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PARTE SECONDA.
I.
— Tre onze e quindici!... Uno!... due!...
— Quattr’onze! — replicò don Gesualdo impassibile. Il barone Zacco si alzò, rosso come se gli pigliasse un accidente. Annaspò alquanto per cercare il cappello, e fece per andarsene. Ma giunto sulla soglia tornò indietro a precipizio, colla schiuma alla bocca, quasi fuori di sè, gridando:
— Quattro e quindici!...
E si fermò ansante dinanzi alla scrivania dei giurati, fulminando il suo contradittore cogli occhi accesi. Don Filippo Margarone, Peperito e gli altri del Municipio che presiedevano all’asta delle terre comunali, si parlarono all’orecchio fra di loro. Don Gesualdo tirò su una presa, seguitando a fare tranquillamente i suoi conti nel taccuino che teneva aperto sulle ginocchia. Indi alzò il capo, e ribattè con voce calma:
— Cinque onze!
Il barone diventò a un tratto come un cencio lavato. Si soffiò il naso; calcò il cappello in testa, e poi infilò l’uscio, sbraitando:
— Ah!... quand’è così!... giacch’è un puntiglio!... una personalità!... Buon giorno a chi resta!
I giurati si agitavano sulle loro sedie quasi avessero la colica. Il canonico Lupi si alzò di botto, e corse a dire una parola all’orecchio di don Gesualdo, passandogli un braccio al collo.
— Nossignore, — rispose ad alta voce costui. — Non ho di queste sciocchezze... Fo i miei interessi, e nulla più.
Nel pubblico che assisteva all’asta corse un mormorìo. Tutti gli altri concorrenti si erano tirati indietro, sgomenti, cacciando fuori tanto di lingua. Allora si alzò in piedi il baronello Rubiera, pettoruto, lisciandosi la barba scarsa, senza badare ai segni che gli faceva da lontano don Filippo, e lasciò cadere la sua offerta, coll’aria addormentata di uno che non gliene importa nulla del denaro:
— Cinque onze e sei!... Dico io!...
— Per l’amor di Dio, — gli soffiò nelle orecchie il notaro Neri tirandolo per la falda. — Signor barone, non facciamo pazzie!... — Cinque onze e sei! — replicò il baronello senza dar retta, guardando in giro trionfante.
— Cinque e quindici.
Don Ninì si fece rosso, e aprì la bocca per replicare; ma il notaro gliela chiuse con la mano. Margarone stimò giunto il momento di assumere l’aria presidenziale.
— Don Gesualdo!... Qui non stiamo per scherzare!... Avrete denari... non dico di no... ma è una bella somma... per uno che sino a ieri l’altro portava i sassi sulle spalle... sia detto senza offendervi... Onestamente... “Guardami quel che sono, e non quello che fui„ dice il proverbio... Ma il comune vuole la sua garanzia. Pensateci bene!... Sono circa cinquecento salme... Fanno... fanno... — E si mise gli occhiali, scrivendo cifre sopra cifre.
— So quello che fanno, — rispose ridendo mastro-don Gesualdo. — Ci ho pensato portando i sassi sulle spalle... Ah! signor don Filippo, non sapete che soddisfazione, essere arrivato sin qui, faccia a faccia con vossignoria e con tutti questi altri padroni miei, a dire ciascuno le sue ragioni, e fare il suo interesse!
Don Filippo posò gli occhiali sullo scartafaccio; volse un’occhiata stupefatta ai suoi colleghi a destra e a sinistra, e tacque rimminchionito. Nella folla che pigiavasi all’uscio nacque un tafferuglio. Mastro Nunzio Motta voleva entrare a ogni costo, e andare a mettere le mani addosso al suo figliuolo che buttava così i denari. Burgio stentava a frenarlo. Margarone suonò il campanello per intimar silenzio.
— Va bene!... va benissimo!... Ma intanto la legge dice...
Come seguitava a tartagliare, quella faccia gialla di Canali gli suggerì la risposta, fingendo di soffiarsi il naso.
— Sicuro!... Chi garantisce per voi?... La legge dice...
— Mi garantisco da me, — rispose don Gesualdo posando sulla scrivania un sacco di doppie che cavò fuori dalla cacciatora.
A quel suono tutti spalancarono gli occhi. Don Filippo ammutolì.
— Signori miei!... — strillò il barone Zacco rientrando infuriato. — Signori miei!... guardate un po’! a che siam giunti!...
— Cinque e quindici! — replicò don Gesualdo tirando un’altra presa. — Offro cinque onze e quindici tarì a salma per la gabella delle terre comunali. Continuate l’asta, signor don Filippo.
