< Mastro-don Gesualdo < Parte seconda
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II.




C’era un gran fermento in paese. S’aspettavano le notizie di Palermo. Bomma che teneva cattedra nella farmacia, e Ciolla che sbraitava di qua e di là. Degli arruffapopolo stuzzicavano anche i villani con certi discorsi che facevano spalancare loro gli occhi: Le terre del comune che uscivano di casa Zacco dopo quarant’anni... un prezzo che non s’era mai visto l’eguale!... Quel mastro don Gesualdo aveva le mani troppo lunghe... Se avevano fatto salire le terre a quel prezzo voleva dire che c’era ancora da guadagnarci su!... Tutto sangue della povera gente! Roba del comune... Voleva dire che ciascuno ci aveva diritto!... Allora tanto valeva che ciascuno si pigliasse il suo pezzetto!

Fu una domenica, la festa dell’Assunta. La sera innanzi era arrivata una lettera da Palermo che mise fuoco alla polvere, quasi tutti l’avessero letta. Dallo spuntare del giorno si vide la Piazza Grande piena zeppa di villani: un brulichìo di berrette bianche; un brontolìo minaccioso. Fra Girolamo dei Mercenari, che era seduto all’ombra, insieme ad altri malintenzionati, sugli scalini dinanzi allo studio del notaro Neri, come vide passare il barone Zacco colla coda fra le gambe, gli mostrò la pistola che portava nel manicone.

— La vedete, signor barone?... Adesso è finito il tempo delle prepotenze!... D’ora innanzi siam tutti eguali!... — Correva pure la voce dei disegni che aveva fatto fra Girolamo: lasciar la tonaca nella cella, e pigliarsi una tenuta a Passaneto, e la figliuola di Margarone in moglie, la più giovane.

Il notaro ch’era venuto a levar dallo studio certe carte interessanti, dovette far di cappello a fra Girolamo per entrare: — Con permesso!... signori miei!... — Poi andò a raggiungere don Filippo Margarone nella piazzetta di Santa Teresa: — Sentite qua; ho da dirvi una parola!... — E lo prese per un braccio, avviandosi verso casa, seguitando a discorrere sottovoce. Don Filippo allibbiva ad ogni gesto che il notaro trinciava in aria; ma si ostinava a dir di no, giallo dalla paura. L’altro gli strinse forte il braccio, attraversando la viuzza della Masera per salire verso Sant’Antonio. — Li vedete? li sentite? Volete che ci piglino la mano, i villani, e ci facciano la festa? — La piazza, in fondo alla stradicciuola, sembrava un alveare di vespe in collera. Nanni l’Orbo, Pelagatti, altri mestatori, eccitatissimi, passavano da un crocchio all’altro, vociferando, gesticolando, sputando fiele. Gli avventori di mastro Titta si affacciavano ogni momento sull’uscio della bottega, colla saponata al mento. Nella farmacia di Bomma disputavasi colle mani negli occhi. Dirimpetto, sul marciapiede del Caffè dei Nobili, don Anselmo il cameriere aveva schierate al solito le seggiole al fresco; ma non c’era altri che il marchese Limòli, col bastone fra le gambe, il quale guardava tranquillamente la folla minacciosa.

— Cosa vogliono, don Anselmo? Che diavolo li piglia oggi? Lo sapete?

— Voglíono le terre del comune, signor marchese. Dicono che sinora ve le siete godute voialtri signori, e che adesso tocca a noi, perchè siamo tutti eguali.

— Padroni! padronissimi! Quanto a me non dico di no! Tutti eguali!... Portatemi un bicchier d’acqua, don Anselmo.

Di tanto in tanto dal Rosario o dalla via di San Giovanni partiva come un’ondata di gente, e un brontolìo più minaccioso, che si propagava in un baleno. Santo Motta allora usciva dall’osteria di Pecu-Pecu, e si metteva a vociare, colla mano sulla guancia:

— Le terre del comune!... Chi vuole le terre del comune!... Uno!... due!... tre!... — E terminava con una sghignazzata.

