corse tosto con una bottiglia per ciascuna mano. Il marchese si schermì:
— Grazie, figliuol mio!... Ora mi rovini il vestito, bada!
— Di là ci sono anche le tinozze coi sorbetti! — aggiunse don Santo.
Ma appena aprì l’uscio della cucina, si videro fuggire delle donne che stavano a guardare dal buco della serratura.
— Ho visto, ho visto, caro parente. Lasciateli stare; non li spaventate.
In quel momento si udì un baccano giù in istrada, e corsero in tempo al balcone per vedere arrivare la carrozza degli sposi. Nanni l’Orbo, a cassetta, col cappello sino alle orecchie, faceva scoppiettare la frusta come un carrettiere, e vociava:
— Largo!... A voi!... Guardatevi!... — Le mule, tolte allora dall’armento, ricalcitravano e sbuffavano, tanto che il canonico Lupi propose di smontare lì dov’erano, e Burgio s’era già alzato per scavalcare lo sportello. Ma le mule tutt’a un tratto abbassarono il capo insieme, e infilarono il portone a precipizio.
— Morte subitanea! — esclamò il canonico, ricadendo col naso sui ginocchi della sposa.
Salivano a braccetto. Don Gesualdo con una spilla luccicante nel bel mezzo del cravattone di raso, le scarpe lucide, il vestito coi bottoni dorati, il sorriso delle nozze sulla faccia rasa di fresco; soltanto il bavero di velluto, troppo alto, che gli dava noia. Lei che sembrava più giovane e graziosa in quel vestito candido e spumante, colle braccia nude, un po’ di petto nudo, il profilo angoloso dei Trao ingentilito dalla pettinatura allora in moda, i capelli arricciati alle tempie e fermati a sommo del capo dal pettine alto di tartaruga: una cosa che fece schioccare la lingua al canonico, mentre la sposa andava salutando col capo a destra e a sinistra, palliduccia, timida, quasi sbigottita, tutte quelle nudità che arrossivano di mostrarsi per la prima volta dinanzi a tanti occhi e a tanti lumi.
— Evviva gli sposi! evviva gli sposi! — si mise a gridare il canonico, messo in allegria, sventolando il fazzoletto.
Bianca prese il bacio della zia Cirmena, il bacio dello zio marchese, ed entrò sola nelle belle stanze, dove non era anima viva.
— Ehi? ehi? bada che perdi il marito! — le gridò dietro lo zio marchese fra le risate generali.
— Ci siamo tutti? — borbottò sottovoce donna Sarina.
Il canonico si affrettò a risponder lui.
— Sissignora. Poca brigata, vita beata!
Dietro di loro saliva Alessi, colla berretta in mano, intimidito da quei lumi e da quell’apparato. Sin dall’uscio si mise a balbettare:
— Mi manda la signora baronessa Rubiera... Dice che non può venire perchè le duole il capo... Manda a salutare la nipote, e don Gesualdo anche...
— Vai in cucina, da questa parte — gli rispose il marchese. — Di’ che ti dieno da bere.
Don Gesualdo approfittò di quel momento per raccomandare sottovoce a suo fratello:
— Stai attento, dinanzi a tutta questa gente!... Ti metti a sedere, e non ti muovi più. Come vedi fare a me, fai tu pure.
— Ho capito. Lascia fare a me!
La zia Cirmena si era impadronita della sposa, e aveva assunta un’aria matronale che la faceva sembrare in collera. Dopo che ciascuno ebbe preso posto nella bella sala cogli specchi, si fece silenzio; ciascuno guardando di qua e di là per fare qualche cosa, ed ammirando coi cenni del capo. Alla fine il canonico credette di dover rompere il ghiaccio:
— Don Santo, sedetevi qua. Avvicinatevi; non abbiate timore.
— A me? — rispose Santo che si sentiva dar del don lui pure.
— Questo è tuo cognato, — disse il marchese a Bianca.
Il notaro ripigliò di lì a un momento:
— Guardate! guardate! Sembra lo sbarco di Cristoforo Colombo!
Vedevasi sull’uscio dell’anticamera un mucchio di teste che si pigiavano, fra curiose e timide, quasi stesse per scoppiare una mina. Il canonico fra gli altri monelli scorse Nunzio, il nipotino di don Gesualdo, e gli fece segno d’entrare, ammiccandogli. Ma il ragazzo scappò via come un selvaggio; e il canonico, sempre sorridendo, disse:
— Che diavoletto!... tutto sua madre...
Il marchese, sdraiato sulla sedia a bracciuoli, accanto alla nipote, sembrava un presidente, chiacchierando soltanto lui.
— Bravo! bravo!... Tuo marito ha fatto le cose bene!... Non ci manca nulla in questa casa!... Ci starai da principessa!... Non hai che a dire una parola... mostrare un desiderio...
— Allora ditegli che vi comperi delle altre mule — aggiunse il canonico ridendo.