Il baronello Rubiera scattò su come una molla, con tutto il sangue al viso. Non l’avrebbero tenuto neppure le catene.
— A sei onze! — balbettò fuori di sè. — Fo l’offerta di sei onze a salma.
— Portatelo fuori! Portatelo via! — strillò don Filippo alzandosi a metà. Alcuni battevano le mani. Ma don Ninì ostinavasi, pallido come la sua camicia adesso.
— Sissignore! a sei onze la salma! Scrivete la mia offerta, segretario!
— Alto! — gridò il notaro levando tutte e due le mani in aria. — Per la legalità dell’offerta!... fo le mie riserve!...
E si precipitò sul baronello, come s’accapigliassero. Lì, nel vano del balcone, faccia a faccia, cogli occhi fuori dell’orbita, soffiandogli in viso l’alito infuocato:
— Signor barone!... quando volete buttare il denaro dalla finestra!... andate a giuocare a carte!... giuocatevi il denaro di tasca vostra soltanto!...
Don Ninì sbuffava peggio di un toro infuriato. Peperito aveva chiamato con un cenno il canonico Lupi, e s’erano messi a confabulare sottovoce, chinati sulla scrivania, agitando il capo come due galline che beccano nello stesso tegame. Era tanta la commozione che le mani del canonico tremavano sugli scartafacci. Il cavaliere lo prese per un braccio e andarono a raggiungere il notaro e il baronello che disputavano animatissimi in un canto della sala. Don Ninì cominciava a cedere, col viso floscio e le gambe molli. Il canonico allora fece segno a don Gesualdo d’accostarsi lui pure.
— No, — ammiccò questi senza muoversi.
— Sentite!... C’è quell’affare della cauzione... Il ponte se n’è andato, salute a noi!... C’è modo d’accomodare quell’affare della cauzione adesso...
— No, — ripigliò don Gesualdo. Sembrava una pietra murata. — L’affare del ponte... una miseria in confronto.
— Villano! mulo! testa di corno! — ricominciò ad inveire il barone sottovoce.
Don Filippo, dopo il primo momento d’agitazione, era tornato a sedere, asciugandosi il sudore gravemente. Intanto che il canonico parlava sottovoce a mastro don Gesualdo, il notaro da lontano cominciò a far dei segni. Don Filippo si chinò all’orecchio di Canali. Sottomano, in voce di falsetto, il banditore replicò:
— L’ultima offerta per le terre del comune! A sei onze la salma!... Uno!... due!...
— Un momento, signori miei! — interruppe don Gesualdo — Chi garantisce quest’ultima offerta?
A quell’uscita rimasero tutti a bocca aperta Don Filippo apriva e chiudeva la sua senza trovar parola. Infine rispose:
— L’offerta del barone Rubiera!... Eh? eh?
— Sissignore. Chi garantisce pel barone Rubiera?
Il notaro si gettò su don Ninì che sembrava volesse fare un massacro. Peperito dimenavasi come l'avessero schiaffeggiato. Lo stesso canonico allibì. Margarone balbettava stralunato.
— Chi garantisce pel barone Rubiera?... chi garantisce?... — A un tratto mutò tono, volgendola in burla: — Chi garantisce pel barone Rubiera!... Ah! ah!... Oh bella! questa è grossa! — E molti, al pari di lui, si tenevano i fianchi dalle risate.
— Sissignore, — replicò don Gesualdo imperturbabile. — Chi garantisce per lui? La roba è di sua madre.
A quelle parole cessarono le risate, e don Filippo ricominciò a tartagliare. La gente si affollava sull’uscio come ad un teatro. Il canonico, che sembrava più pallido sotto la barba di quattro giorni, tirava il suo compagno pel vestito. Il notaro era riuscito a cacciare il baronello contro il muro, mentre costui, in mezzo al baccano, vomitava:
— Becco!... cuor contento!... redentore!
— La parola del barone! — disse infine don Filippo. — La parola del barone Rubiera val più delle vostre doppie!... don... don...
— Don Filippo! — interruppe l’altro senza perdere la sua bella calma. — Ho qui dei testimoni per metter tutto nel verbale.
— Va bene! Si metterà tutto nel verbale!... Scrivete che il baronello Rubiera ha fatto l’offerta per incarico di sua madre!...
— Benone! — aggiunse don Gesualdo. — Quand’è così scrivete pure che offro sei onze e quindici a salma.
— Pazzo! assassino! nemico di Dio! — si udì gridare mastro Nunzio nella folla dell’altra sala.