— Largo!... largo!... — La gente correva verso la Masera. Al disopra della folla si vide il baronello Rubiera colla frusta in aria, e la testa del suo cavallo che sbuffava spaventato. Il campiere che gli stava alle costole, armato sino ai denti, gridava come un ossesso: — Signor barone!... Questa non è giornata!... Oggi ci vuol prudenza!... — Dalla parte di Sant’Agata comparve un momento anche il signor Capitano, per intimorire la folla ammutinata colla sua presenza. Si piantò in cima alla scalinata, appoggiato alla canna d’India, don Liccio Papa dietro, che ammiccava al sole, con tanto di tracolla bianca attraverso la pancia. Ma vedendo quel mare di teste se la svignarono subito tutti e due. Alle finestre facevano capolino dei visi inquieti, dietro le invetriate, quasi piovesse. Il palazzo Sganci chiuso ermeticamente, e don Giuseppe Barabba appollaiato sull’abbaino. Lo stesso Bomma aveva sfrattato gli amici prima del solito, per timore dei vetri. Di tanto in tanto, nel terrazzo dei Margarone, al disopra dei tetti che si accavallavano verso il Castello, compariva la papalina e la faccia gialla di don Filippo. A mezzogiorno, appena suonò la messa grande, ciascuno se ne andò pei fatti suoi; e rimase solo a vociare Santo Motta, nella piazza deserta.


— Avete visto com’è andata a finire? — Ciolla corse a desinare lui pure. Don Liccio Papa, adesso che non c’era più nessuno, si fece vedere di nuovo per le vie, con la mano sulla sciaboletta, guardando fieramente gli usci chiusi. Infine entrò da Pecu-Pecu, e si posero a tavola con compare Santo.

— Avete visto com’è andata a finire? — Ciolla soleva desinare in fretta e in furia col cappello in testa e il bastone fra le gambe, per tornar subito in piazza a mangiar l’ultimo boccone, portandosi in tasca una manciata di lupini o di ceci abbrustoliti, d’inverno anche con lo scaldino sotto il tabarro, bighellonando, dicendo a ciascuno la sua, sputacchiando di qua e di là, seminando il terreno di bucce. — Avete visto com’è andata a finire? — Faceva la prima tappa dal calzolaio, poi dal caffettiere, appena apriva, senza prendere mai nulla, girava a seconda dell’ombra, d’inverno in senso inverso, cercando il sole. E le cose tornarono ad andare pel suo verso, al pari di Ciolla. Giacinto mise fuori i tavolini pei sorbetti, don Anselmo schierò le seggiole sul marciapiede del Caffè dei Nobili. Rimanevano le ultime nuvole del temporale: dei capannelli qua e là, dinanzi alla bottega di Pecu-Pecu e al Palazzo di Città; gente che guardava inquieta, curiosi che correvano e si affollavano al più piccolo rumore. Ma del resto ogni cosa aveva ripreso l’aspetto solito delle domeniche. L’arciprete Bugno che stava un’ora a leccare il sorbetto col cucchiarino; il marchese e gli altri nobili seduti in fila dinanzi al Caffè; Bomma predicando in mezzo al solito circolo, sull’uscio della farmacia; uno sciame di contadini un po’ più in là, alla debita distanza; e ogni dieci minuti la vecchia berlina del barone Mèndola che scarrozzava la madre di lui, sorda come una talpa, dal Rosario a Santa Maria di Gesù: le orecchie pelose e stracche delle mule che ciondolavano fra la folla, il cocchiere rannicchiato a cassetta, colla frusta fra le gambe, accanto al cacciatore gallonato, colle calze di bucato che sembravano imbottite di noci, e le piume gialle del cappellone della baronessa che passavano e ripassavano su quell’ondeggiare di berrette bianche.

Tutt’a un tratto accadde un fuggi fuggi: una specie di rissa dinanzi all’osteria. Don Liccio Papa cercava d’arrestare Santo Motta, perchè aveva gridato la mattina; e il capitano l’incitava da lontano, brandendo la canna d’India: — Ferma! ferma!... la giustizia!