— È vero; sei alquanto pallida... Ti sei forse spaventata in carrozza?
— Sono mule troppo giovani... appena tolte dall’armento... non ci sono avvezze... Ora usano dei cavalli per la carrozza — disse il canonico.
— Certamente! certamente! — si affrettò a rispondere don Gesualdo. — Appena potrò. I denari servono per spenderli... quando ci sono.
Il marchese e il canonico Lupi tenevano viva la conversazione, don Gesualdo approvando coi cenni del capo; gli altri ascoltavano: la zia Cirmena con le mani sul ventre e un sorrisetto amabile che faceva cascare le parole di bocca: un sorriso che diceva: — Bisogna pure! giacchè son venuta!... Valeva proprio la pena di mettersi in gala!... — Bianca sembrava un’estranea, in mezzo a tutto quel lusso. E suo marito imbarazzato anche lui, fra tanta gente, la sposa, gli amici, i servitori, dinanzi a quegli specchi nei quali si vedeva tutto, vestito di nuovo, ridotto a guardare come facevano gli altri se voleva soffiarsi il naso.
— Il raccolto è andato bene! — disse il marchese a voce più alta, perchè gli altri lo seguissero dove voleva arrivare. - Io ne parlo per sentita dire. Eh? eh? massaro Fortunato?...
- Sissignore, grazie a Dio!... Sono i prezzi che non dicono!...
- Ci sarà tanto da fare in campagna! Nel paese non c’è più nessuno.
La zia Cirmena allora non potè frenarsi:
- Ho vista al balcone la cugina Sganci... credevo che venisse, anzi!...
- Chissà? chissà? Quella pioggerella ch’è caduta ha ridotto la strada una pozzanghera!... Io stavo per rompermi il collo. Però dicono che fa bene alle vigne. Eh? eh? massaro Fortunato?...
- Sissignore, se vuol Dio!...
- Saranno tutti a prepararsi per la vendemmia. Noi soli no, donna Sarina! Noi beviamo il vino senza pregare Dio per l’acqua!... Bisogna condurre la sposa a Giolio per la vendemmia, don Gesualdo!... Vedrai che vigne, Bianca!
- Certo!... è la padrona!... certo!...
- Un momento!... - esclamò il canonico balzando in piedi. - Mi pare di sentir gente!...
Santo, che stava all’erta, cogli occhi fissi sul fratello, gli fece segno per sapere se era ora d’incominciare il trattamento. Ma il canonico rientrò dal balcone quasi subito, scuotendo il capo.
— No!... Son villani che tornano in paese. Oggi è sabato e arriva gente sino a tardi.
— Io l’avevo indovinato! — rispose la Cirmena. — Ho l’orecchio fine!... Chi aspettate, voi?
— Donna Giuseppina Alòsi, per bacco!... Quella almeno non manca mai!
— L’avrà trattenuta il cavaliere... — si lasciò scappare il marchese, perdendo la pazienza.
Santo, che s’era già alzato, tornò a sedere mogio mogio.
— Con permesso! con permesso! — disse il canonico. — Un momento! Vo e torno!
Donna Sarina gli corse dietro nell’anticamera, e si udì il canonico rispondere forte:
— No! Qui vicino... dal Capitano!...
Il marchese che stava coll’orecchio teso fingeva d’ammirare ancora i mobili e le stanze, e tornò a dire:
— Belli! belli!... Una casa signorile! Siete stati fortunati di potervi cacciare nel nido dei La Gurna!... Eh! eh!... Se ne videro qui delle feste... in questo stesso luogo!... Mi rammento... pel battesimo dell’ultimo La Gurna... Corradino... Adesso sono andati a stare a Siracusa, tutta la famiglia, dopo aver dato fondo a quel po’ che rimaneva!... Mors tua vita mea!... Qui starete da principi!... Eh! eh!... son vecchio e la so lunga!... Ci staremmo bene anche noi, eh, donna Sarina?... eh?
Donna Sarina si dimenava sulla seggiola per tener la lingua in freno: — Quanto a me!... — disse poi — grazie a Dio!... La prova è che il ragazzo La Gurna, Corradino, viene da me per la villeggiatura. Lui non ci ha colpa, povero innocente!
— No, no, è meglio star seduti in una bella sedia soffice come questa, che andare a buscarsi il pane di qua e di là, come i La Gurna!... quando si può buscarselo anche!... E avere una buona tavola apparecchiata, e la carrozza per far quattro passi dopo, e la vigna per la villeggiatura, e tutto il resto!... La buona tavola soprattutto!... Son vecchio, e mi dispiace che il marchesato non possa servirsi in tavola... Il fumo è buono soltanto in cucina... La so lunga... C’è più fumo nella cucina, che arrosto sulla tavola in molte case... quelle che ci hanno lo stemma più grosso sul portone... e che arricciano più il naso!... Se torno a nascere, voglio chiamarmi mastro Alfonso Limòli, ed esser ricco come voi, nipote mio... Per godermi i miei denari fra me e me... senza invitar nessuno... no!...