Successe un parapiglia. Il notaro e Peperito spinsero fuori dell’uscio il baronello che strepitava, agitando le braccia in aria. Dall’altro canto il canonico, convulso, si gettò su don Gesualdo, stringendoglisi addosso, sedendogli quasi sulle ginocchia, colle braccia al collo, scongiurandolo sottovoce, in aria disperata, con parole di fuoco, ficcandoglisi nell’orecchio, scuotendolo pei petti della giacca, quasi volesse strapazzarlo, per fargli sentir ragione.
— Una pazzia!... Dove andiamo, caro don Gesualdo?...
— Non temete, canonico. Ho fatto i miei conti. Non mi scaldo la testa, io.
Don Filippo Margarone suonava il campanello da cinque minuti per avere un bicchier d’acqua. I suoi colleghi s’asciugavano il sudore anch’essi, trafelati. Solo don Gesualdo rimaneva seduto al suo posto come un sasso, accanto al sacchetto di doppie. A un certo punto, dalla baraonda ch’era nell’altra stanza, irruppe nella sala mastro Nunzio Motta, stralunato, tremante di collera, coi capelli bianchi irti sul capo, rimorchiandosi dietro il genero Burgio che tentava di trattenerlo per la manica della giacca, come un pazzo.
— Signor don Filippo!... sono il padre, sì o no?... comando io, sì o no?... Se mio figlio Gesualdo è matto!... se vuol rovinarci tutti!... c’è la forza, signor don Filippo!... Mandate a chiamare don Liccio Papa!... — Speranza, dall’uscio, col lattante al petto, che si strappava i capelli e urlava quasi l’accoppassero. — Per l’amor di Dio! per l’amor di Dio! — supplicava il canonico, correndo dall’uno all’altro. — I denari del ponte!... Vuole la mia rovina!... Nemico di suo padre stesso! — urlava mastro Nunzio. — Erano forse denari vostri? — scappò infine a gridare il canonico; — non era sangue del figlio vostro? non li ha guadagnati lui, col suo lavoro? — Tutti quanti erano in piedi, vociando. Si udiva Canali strillare più forte degli altri per chetare don Ninì Rubiera. Il barone Zacco avvilito, se ne stava colle spalle al muro, e il cappello sulla nuca. Il notaro era sceso a precipizio, facendo gli scalini a quattro a quattro, onde correre dalla baronessa. Per le scale era un via vai di curiosi: gente che arrivava ogni momento attratta dal baccano che udivasi nel Palazzo di Città. Santo Motta dalla piazza additava il balcone, vociando a chi non voleva saperle le prodezze del fratello. S’era affacciata perfino donna Marianna Sganci, coll’ombrellino, mettendosi la mano dinanzi agli occhi.
— Com'è vero Dio!... Io l’ho fatto e io lo disfo!... — urlava il vecchio Motta inferocito. — Largo! largo! — si udì in mezzo alla folla.
Giungeva don Giuseppe Barabba, agitando un biglietto in aria. — Canonico! canonico Lupi!... — Questi si spinse avanti a gomitate. — Va bene — disse, dopo di aver letto. — Dite alla signora Sganci che va bene, e la servo subito.
Barabba corse a fare la stessa imbasciata nell’altra sala. Quasi lo soffocavano dalla ressa. Il canonico si buscò uno strappo alla zimarra, mentre il barone stendeva le braccia per leggere il biglietto. Canali, Barabba e don Ninì litigavano fra di loro. Poscia Canali ricominciò a gridare: — Largo! largo! — E s’avanzò verso don Gesualdo sorridente:
— C’è qui il baronello Rubiera che vuole stringervi la mano!
— Padrone! padronissimo! Io non sono in collera con nessuno.
— Dico bene!... Che diavolo!... Oramai siete parenti!...
E tirando pel vestito il baronello li strinse entrambi in un amplesso, costringendoli quasi a baciarsi. Il barone Zacco corse a gettarsi lui pure nelle loro braccia, coi lucciconi agli occhi.
— Maledetto il diavolo!... Non sono di bronzo!... Che sciocchezza!...
Il notaro sopraggiunse in quel punto. Andò prima a dare un’occhiata allo scartafaccio del segretario, e poi si mise a battere le mani.
— Viva la pace! Viva la concordia!... Se ve l’ho sempre detto!...
— Guardate cosa mi scrive vostra zia donna Marianna Sganci!... — disse il canonico commosso, porgendo la lettera aperta a don Gesualdo. E fattosi al balcone agitò il foglio in aria, come una bandiera bianca; mentre la signora Sganci dal balcone rispondeva coi cenni del capo.
— Pace! pace!... Siete tutti una famiglia!...
Canali corse a prendere per forza mastro Nunzio, Burgio, perfino Santo Motta, scamiciato, e li spinse nelle braccia dei nuovi parenti. Il canonico abbracciava anche comare Speranza e il suo bambino. Avrebbero pianto gli stessi sassi. — Per parte di moglie... siete cugini...