Ma Santo si liberò con uno spintone, e prese a correre verso Sant’Agata. La folla fischiava ed urlava dietro allo sbirro che tentava d’inseguirlo. — Ahi! ahi! — disse Bomma ch’era salito su di una sedia per vedere. — Se non rispettano più l’autorità!... — Tavuso gli fece segno di tacere, mettendosi l’indice attraverso la bocca. — Sentite qua, don Bastiano! — E si misero a discorrere sottovoce, tirandosi in disparte. Dalla Maddalena scendeva lemme lemme il notaro, col bastone dietro la schiena. Bomma cominciò a fargli dei segni da lontano; ma il notaro finse di non accorgersene; accennò al Capitano che s’avviava verso il Collegio, ed entrò in chiesa anche lui dalla porta piccola. Il Capitano passando dinanzi alla farmacia fulminò i libertini di un’occhiataccia, e borbottò, rivolto al principale:

— Badate che avete moglie e figliuoli!...

— Sangue di!... corpo di!... — voleva mettersi a sbraitare il farmacista. In quel momento suonava la campanella della benedizione, e quanti erano in piazza s’inginocchiarono. Poco dopo, Ciolla, che ingannava il tempo sgretolando delle fave abbrustolite, seduto dinanzi alla bottega del sorbettiere vide una cosa che gli fece drizzar le orecchie: il notaro Neri che usciva di chiesa insieme al canonico Lupi, e risalivano verso la Maddalena, passo passo, discorrendo sottovoce. Il notaro scrollava le spalle, guardando sottecchi di qua e di là. Ciolla tentò di unirsi a loro, ma essi lo piantarono lì. Bomma, da lontano, non li perdeva di vista dimenando il capo.

— Badate a quel che fate!... Pensate alla vostra pelle! — gli disse il Capitano passandogli di nuovo accanto.


- Becco!... - voleva gridargli dietro il farmacista. - Badate a voi piuttosto!... - Ma il dottore lo spinse dentro a forza. Ciolla era corso dietro al canonico e al notaro Neri per la via di San Sebastiano, e li vide ancora fermi sotto il voltone del Condotto, malgrado il gran puzzo, quasi al buio, che discorrevano sottovoce, gesticolando. Appena s’accorsero del Ciolla se la svignarono in fretta, l’uno di qua e l’altro di là. Il notaro continuò a salire per la stradicciuola sassosa, e il canonico scese apposta a rompicollo verso San Sebastiano, fermando il Ciolla come a caso.

- Quel notaro... me ne ha fatta una!... Aveva il consenso di massaro Sbrendola... un contratto bell’e buono... e ora dice che non si rammenta!

- Va là, va là, che non me la dai a bere! - mormorò Ciolla fra di sè, appena il canonico ebbe voltate le spalle. E corse subito alla farmacia:

- Gran cose c’è per aria! Cani e gatti vanno insieme! Gran cose si preparano! - Tavuso gonfiò le gote e non rispose. Lo speziale invece si lasciò scappare: - Lo so! lo so!

E si picchiò la mano aperta sulla bocca, fulminato dall’occhiata severa che gli saettò il dottore.

Verso due ore di notte, don Gesualdo stava per mettersi a cenare, quando venne a cercarlo in gran mistero il canonico, travestito da pecoraio. Bianca fu lì lì per abortire dallo spavento.


— Don Gesualdo siamo pronti, se volete venire; gli amici vi aspettano.

Ma gli tremava la voce al poveraccio. Lo stesso don Gesualdo, al momento di buttarsi proprio in quella faccenda, gli vennero in mente tante brutte idee; si fece pallido, e gli cadde la forchetta di mano. Bianca poi si alzò convulsa, incespicando qua e là, pigliandosela col canonico, che metteva in quell’impiccio un padre di famiglia.

— Se fate così!... — balbettò il canonico; — se mi fate anche la jettatura... allora, buona notte!

Don Gesualdo cercava di volgerla in ridere, colle labbra smorte — Bravo canonico! Adesso si vedrà se siete un uomo!... Sono contento, vedi, Bianca! Sono contento d’andare magari verso il precipizio, per vedere che cominci ad affezionarti a me e alla casa...