— Tacete!... Sento il campanello! — interruppe donna Sarina. — È un pezzo che suonano mentre voi state a predicare...
Però era un tintinnìo sommesso di gente povera. Santo corse ad aprire, e si trovò faccia a faccia col sagrestano, seguito dalla moglie, la quale portava sotto il braccio un tovagliuolo che pareva un sacco, quasi fosse venuta per lo sgombero. Al primo momento don Luca rimase imbarazzato, vedendo il fratello di Speranza che gli aveva mandato a dire mille improperi con suo marito Burgio; ma non si perse d’animo per questo, e trovò subito il pretesto:
- C’è il canonico Lupi?... Mia moglie, qui, m’ha detto ch’era montato in carrozza cogli sposi...
La gnà Grazia allora entrò svolgendo adagio adagio il tovagliuolo, e ne cavò una caraffina d’acqua d’odore, tappata con un batuffoletto di cenci.
- L’acqua benedetta!... Abbiamo pensato per donna Bianca!
E si misero ad aspettare tranquillamente, marito e moglie, in mezzo alla sala.
In quel momento tornò il canonico Lupi, rosso in viso, sbuffando, asciugandosi il sudore. E a prevenire ogni domanda si rivolse subito al padrone di casa, sorridendo, coll’aria indifferente:
- Don Gesualdo... se avete intenzione di farci fare la bocca dolce!... Mi pare che sia tempo!... All’alba ho da dir messa, prima d’andare in campagna.
- Vado? - saltò a dire subito Santo. - Mettiamo mano?
Si alzò in piedi la sposa; si alzarono dopo di lei tutti gli altri, e rimasero fermi ai loro posti, aspettando a chi toccasse aprire la marcia. Il canonico si sbracciava a far dei segni a compare Santo, e vedendo che non capiva, gli soffiò colla voce di petto, come in chiesa, allorchè sbagliavasi la funzione:
— A voi!... Date braccio alla cognata!...
Ma il cognato non si sentiva di fare quella parte. Infine glielo spinsero dietro a forza. Lo zio Limòli intanto era passato avanti colla sposa, e il canonico borbottò all’orecchio di don Gesualdo:
— Credereste?... fa la sdegnosa anche la Capitana! Lei che non manca mai dove c’è da leccare piatti! Fa la sdegnosa anch’essa! Come se non si sapesse donde viene quella gran dama!... No! no! che fate?... — esclamò a un tratto slanciandosi verso compare Santo.
Costui, persa la pazienza, quatto quatto rimboccavasi le maniche del vestito. Per fortuna la cognata stava parlando collo zio Limòli, e non se ne accorse. Il marchese, dal canto suo, era distratto, cercando di evitare Giacalone e Pelagatti che volevano servirlo a ogni costo. — Faranno nascere qualche guaio quei due ragazzi! — borbottò infine.
Anche Bianca abbozzò un sorriso a quell’uscita, e si scostarono dalla tavola tutti e due, per evitare il pericolo.
— Non vuol nulla!... — tornò dicendo il cognato don Santo, quasi si fosse tolto un gran peso dallo stomaco. — Io, per me, gliel’ho offerto!...
— Neanche un bicchierino di perfetto amore? — entrò a dire il canonico con galanteria. La zia Cirmena si mise a ridere, e Santo guardò il fratello, per vedere cosa dovesse fare.
— Eh! eh!... — aggiunse il marchese con la sua tosserella. — Eh! eh!...
— Qualcosa, zio?
— Grazie, grazie, cara Bianca... Non ho più denti nè stomaco... Sono invalido... Sto a vedere soltanto... non posso fare altro...
Il canonico si fece pregare un po’, e quindi trasse di tasca un fazzoletto che sembrava un lenzuolo. Intanto la zia Cirmena s’empiva il borsone che portava al braccio, dov’era ricamato un cane tutto intero, e ce n’entrava della roba! Il canonico invece, che aveva le tasche sino al ginocchio, sotto la zimarra, delle vere bisacce, poteva cacciarvi dentro tutto quello che voleva senza dare nell’occhio. Bianca pure regalò con le sue mani stesse una scatola di confetti al cognato Santo.
— Per vostra sorella e i suoi ragazzi...
— Di’ che glieli manda lei stessa... la cognata... — soggiunse Gesualdo tutto contento, con un sorriso di gratitudine per lei.
Erano un po’ in disparte, mentre tutti gli altri si affollavano intorno alla tavola. Egli allora le disse piano, con una certa tenerezza:
— Brava! mi piaci perchè sei giudiziosa, e cerchi di metter pace in famiglia... Non sai quel che c’è stato!... Mia sorella specialmente!... M’hanno fatto andare tutto in veleno anche il giorno delle nozze!...