— E’ vero, — aggiunse don Ninì tuttora un po’ rosso in viso. — Siamo cresciuti insieme con Bianca... come fratello e sorella.
— Caro don Nunzio!... vi rammentate la fornace del gesso... vicino Fontanarossa?...
Il vecchio burbero fece una spallata, per levarsi d’addosso la manaccia del barone Zacco, e rispose sgarbatamente.
— Io mi chiamo mastro Nunzio, signor barone. Non ho i fumi di mio figlio.
— E perchè poi? A vantaggio di chi vi fate la guerra?... Chi ne gode di tanto denaro buttato via?... — conchiuse Canali infervorato.
— Pazzie! ragazzate!... Un po’ di sangue alla testa!... La giornata calda!... Un puntiglio sciocco... un malinteso... Ora tutto è finito! Andiamo via! Non facciamo ridere il paese!... — E il notaro cercava di condurli a spasso tutti quanti.
— Un momento! — interruppe don Gesualdo. — La candela è ancora accesa. Vediamo prima se hanno scritto l’ultima mia offerta.
— Come, come? Che discorsi!... Cosa vuol dire?... Torniamo da capo?... — Di nuovo s’era levato un putiferio. — Non siamo più amici? Non siamo parenti?
Ma don Gesualdo s’ostinava, peggio di un mulo:
— Sissignore, siamo parenti. Ma qui siamo venuti per la gabella delle terre comunali. Io ho fatta l’offerta di sei onze e quindici tarì a salma.
— Villano! testa di corno!
Don Filippo, in mezzo a quel trambusto, fu costretto a sedere di nuovo sul seggiolone, sbuffando. Vuotò di un fiato il bicchiere d’acqua, e suonò il campanello. — Signori miei! — vociava il segretario, — l’ultima offerta... a sei onze e quindici! — Tutti se n’erano andati a discutere strepitando nell’altra sala, lasciando solo don Gesualdo dinanzi alla scrivania. Invano il canonico, inquieto, gli soffiava all’orecchio:
— Non la spuntate, no!... Si son dati l’intesa fra di loro!... — A sei onze e quindici la salma!... ultima offerta!...
— Don Gesualdo! don Gesualdo! — gridò il notaro quasi stesse per crollare la sala.
Rientrarono nuovamente in processione: il barone Zacco facendosi vento col cappello; il canonico e Canali ragionando fra loro due a bassa voce; don Ninì, più restìo, in coda agli altri. Il notaro con le braccia fece un gesto circolare per radunarli tutti intorno a sè:
— Don Gesualdo!... sentite qua!
Volse in giro un’occhiata da cospiratore e abbassò la voce:
— Una proposta seria! — e fece un’altra pausa significativa. — Prima di tutto, i denari della cauzione... una bella somma!... La disgrazia volle così... ma voi non ci avete colpa, don Gesualdo... e neppure voi, mastro Nunzio... È giusto che non li perdiate!... Accomoderemo la cosa!... Voi, signor barone Zacco, vi rincresce di lasciare le terre che sono da quarant’anni nella vostra famiglia?... E va bene!... La baronessa Rubiera adesso vuole la sua parte anche lei?... ha più di tremila capi di bestiame sulle spalle... E va bene anche questa! Don Gesualdo, qui, ha denari da spendere lui pure; vuol fare le sue speculazioni sugli affitti... Benissimo! Dividete le terre, fra voi tre... senza liti, senza puntigli senza farvi la guerra a vantaggio altrui... A vantaggio di chi, poi?... del comune! Vuol dire di nessuno! Mandiamo a monte l’asta... Il pretesto lo trovo io!... Fra otto giorni si riapre sul prezzo di prima; si fa un’offerta sola... Io no... e nemmeno loro!... Il canonico Lupi!... in nome vostro, don Gesualdo... Ci fidiamo... Siamo galantuomini! Un’offerta sola sul prezzo di prima; e vi rimangono aggiudicate le terre senza un baiocco d’aumento. Solamente una piccola senseria per me e il canonico... E il rimanente lo dividete fra voi tre, alla buona... d’amore e d’accordo. Vi piace? Siamo intesi?
— Nossignore, — rispose don Gesualdo, — le terre le piglio tutte io.
Mentre gli altri erano contenti e approvavano coi cenni del capo l’occhiata trionfante che il notaro tornava a volgere intorno, quella risposta cadde come una secchia d’acqua. Il notaro per primo rimase sbalordito; indi fece una giravolta e s’allontanò canterellando. Don Ninì scappò via senza dir nulla. Il barone stavolta finse di calcarsi il cappello in capo per davvero. Lo stesso canonico saltò su inviperito:
— Allora vi pianto anch’io!... Se volete rompervi le corna, il balcone è lì, bell’e aperto!... Vi offrono dei buoni patti!... vi stendono le mani!... Io vi lascio solo, com’è vero Dio!