Tutto sudato, colle mani un po’ tremanti, si imbacuccò ben bene in uno scapolare, per prudenza, e scesero in istrada. Non c’era anima viva. Sul terrazzo del Collegio una mano ignota aveva spento finanche il lampione dinanzi alla statua dell’Immacolata: una cosa da fare accapponar la pelle, quella sera! Egli allora si sentì stringere il cuore da una tenerezza insolita, pensando alla casa e ai parenti.

— Povera Bianca! Avete visto? È buona, sì, in fondo... Non lo credevo, davvero!...

— Zitto! — interruppe il canonico. — Se vi fate conoscere alla voce, è inutile nascondersi e sudare come bestie!

Ogni momento andava voltandosi, temendo di essere spiati. Arrivati nella via di San Giovanni videro un’ombra che andava in su verso la piazza, e il canonico disse piano:

— Vedete?... È uno dei nostri!... Va dove andiamo noi.

Era in un magazzino di Grancore, giù nelle stradicciuole tortuose verso San Francesco, che sembravano fatte apposta. Una casetta bassa che aveva una finestra illuminata per segnale. Si bussavano tre colpi in un certo modo alla porticina dove si giungeva scendendo tre scalini; si attraversava un gran cortile oscuro e scosceso, e in fondo c’era uno stanzone buio dove si capiva che stava molta gente a confabulare insieme dal sussurrìo che si udiva dietro l’uscio. Il canonico disse: — È qui! — e fece il segnale convenuto.

Tutti e due col cuore che saltava alla gola. Per fortuna in quel momento giunse un altro congiurato, imbacuccato come loro, camminando in punta di piedi sui sassi del cortile, e ripetè il segnale istesso.

— Don Gesualdo, — disse il notaro Neri cavando il naso da una gran sciarpa. — Siete voi? Vi ho riconosciuto al canonico che sembra un cucco, poveraccio!


   Il notaro la pigliava allegramente. Narrava che a Palermo avevano fatto il pasticcio; avevano ammazzato il principe di Aci e s’erano impadroniti di Castellammare: — Chi comanda adesso è un prete, certo Ascenso!
   — Ah? — rispose il canonico che si sentiva in causa...— Ah?
   — Silenzio per ora!... Andiamo adagio! Sapete com’è?... a chi deve prima attaccare il campanello al gatto! E ogni galantuomo non vorrebbe mettere il piede in trappola. Ma se siamo in tanti... C’è anche il barone Zacco stasera.
   — Che aspettiamo ad entrare, signori miei? — interruppe don Gesualdo a quella notizia, coraggioso come un leone.
   Quando tornarono ad uscire, dopo un gran pezzo, erano tutti più morti che vivi. Bomma sforzavasi di fare il gradasso; Tavuso non diceva una parola; e il notaro stava soprapensieri anche lui. Zacco corse ad attaccarsi al braccio di don Gesualdo, quasi fossero divenuti fratelli davvero. — Sentite, cugino, ho da parlarvi. — E seguitarono ad andare a braccetto in silenzio.
   — Ssst!... un fischio!... verso i Cappuccini!... — Il barone mise mano alla pistola: tutti con un gran batticuore. Si udirono abbaiare dei cani. — Fermo!... — esclamò il canonico sottovoce, afferrando il braccio armato del barone che mirava al buio, — è fra Girolamo, che non vuol esser visto da queste parti! — Appena si udì richiudere l’uscio, nel vano del quale era balenata una sottana bianca, il farmacista borbottò col fiato ai denti: — L’abbiamo scappata bella, parola d’onore! — Il barone invece strinse forte il braccio di don Gesualdo senza dir nulla. Poi lasciò andare ciascuno per la sua strada, Bomma in su, verso la Piazza Grande, il canonico a piè della scalinata che saliva a San Sebastiano. — Da questa parte, don Gesualdo... venite con me. — E gli fece fare il giro lungo pei Cappuccini, risalendo poi verso Santa Maria di Gesù per certe stradicciuole buie che non si sapeva dove mettere i piedi. A un tratto si fermò guardando faccia a faccia il suo amico novello con certi occhi che luccicavano al buio.