Com’essa gli ispirava confidenza, col viso buono, stava per sfogarsi del rimanente, senza avvedersene, quando la zia Cirmena venne ad interromperlo dicendogli:
— Pensate al sagrestano; è lì che aspetta con sua moglie.
Don Luca, vedendo arrivare tanta grazia di Dio, finse di esser sorpreso. — Nossignore! Non siamo venuti per i dolci... Non v’incomodate, vossignoria! — Sua moglie intanto andava sciorinando la tovaglia che pareva quella dell’altare. Lui invece, per dimostrare la sua gratitudine, fingeva di guardare in aria, inarcando le ciglia dalla sorpresa.
— Guarda, Grazia!... Quanta roba!... Ce ne sono stati spesi dei denari qui! — Poscia, appena don Gesualdo volse le spalle, aiutò ad insaccare anche lui.
— Par d’essere appestati!... — borbottò donna Sarina che rientrava col borsone pieno insieme al canonico Lupi. — Neppure i suoi fratelli son venuti!... avete visto?...
— Poveretti!... poveretti!... — rispose l’altro agitando la mano dinanzi alla fronte, come a dire che coloro non ci avevano più la testa a segno. Poi si guardò intorno abbassando la voce: — Sembrava che piangessero il morto, quando siamo andati a prendere la sposa!... due gufi, tale e quale!... Si rintanavano di stanza in stanza, al buio... Due gufi, tale e quale!... Donna Bianca, invece, voleva fare le cose con bella maniera... almeno pei riguardi umani!... Infine se si è indotta a questo passo...
Fece un altro segno, coll’indice e il pollice in croce sulla bocca. E sbirciando colla coda dell’occhio che rientravano in sala anche Bianca e suo marito, disse forte, come in seguito di un altro discorso, mostrando il fazzoletto pieno: — Sono le mie propine!... frutti di stola...
La moglie del sagrestano, che non si era accorta della sposa, aggiunse:
— Sono ancora lì, tutti e due, dietro i vetri della finestra, al buio, a guardare in piazza dove non c’è nessuno!... come due mummie addirittura!...
Donna Bianca, nel passare, udì quelle parole.
— Tanta salute! — interruppe il sagrestano vedendo la signora. — Sarà una festa per quei ragazzi, quando arriveremo a casa!... Cinque figliuoli, donna Bianca!...
Poi, voltandosi verso la moglie che se ne andava barcollando, con quell’altro fardello sulla pancia:
— Salute e figli maschi!... La roba ce l’avete!... Ora pregheremo il Signore di darvi i figliuoli... Vogliamo vedervi come Grazia fra nove mesi... Il marchese per tagliar corto l’accomiatò: — Va bene! Buona sera, caro don Luca!
Nell’altra stanza, appena furono usciti gli invitati, si udì un baccano indiavolato. I vicini, la gente di casa, Brasi Camauro, Giacalone, Nanni l’Orbo, una turba famelica, piombò sui rimasugli del trattamento, disputandosi i dolciumi, strappandoseli di mano, accapigliandosi fra di loro. E compare Santo, col pretesto di difendere la roba, abbrancava quel che poteva, e se lo ficcava da per tutto, in bocca, nelle tasche, dentro la camicia. Nunzio, il ragazzo di Burgio, entrato come un gatto, si era arrampicato sulla tavola, e s’arrabbattava a calci e pugni anche lui, strillando come un ossesso; gli altri monelli carponi sotto. Don Gesualdo, infuriato, voleva correre col bastone a far cessare quella baraonda; ma lo zio marchese lo fermò pel braccio!...
— Lasciateli fare... tanto!...
La zia Cirmena che si era divertita almeno un po’, si piantò nel bel mezzo della stanza, guardando in faccia la gente, come a dire ch’era ora d’andarsene. In quel frattempo tornò di corsa il sagrestano, ansante, con un’aria di gran mistero:
— C’è qui tutto il paese!... giù in istrada, che stanno a vedere!... Il barone Zacco, i Margarone, la moglie di Mèndola anche... tutti i primi signori del paese!... Fa chiasso il vostro matrimonio, don Gesualdo!...
E se ne andò com’era venuto, frettoloso, infatuato.
La zia Cirmena borbottò:
— Che seccatura!... Ci fosse almeno un’altra uscita!...
Il canonico invece, curioso, volle andare a vedere.
Di rimpetto, alla cantonata di San Sebastiano, c’era un crocchio di gente; si vedevano biancheggiare dei vestiti chiari nel buio della strada. Altri passavano lentamente, in punta di piedi, rasente al muro, col viso rivolto in su. Si udiva parlare sottovoce, delle risa soffocate anche, uno scalpiccìo furtivo. Due che tornavano indietro dalla parte di Santa Maria di Gesù si fermarono, vedendo aprire il balcone. E tutti sgattaiolarono di qua e di là. Rimase solo Ciolla, che fingeva d’andare pei fatti suoi canticchiando:
Amore, amore, che m’hai fatto fare?...