Ma don Gesualdo si ostinava, col suo risolino sciocco, il solo che non perdesse la testa in quella baraonda.
— Siete una bestia! — gli disse sempre ridendo. Il canonico spalancò gli occhi e tornò docile a vedere quel che stava macchinando quel diavolo di mastro— don Gesualdo.
Il notaro, prudente, seppe dominarsi prima degli altri, e tornò indietro col sorriso sulle labbra e le tabacchiera in mano lui pure.
— Dunque?... le volete tutte?
— Eh... eh... Cosa stiamo a farci qui dunque! — rispose l’altro.
Neri gli offrì la tabacchiera aperta, e riprese a voce bassa, in tono di confidenza cordiale:
— Che diavolo volete farne?... circa cinquecento salme di terre!...
Don Gesualdo si strinse nelle spalle.
— Caro notaro, forse che voglio ficcare il naso nei vostri libracci, io?
— Quand’è così, don Gesualdo, state a sentire... discorriamola fra di noi... Il puntiglio non conta... e nemmeno l’amicizia... Badiamo agli interessi...
A ogni frase piegava il capo ora a destra e ora a sinistra, con un fare cadenzato che doveva essere molto persuasivo.
— Se le volete tutte, ve le faremo pagare il doppio, ed ecco sfumato subito metà del guadagno... senza contare i rischi... le malannate!... Lasciateci l’osso, caro don Gesualdo! tappateci la bocca... Abbiamo denti, e sappiamo mordere! Andremo a rotta di collo noialtri e voi pure!...
Don Gesualdo scrollava il capo, sogghignando, come a dire: — Nossignore! Andrete a rotta di collo voialtri soltanto! — Seguitava a ripetere:
— Forse che io voglio cacciare il naso nei vostri scartafacci?
Poi, vedendo che il notaro diventava verde dalla bile, volle offrirgli una presa lui.
— Vi spiego il mistero in due parole, giacchè vedo che mi parlate col cuore in mano. Piglierò in affitto le terre del comune... e quelle della Contea pure... tutte quante, capite, signor notaro? Allora comando ai prezzi e all’annata, capite?... Ve lo dico perchè siete un amico, e perchè a far quel che dico io ci vogliono molti capitali in mano, e un cuore grande quanto il piano di Santamargherita, caro notaro. Perciò spingerò l’asta sin dove voialtri non potrete arrivare. Ma badate! a un certo punto, se non mi conviene, mi tiro indietro, e vi lascio addosso il peso che vi rompe la schiena...
— E questa è la conclusione?...
— Eh? eh? Vi piace?
Il notaro si volse di qua e di là, come cercasse per terra, si calcò il cappello in capo definitivamente, e volse le spalle:
— Salute a chi rimane!... Ce ne andiamo... Non abbiamo più nulla da fare.
Il canonico, ch’era stato ad ascoltare a bocca aperta, si strinse al socio con entusiasmo, appena rimasero soli.
— Che botta, eh? don Gesualdo! Che tomo siete voi!... La mia mezzeria ci sarà sempre?
Don Gesualdo rassicurò il canonico con un cenno del capo, e disse a Margarone:
— Signor don Filippo, andiamo avanti...
— Io non vo niente affatto! — rispose finalmente Margarone adirato. — La legge dice... Non c’è più concorrenza!... Non trovo garanzia!... Devo consultare i miei colleghi. — E si mise a raccogliere gli scartafacci in fretta e in furia.
— Ah! così si tratta?... è questa la maniera?... Va bene! va benone! Ne discorreremo poi, signor don Filippo... Un memoriale a Sua Maestà!... — Il canonico col mantello sul braccio come un oratore romano, perorava la causa dell’amico minaccioso. Don Gesualdo invece, più calmo, riprese il suo denaro e il taccuino zeppo di cifre: — Io sarò sempre qua signor don Filippo, quando aprite di nuovo l’asta.
— Signori miei!... guardate un po’... a che siam giunti! — brontolava Margarone. Per la scala del Palazzo di Città, e per tutto il paese, era un subbuglio, al sentire la lotta che c’era stata per levare di mano al barone Zacco le terre del comune che da quarant’anni erano nella sua famiglia, e il prezzo a cui erano salite. La gente si affacciava sugli usci, per veder passare mastro— don Gesualdo.
— Guardate un po’, signori miei, a che s’era arrivati!... — Fresco come un bicchier d’acqua, quel mastro— don Gesualdo che se ne andava a casa, colle mani in tasca... In tasca aveva più denari che capelli in testa! e dava da fare ai primi signori del paese! Nell’anticamera aspettava don Giuseppe Barabba, in livrea: — Signor don Gesualdo, c’è di là la mia padrona a farvi visita... sissignore! — Donna Giuseppina in gala era seduta sul canapè di seta, sotto lo specchio grande, nella bella sala gialla.
— Nipote mio, l’avete fatta grossa! Avete suscitato l’inferno in tutto il parentado!... Sicuro! La moglie del cugino Zacco è venuta a farmi vedere i lividori!... Sembra ammattito il barone!... Prende a sfogarsi con chi gli capita... Ed anche la cugina Rubiera... dice ch’è un proditorio! che il canonico Lupi vi aveva messi d’amore e d’accordo, e poi tutt’a un tratto... E’ vero, nipote mio? Son venuta apposta a discorrerne con Bianca... Vediamo, Bianca, aiutami tu. Cerchiamo d’accomodarla. Voi, don Gesualdo, le farete questo regalo, a vostra moglie. Eh? che ne dite?
Bianca guardava timidamente ora lei ed ora il marito, rannicchiata in un cantuccio del canapè, colle braccia sul ventre e il fazzoletto di seta in testa, che s’era messo in fretta onde ricevere la zia. Aprì la bocca per rispondere qualche cosa, messa in soggezione da donna Mariannina, la quale continuava a sollecitarla:
— Eh? che ne dici? Adesso sono anche affari tuoi.
Bianca tornò a guardare il marito, e tacque imbarazzata. Ma egli la tolse d’impiccio.
— Io dico di no, — rispose semplicemente.
— Ah? ah? Dite così?...
Donna Mariannina rimase a bocca aperta lei pure un istante. Poscia divenne rossa come un gallo: — Ah! dite di no?... Scusatemi... Io non c’entro. Ero venuta a parlarne con mia nipote, perchè non vorrei liti e questioni fra parenti... Anche coi tuoi fratelli, Bianca... quel che non ho fatto per indurli... don Diego specialmente ch’è così ostinato!... Una disgrazia... un gastigo di Dio!
— Che volete farci? — rispose don Gesualdo. — Non tutti i negozi riescono bene. Anch’io, se avessi saputo... Non parlo per la moglie che ho presa, no! Non me ne pento!... Buona, interessata, ubbidiente... Glielo dico qui, in faccia a lei... Ma quanto al resto... lasciamo andare!
— Dite bene, lasciamo andare. Apposta son venuta a parlare con Bianca, perchè so che le volete bene. Adesso siete marito e moglie, come vuol Dio. Anch’essa è la padrona...
— Sissignore, è la padrona. Ma io sono il marito...
— Vuol dire che ho sbagliato, — disse la Sganci punta al vivo.
— No, non avete sbagliato vossignoria. È che Bianca non se ne intende, poveretta. È vero, Bianca, che non te ne intendi, di’?
Bianca disse di sì, chinando il capo ubbidiente.
— Sia per non detto. Non ne parliamo più. Ho fatto il mio dovere da buona zia, per cercare di mettervi d’accordo... Anche oggi, laggiù, al Municipio, avete visto?... quello che vi feci dire dal canonico Lupi?...
— Lupus in fabula! — esclamò costui entrando come in casa propria, col cappello in testa, il mantello ondeggiante dietro, fregandosi le mani. — Sparlavate di me, eh? Mi sussurravano le orecchie...
— Voi piuttosto, buonalana! Avete la cera di chi ha preso il terno al lotto!
— Il terno al lotto? Mi fate il contrappelo anche? Un povero diavolo che s’arrabatta da mattina a sera!...
— Si discorreva della gabella delle terre... — disse don Gesualdo tranquillamente, tirando su una presa, — così, per discorrere...
— Ah! ah! — rispose il canonico; e si mise a guardare in aria. La zia Sganci osservava lei pure i mobili nuovi, voltando la testa di qua e di là.
— Belli! belli! Me l’aveva detto la cugina Cirmena. Peccato che non mi sentissi bene la sera del matrimonio...
— E gli altri pure, signora donna Mariannina! — rispose il canonico con una risatina. — Fu un’epidemia!...
— No! no! Posso assicurarvelo! in fede mia!... La Rubiera, poveretta!... E anche suo figlio... Lo sento sempre che si lagna... — Zia, come potrei?... — Donna Mariannina s’interruppe. — Ma abbiamo detto di non parlarne più. Lui però si duole di non poter venire a fare il suo dovere... Dissidi ce n’è sempre, dico io, anche tra fratelli e sorelle... Ma passeranno, coll’aiuto di Dio... Sai, Bianca? tuo cugino si marita. Ora non c’è bisogno di far misteri perchè tutto è combinato. Don Filippo dà la tenuta alla Salonia, trenta salme di terra! Una bella dote.