Donna Sarina e il marchese Limòli si erano avvicinati anch’essi al balcone. Quest’ultimo allora disse:
— Adesso potete andarvene, donna Sarina. Non c’è più nessuno laggiù!...
La zia Cirmena scattò su come una molla:
— Io non ho paura, don Alfonso!... Io fo quel che mi pare e piace!... Son qui per far da mamma a Bianca... giacchè non c’è altra parente prossima. Non possiamo piantar la sposa quasi fosse una trovatella... pel decoro della famiglia almeno!...
— Ah? ah?... — sogghignava intanto il marchese.
Donna Sarina gli ribattè sul muso, frenando a stento la voce:
— Non mi fate lo gnorri, don Alfonso!... Lo sapete meglio di me!... Deve premere anche a voi che siete della famiglia... Bisogna farlo per la gente... se non per lei!... — E infilò l’uscio della camera nuziale, continuando a sbraitare.
— Va bene, va bene! Non andate in collera... Vuol dire che ce ne andremo noi!... Ehi, ehi, canonico... Mi par che sarebbe tempo d’andarcene!... Un po’ di prudenza!...
— Ah! ah!... Ah! ah! — chiocciava il canonico.
— Buona notte, nipoti miei! Vi dò pure la benedizione che non costa nulla...
Bianca s’era fatta pallida come un cencio lavato. Si alzò anche lei, con un lieve tremito nei muscoli del mento, coi begli occhi turchini che sembravano smarriti, incespicando nel vestito nuovo, e balbettò:
— Zio!... sentite, zio!... — E lo tirò in disparte per parlargli sottovoce, con calore.
— Sono pazzi! — interruppe il marchese ad alta voce accalorandosi anche lui. — Pazzi da legare! Se torno a nascere, lo dirò anche a loro, voglio chiamarmi mastro Alfonso Limòli!...
— Bravo! — sghignazzò il canonico. — Mi piace quello che dite!
— Buona notte! buona notte! Non ci pensare! Andrò da loro domattina... E fra nove mesi, ricordati bene, voglio essere invitato di nuovo pel battesimo... il canonico Lupi ed io... noi due soli... Non ci sarà neppure bisogno della cugina Cirmena!...
— Poca brigata, vita beata! — conchiuse l’altro.
Don Gesualdo li accompagnò sino all’uscio, solleticato internamente dai complimenti del canonico, il quale non finiva dal dirgli che aveva fatto le cose ammodo: — Peccato che non sieno venuti tutti gli invitati! Avrebbero visto che spendete da Cesare. Mi sorprende per la signora Sganci!... Anche la baronessa Rubiera sarebbe stata contenta di vedere come le rispettate la nipote... che non siete di quelli che hanno il pugno stretto... giacchè dovete esser soci fra poco.
— Eh! eh! — rispose don Gesualdo che si sentiva ribollire in quel punto i denari male spesi. — C’è tempo! c’è tempo! Ne deve passare prima dell’acqua sotto il ponte che non c’è più... Diteglielo pure, alla signora baronessa.
— Come? come? Se era cosa intesa? Se dovete esser soci?
— I miei soci son questi qua! — ripetè don Gesualdo battendo sul taschino. — Non vorrei che la signora baronessa Rubiera avesse a vergognarsi d’avermi per compagno... diteglielo pure!
— Ha ragione! — aggiunse il marchese fermandosi a metà della scala. — Ha l’amor proprio dei suoi denari, che diavolo!... La cugina Rubiera avrebbe potuto degnarsi... Non si sarebbe guastato il sangue per così poco, lei!...
— Chissà? chissà perchè non è venuta?... Ci dev’essere qualch’altro motivo... Poi, gli affari... è un’altra cosa... Pensateci bene!... Vi mancherà un appoggio!... Li avrete tutti nemici allora!...
— Tutti nemici... oh bella! perchè?
— Pei vostri denari, caspita!... Perchè potete mettere anche voi le mani nel piatto!... Poi vi siete imparentato con loro!... Uno schiaffo, caro mio! Uno schiaffo che avete dato a tutti quanti!
— Sapete cosa ho da dirvi? — si mise a strillare allora il marchese levando il capo in su. — Che se non avessi il vitalizio della mia commenda di Malta per non crepare di fame, sarei costretto a dare uno schiaffo anch’io a tutta la nobile parentela... Sarei costretto a scopar le strade!...
E se ne andò borbottando.
— Don Gesualdo, — disse Nanni l’Orbo facendo capolino dalla cucina. — Son qui i ragazzi che vorrebbero baciar la mano alla padrona... se non c’è più nessuno...
— Spicciatevi! spicciatevi! — rispose lui infastidito.