Bianca ebbe un’ondata di sangue al viso, indi divenne smorta come un cencio; ma non si mosse nè disse verbo.
Il canonico rispose lui invece, masticando ancora l’amaro.
— Lo sappiamo! lo sappiamo! L’abbiamo capita oggi, al Municipio!... — Infine non seppe più frenarsi, quasi bruciasse a lui la ferita.
— La baronessa Rubiera ha cercato di dare il gambetto a me pure!... a me che le avevo proposto l’affare!... Si è messa d’accordo cogli avversari! Tutti contrari!... I parenti della moglie schierati contro il marito!... Uno scandalo che non s’è mai visto... Hanno bandito un nuovo appalto per il ponte onde fargli perdere la cauzione a questo disgraziato! Tutte le angherie!... Per la costruzione delle nuove strade fanno venire i concorrenti sin da Caltagirone e da Lentini!... — Di là almeno non ci capita addosso qualche altro parente!...— ha detto il barone Mèndola, colla sua stessa bocca nella farmacia.
Donna Marianna diventava di cento colori e si mordeva le labbra per non spifferare il fatto suo. Don Gesualdo invece se la rideva tranquillamente, sdraiato sul suo bel canapè soffice, e a un certo punto gli chiuse anche la bocca colla mano al canonico.
— Lasciate stare!... Queste son chiacchiere che non vanno al mulino. Ciascuno fa il suo interesse.
— Dico per rispondere a donna Mariannina. Volete sentirne un’altra, eh? la più bella? Si sono pure messi d’accordo per vendere il grano a rotta di collo, e far cascare i prezzi. Una camorra! Il baronello Rubiera ha detto che non gliene importa di perdervi cent’onze, pur di farne perdere mille a don Gesualdo che ha i magazzini pieni... Al marito di sua cugina! Vergogna! Ce n’ho venti salme anch’io, capite, vossignoria! Una birbonata!
Il canonico andava scaldandosi maggiormente di mano in mano, rivolto a mastro-don Gesualdo: — Bel guadagno avete fatto a imparentarvi con loro. Chi l’avrebbe detto... eh? L’avete sbagliata!... Scusate, donna Bianca! non parlo per voi che siete un tesoro!... Allora, cara donna Mariannina!... allora, quand’è così, muoia Sansone con tutti i Filistei.
— E lasciamoli morire, — disse la signora Sganci alzandosi. — Già il mondo non finirà per questo. — Come la nipote s’era alzata anch’essa dal canapè, mortificata da tutti quei discorsi, colle braccia incrociate sul ventre, donna Mariannina continuò ridendo e fissandole gli occhi addosso: — È vero, Bianca che il mondo non lo lascerai finire, tu? — Bianca tornò a farsi rossa. — Evviva! Mi congratulo. Ora che avete questa bella casa dovete fare un bel battesimo... con tutti i parenti... d’amore e d’accordo. Se no, perchè li avrete spesi tanti denari?
Don Gesualdo non voleva darla vinta ai suoi nemici, ma dentro si rodeva, perchè davvero non gli servivano gran cosa tutti quei denari spesi. — Eh, eh, — rispose con quel certo buon umore che voleva sfoggiare allora. — Pazienza! Serviranno per chi verrà dopo di noi, se Dio vuole! — E batteva affettuosamente sulla spalla della moglie, amorevole e sorridente mentre pensava pure che se i suoi figliuoli avessero avuto la stessa sorte, erano proprio denari buttati via, tante fatiche, i guadagni stessi, sempre con quel bel risultato! Poi, quando la zia Sganci se ne fu andata, prese a brontolare contro di Bianca, che non si era messo il vestito buono per ricevere la zia: — Allora a che serve aver la roba? Diranno che ti tengo come una serva. Bel gusto spendere i denari, per non goderne nè noi nè gli altri!
— Lasciamo stare queste sciocchezze, e parliamo di cose serie! — interruppe il canonico che s’era riannuvolato in viso. — C’è un casa del diavolo. Cercano di aizzarvi contro tutto il paese, dicendo che avete le mani lunghe, e volete acchiappare quanta terra si vede cogli occhi, per affamare la gente... Quella bestia di Ciolla va predicando per conto loro... Vogliono scatenarci contro anche i villani... a voi e a me, caro mio! Dicono che io tengo il sacco... Non posso uscir di casa...
Don Gesualdo scrollava le spalle. — Ah, i villani? Ne riparleremo poi, quando verrà l’inverno. Voi che paura avete?