Prima s’affollarono sulla soglia simili a un branco di pecore; poscia, dopo Nanni l’Orbo, sfilarono dietro tutti gli altri, col sorriso goffo, il berretto in mano, le donne salutando sino a terra come in chiesa, imbacuccate nelle mantelline.
— Questa è Diodata, — disse Nanni l’Orbo. — Una povera orfanella che il padrone ha mantenuto per carità.
— Sissignora!... Tanta salute!... — E Diodata non seppe più che dire.
— Un cuore tanto fatto, don Gesualdo! — seguitò Nanni l’Orbo accalorandosi. — Gli ha fatto anche la dote! Domeneddio l’aiuta per questo!
Don Gesualdo andava spegnendo i lumi. Poi si voltò tutto di nuovo vestito, che Diodata non osava nemmeno alzare gli occhi su di lui, e conchiuse:
— Va bene. Siete contenti?
— Sissignore, — rispose Nanni l’Orbo, guardando con tenerezza Diodata. — Contentoni!... può dirlo anche lei!...
— E’ un pezzo che compare Nanni teneva d’occhio a quei baiocchi, per non lasciarseli sfuggire! — aggiunse Brasi Camauro. — E’ nato col berretto in testa!
— Sposa Diodata, — narrò allora alla moglie don Gesualdo. — La marito con lui.
Il camparo aggiunse altre informazioni, ridendo:
— Si correvano dietro! Bisognava far la guardia a loro pure!... Il padrone mi dovrebbe ancora che regaluccio per quest’altra custodia che non era nel patto!...
Allora scoppiò una risata generale, perchè compare Carmine era molto lepido, di solito. La ragazza, tutta una fiamma, gli lanciò un’occhiata di bestia selvaggia.
— Non è vero! nossignore, don Gesualdo!...
— Sì! sì! e Brasi Camauro anche! e Giacalone, allorchè veniva pel carro!... Tutti d’amore e d’accordo, insieme!...
Le risate non finivano più; Nanni l’Orbo pel primo, che si teneva i fianchi. Solo Diodata, rossa come il fuoco, colle lagrime agli occhi, s’affannava a ripetere:
— Nossignore!... non è vero!... Come potete dirlo, compare Carmine?... non ne avete coscienza?
Donna Sarina comparve di nuovo sull’uscio, colle braccia incrociate, senza profferire una parola; soltanto i fiori che le si agitavano sul capo parlavano per lei.
— Ora basta! — conchiuse il padrone. — Andatevene, ch’è tardi.
Essi salutarono un’altra volta, inchinandosi goffamente, balbettando confusamente in coro, urtandosi nell’uscire, e se ne andarono con un calpestìo pesante di bestiame grosso. Appena fuori cominciarono a ridere e scherzare fra di loro; Brasi Camauro e Pelagatti dandosi degli spintoni; Nanni l’Orbo e compare Carmine barattando parolacce e ingiurie atroci, colle braccia l’uno al collo dell’altro, come due fratelli messi in allegria dal vino bevuto. Una baldoria che fece ridere anche lo stesso don Gesualdo.
— Son come le bestie! — diss’egli rientrando. — Non dar retta, cara Bianca!
— Un momento! — strillò la zia Cirmena respingendolo colle mani, quasi egli stesse per farle violenza. — Non potete entrare adesso! fuori! fuori!
E gli chiuse l’uscio sul muso.
Diodata risalì di corsa in quel punto, scalmanata, colle lagrime agli occhi.
— Don Gesualdo!... Non vogliono lasciarmi andare pei fatti miei!... Li sentite, laggiù?... compare Nanni e tutti gli altri!...
— Ebbene? Che c’è? Non dev’essere tuo marito?...
— Sissignore... Dice per questo!... ch’è il padrone... Non mi lasciano andare in pace!... tutti quanti!
— Aspetta! aspetta, che piglio un bastone!
— No! no! — gridò Nanni dalla strada. — Ce ne andiamo a casa. Nessuno la tocca.
— Senti? Nessuno ti tocca. Vattene... Che fai adesso?
Essa, stando due scalini più giù, gli aveva presa la mano di nascosto, e andava baciandola come un vero cane affezionato e fedele: — Benedicite!... benedicite!...
— Ora ricomincia il piagnisteo! — sbuffò lui. — Non ho un momento di pace, questa sera!...
— Nossignore... senza piagnisteo... Tanta salute a vossignoria!... e alla vostra sposa anche!... È che volevo baciarvi la mano per l’ultima volta!... Mi tremano un po’ le gambe... Tanto bene che mi avete fatto, vossignoria!...
— Bè! bè!... Sta allegra tu pure!... Dev’essere un giorno d’allegria questo!... Hai trovato un buon marito anche tu... Il pane non te lo farà mancare... E quando verrà la malannata, ricordati che c’è sempre il mio magazzino aperto... Sei contenta anche tu? di’?
Essa rispose ch’era contenta, chinando il capo più volte, giacchè aveva un groppo alla gola e non poteva parlare.
— Va bene! Ora vattene via contenta... e senza pensare ad altro, sai!... senza pensare ad altro!...
Com’essa lo guardava in un certo modo, cogli occhi dolorosi che sembrava gli leggessero anche a lui il cruccio segreto in cuore, cominciò a gridare per non pensarci, quasi fosse in collera.
— E senza cercare il pelo nell’uovo!... senza pensare a questo e a quell’altro... Il Signore c’è per tutti... Anche tu sei una povera trovatella, e il Signore ti ha aiutato!... Al caso poi, ci son qua io... Farò quello che potrò... Non ho il cuore di sasso, no!... Lo sai! Vai, vai; vattene via contenta!...
Ma Diodata, che gli voltava le spalle, col petto pigiato contro la ringhiera, quasi si sentisse morire dal crepacuore, non potè frenare i singhiozzi che la scuotevano dalla testa ai piedi. Allora il suo padrone scappò a bestemmiare:
— Santo e santissimo!... santo e santissimo!
In quel momento comparve la zia Cirmena in cima alla scala, con lo scialle in testa, il borsone infilato al braccio, e gli occhi umidi di lagrime, come si conveniva alla parte di madre che l’era toccata quella volta.
— Eccomi qua, don Gesualdo! eccomi qua! — E stese le braccia come un crocifisso per buttargliele al collo. — Non ho bisogno di farvi la predica... Siete un uomo di giudizio... Povera Bianca!... Sono commossa, guardate!
Cercò nel borsone il fazzoletto di battista, fra la roba di cui era pieno, e si asciugò gli occhi. Poi baciò di nuovo lo sposo, asciugandosi anche la bocca con lo stesso fazzoletto, e chiamò il servitore che aspettava giù col lampione.
— Don Camillo! Accendete, ch’è ora di andarsene. Don Camillo? ehi? cosa fate? dormite?
Dalla strada rispose Ciolla, ripassando col chitarrino:
Amore, amore, che m’hai fatto fare?
E degli altri sfaccendati gli andavano dietro, facendogli l’accompagnamento coi grugniti.
— No! — esclamò la zia Cirmena piantandosi dinanzi al nipote, quasi ad impedirgli di fare una pazzia. — Non date retta... Sono ubbriachi!... canaglia che crepano d’invidia! Andate a trovare vostra moglie piuttosto! Ve la raccomando... non va presa come le altre... Siamo fatti di un’altra pasta... tutta la famiglia... Mi pare di lasciare il sangue mio nelle vostre mani adesso!... Non ho avuto figliuole... non ho mai provato una cosa simile!... Mi sento tutta sconvolta!... No! no! Non badate a me!... mi calmerò... Voi, don Camillo, andate avanti col lume...
Egli volse le spalle. — Quante chiacchiere! Infine siamo marito e moglie sì o no? — Entrando nella camera nuziale trasse un sospirone.
— Ah! se Dio vuole, è finita! Ce n’è voluto... ma è finita, se Dio vuole!... Non lo fo più, com’è vero Iddio, se si ha a ricominciare da capo!...
Voleva far ridere anche la sposa, metterla un po’ di buon umore, per star meglio insieme in confidenza, come dev’essere fra marito e moglie. Ma lei, ch’era seduta dinanzi allo specchio, voltando le spalle all’uscio, si riscosse udendolo entrare, e avvampò in viso. Indi si fece smorta più di prima, e i lineamenti delicati parvero affilarlesi a un tratto maggiormente.
Proprio quello che aveva detto la zia Cirmena! Una ragazza che vi basiva per un nulla, e v’imbrogliava la lingua e le mani. Gli seccava, ecco, quel giorno di nozze che non gli aveva dato un sol momento buono.
— Ehi?... Perchè non dici nulla?... Cos’hai?... — Rimase un momento imbarazzato, senza saper che dire neppure lui, umiliato nel suo bel vestito nuovo, in mezzo ai suoi mobili che gli costavano un occhio del capo.
— Senti... s’è così... se la pigli su quel verso anche tu... Allora ti saluto e vo a dormire su di una sedia, com’è vero Dio!...
Essa balbettò qualche parola inintelligibile, un gorgoglìo di suoni timidi e confusi, e chinò il capo ubbidiente, per cominciare a togliersi il pettine di tartaruga, colle mani gracili e un po’ sciupacchiate alle estremità di ragazza povera avvezza a far di tutto in casa.
— Brava! brava! Così mi piaci!... Se andiamo d’accordo come dico io, la nostra casa andrà avanti... avanti assai! Te lo dico io! Faremo crepare gli invidiosi... Hai visto stasera, che non son voluti venire alle nozze?... Quante spese buttate via!... Hai visto che mi mangiavo il fegato e ridevo?... Riderà meglio chi ride l’ultimo!... Via, via, perchè ti tremano così le mani?... non sono tuo marito adesso?... a dispetto degli invidiosi!... Che paura hai?... Senti!... quel Ciolla!... mi farà fare uno sproposito!...