— Che paura ho, per... mio!... Non sapete che a Palermo hanno fatto la rivoluzione.
Andò a chiudere l’uscio in punta di piedi, e tornò cupo, nero in viso.
— La Carboneria, capite!... Anche qui hanno portato questa bella novità! Posso parlare giacchè non l’ho avuta sotto il suggello della confessione. Abbiamo la sêtta anche qui!
E spiegò cos’era la faccenda: far legge nuova e buttar giù coloro che avevano comandato sino a quel giorno.
— Una sêtta, capite? Tavuso, mettiamo, al posto di Margarone; e tutti quanti colle mani in pasta! Ogni villano che vuole il suo pezzo di terra! pesci grossi e minutaglia, tutti insieme. Dicono che vi è pure il figlio del Re, nientemeno! il Duca di Calabria.
Don Gesualdo, ch’era stato ad ascoltare con tanto d’occhi aperti, scappò a dire:
— S’è così... ci sto anch’io! non cerco altro!... E me lo dite con quella faccia? Mi avete fatto una bella paura, santo Dio!
L’altro rimase a bocca aperta: — Che scherzate? O non sapete che voglia dire rivoluzione? Quel che hanno fatto in Francia, capite? Ma voi non leggete la storia...
— No, no, — disse don Gesualdo. — Non me ne importa.
— Me ne importa a me: Rivoluzione vuol dire rivoltare il cesto, e quelli ch’erano sotto salire a galla: gli affamati, i nullatenenti!...
— Ebbene? Cos’ero io vent’anni fa?
— Ma adesso no! Adesso avete da perdere, cristiano santo! Sapete com’è? Oggi vogliono le terre del comune; e domani poi vorranno anche le vostre e le mie! Grazie! grazie tante! Non ho dato l’anima al diavolo tanti anni per...
— Appunto! Bisogna aiutarsi per non andare in fondo al cesto, caro canonico! Bisogna tenersi a galla, se non vogliamo che i villani si servano colle sue mani. Li conosco... so fare, non dubitate.
E spiegò meglio la sua idea: cavar le castagne dal fuoco con le zampe del gatto; tirar l’acqua al suo mulino, e se capitava d’acchiappare anche il mestolo un quarto d’ora, e di dare il gambetto a tutti quei pezzi grossi che non era riescito ad ingraziarsi neppure sposando una di loro, senza dote e senza nulla, tanto meglio...
Gli andarono in quel momento gli occhi su Bianca che stava rincantucciata sul canapè, smorta in viso dalla paura, guardando or questo e or quello, e non osava aprir bocca.
— Non parlo per te, sai. Non me ne pento di quel che ho fatto. Non è stata colpa tua. Tutti i negozi non riescono a un modo. Poi se capita di fare il bene, nel tempo stesso...
Il canonico cominciava a capacitarsi, cogli occhi e la bocca di traverso, pensieroso, e appoggiava anche lui il discorso del socio: — Non si voleva torcere un pelo a nessuno... se si arrivava ad afferrare il mestolo un po’ di tempo... quante cose si farebbero...
— Voi dovreste farne una!... — interruppe don Gesualdo. — Parlare con chi ha le mani in questa faccenda, e dire che vogliamo esserci anche noi.
— Eh? Che dite?... un sacerdote!
— Lasciate stare, canonico!... Poi se vi è il figlio del Re, potete esserci anche voi!
— Caspita! Al figlio del Re non gliela tagliano la testa, se mai!
— Non temete, che non ve la tagliano la testa! Già, se è come avete detto, dovrebbero tagliarla a un paese intero. Credete che non abbia fatto i miei conti, in questo tempo?... Quando saremo lì, a veder quel che bolle in pentola... Bisogna mettersi vicino al mestolo... con un po’ di giudizio... col danaro... So io quello che dico.
Bianca cominciò allora a balbettare: — Oh Signore Iddio!... Cosa pensate di fare?... Un padre di famiglia!... — Il canonico, indeciso, la guardava turbato, quasi sentisse il laccio al collo. Don Gesualdo per rassicurarlo soggiunse:
— No, no. Mia moglie non sa cosa dice... Parla per soverchia affezione, poveretta. — Poscia, mentre accompagnava il suo socio in anticamera, soggiunse:
— Lo vedete? Comincia ad affezionarmisi. Già i figliuoli sono un gran legame. Speriamo almeno che abbiano ad esser felici e contenti loro; giacchè io... Volete che ve la dica, eh, canonico, come in punto di morte? Mi sono ammazzato a lavorare... Mi sono ammazzato a far la roba... Ora arrischio anche la pelle, a sentir voi!... E che ne ho avuto, eh? ditelo voi!...