Essa tornò a balbettare qualche parola indistinta, che le spirò di nuovo sulle labbra smorte, e alzò per la prima volta gli occhi su di lui, quegli occhi turchini e dolci che gli promettevano la sposa amorevole e ubbidiente che gli avevano detto. Allora egli tutto contento, con un risata larga che gli spianò il viso ed il cuore, riprese:
— Lascialo cantare. Non me ne importa adesso di Ciolla... di lui e di tutti gli altri!... Crepano d’invidia perchè i miei affari vanno a gonfie vele, grazie a Dio! Non te ne pentirai, no, di quello che hai fatto!... Sei buona!... non hai la superbia di tutti i tuoi...
In cuore gli si gonfiava un’insolita tenerezza, mentre l’aiutava a spettinarsi. Proprio le sue grosse mani che aiutavano una Trao, e si sentivano divenir leggere leggere fra quei capelli fini! Gli occhi di lui si accendevano sulle trine che le velavano gli omeri candidi e delicati, sulle maniche brevi e rigonfie che le mettevano quasi delle ali alle spalle. Gli piaceva la peluria color d’oro che le fioriva agli ultimi nodi delle vertebre, le cicatrici lasciatele dal vaccinatore inesperto sulle braccia esili e bianche, quelle mani piccole, che avevano lavorato come le sue, e tremavano sotto i suoi occhi, quella nuca china che impallidiva e arrossiva, tutti quei segni umili di privazioni che l’avvicinavano a lui.
— Voglio che tu sii meglio di una regina, se andiamo d’accordo come dico io!... Tutto il paese sotto i piedi voglio metterti!... Tutte quelle bestie che ridono adesso e si divertono alle nostre spalle!... Vedrai! vedrai!... Ha buon stomaco, mastro-don Gesualdo!... da tenersi in serbo per anni ed anni tutto quello che vuole... e buone gambe pure... per arrivare dove vuole... Tu sei buona e bella!... roba fine!... roba fine sei!...
Essa rannicchiò il capo nelle spalle, simile a una colomba trepidante che stia per esser ghermita.
— Ora ti voglio bene davvero, sai!... Ho paura di toccarti colle mani... Ho le mani grosse perchè ho tanto lavorato... non mi vergogno a dirlo... Ho lavorato per arrivare a questo punto... Chi me l’avrebbe detto?... Non mi vergogno, no! Tu sei bella e buona... Voglio farti come una regina... Tutti sotto i tuoi piedi!... questi piedini piccoli! Hai voluto venirci tu stessa... con questi piedini piccoli... nella mia casa... La padrona!... la signora bella mia!... Guarda, mi fai dire delle sciocchezze!...
Ma essa aveva l’orecchio altrove. Pareva guardasse nello specchio, lontano, lontano.
— A che pensi? ancora al Ciolla?... Vo a finire in prigione, la prima notte di matrimonio!...
— No! — interruppe lei balbettando, con un filo di voce. — No... sentite... devo dirvi una cosa...
Sembrava che non avesse più una goccia di sangue nelle vene, tanto era pallida e sbattuta. Mosse le labbra tremanti due o tre volte.
— Parla, — rispose lui. — Tutto quello che desideri... Voglio che sii contenta tu pure!...
Com’era di luglio, e faceva un gran caldo, si tolse anche il vestito, aspettando. Ella si tirò indietro bruscamente, quasi avesse ricevuto un urto in pieno petto; e s’irrigidì, tutta bianca, cogli occhi cerchiati di nero.
— Parla, parla!... Dimmelo qui all’orecchio... qui che nessuno ci sente!...
Rideva tutto contento colla risata grossolana, nell’impeto caldo che cominciava a fargli girare il capo, balbettando e anfanando, in maniche di camicia, stringendosi sul cuore che gli batteva fino in gola quel corpo delicato che sentiva rabbrividire e quasi ribellarsi; e come le sollevava il capo dolcemente si sentì cascar le braccia. Ella si asciugò gli occhi febbrili, col viso tuttora contratto dolorosamente.
— Ah!... che gusto!... Aveva ragione la zia Cirmena!... Bel divertimento!... Dopo tanti stenti, tanti bocconi amari!... tante spese fatte!... Si dovrebbe essere così contenti qui... due che si volessero bene!... Nossignore! neanche questo mi tocca! Neanche il giorno delle nozze, santo e santissimo!... Dimmi almeno che hai!...
— Non badate a me... Sono troppo agitata...
— Ah! quel Ciolla!... ancora!... Com’è vero Dio, gli tiro addosso un vaso di fiori adesso!... Voglio far la festa anche a lui, la prima notte di matrimonio!