— Don Gesualdo, avete sentito quante belle chiacchiere? Adesso siamo tutti fratelli. Nuoteremo nel latte e nel miele, d’ora in poi... Voi che ci credete, eh?

L’altro non disse nè sì nè no, prudente, aspettando il seguito.

— Io no... Io non mi fido di tutti questi fratelli che non mi ha partorito mia madre.

— Allora perchè siete venuto, vossignoria?

— Per non farci venire voi, caspita! Io non fo misteri. Giuochiamo a tagliarci l’erba sotto i piedi fra di noi che abbiamo qualcosa da perdere, ed ecco il bel risultato! Far la minestra per i gatti, e arrischiare la roba e la testa!... Io bado ai miei interessi, come voi... Non ho i fumi che hanno tanti altri... Parenti! parentissimi! quanto a me volentieri... Allora mettiamoci d’accordo piuttosto fra di noi...

— Ebbene? che volete fare?

— Ah? che voglio fare? La pigliate su quel verso? Mi fate lo gnorri?... Allora sia per non detto... Ciascuno il suo interesse! Fratelli! Carbonari! Faremo la rivoluzione! metteremo il mondo a soqquadro anche!... Io non ho paura!... — Nel calore della disputa il barone si era addossato all’uscio di un cortile. Un cane si mise a latrare furiosamente. Zacco spaventato se la diede a gambe colla pistola in pugno, e don Gesualdo dietro di lui, ansante. Prima di giungere in piazza di Santa Maria di Gesù, uno che andava correndo lo fermò mettendogli la mano sul petto.

— Signor don Gesualdo!... dove andate?... c’è la giustizia a casa vostra!

Quello che temeva il canonico! quello che temeva Bianca! Egli correva al buio, senza saper dove, con una gran confusione in testa, e il cuore che voleva uscirgli dal petto. Poi, udendo colui che gli arrancava dietro, con un certo rumore quasi picchiasse in terra col bastone, gli disse: — E tu chi sei?


— Nardo, il manovale, quello che ci lasciò la gamba sul ponte. Non mi riconoscete più, vossignoria? Donna Bianca mi ha mandato a svegliare di notte.

E narrava com’era arrivata la Compagnia d’Arme, all’improvviso, a quattr’ore di notte. Il Capitano e altri Compagni d’Arme erano in casa di don Gesualdo. Lassù, verso il Castello, vedevansi luccicare dei lumi; c’era pure una lanterna appesa dinanzi alla porta dello stallatico, al Poggio, e dei soldati che strigliavano. Più in là, nelle vicinanze della Piazza Grande, si udivano di tanto in tanto delle voci: un mormorìo confuso, dei passi che risuonavano nella notte, dei cani che abbaiavano per tutto il paese.

Don Gesualdo si fermò a riflettere: — Dove andiamo, vossignoria? — chiese Nardo. — Ci ho pensato. Non far rumore. Ah! Madonna Santissima del Pericolo! Va a chiamare Nanni l’Orbo. Lo conosci? il marito di Diodata?

Cominciava ad albeggiare. Ma nelle viottole fuori mano che avevano preso non s’incontrava ancora anima viva. La casuccia di Diodata era nascosta fra un mucchio di casupole nerastre e macchie di fichi d’India, dove il fango durava anche l’estate. C’era un pergolato sul ballatoio, e un lume che trapelava dalle imposte logore.

— Bussa tu, se mai... — disse don Gesualdo.

Diodata al vedersi comparire dinanzi il suo antico padrone ansante e trafelato si mise a tremare come una foglia.

— Che volete da me a quest’ora?... Per l’amor di Dio! lasciatemi in pace, don Gesualdo!... Se torna mio marito!... È uscito or ora, per cogliere quattro fichi d’India!... qui accanto.

— Bestia! — disse lui. — Ho altro pel capo! Ci ho la giustizia alle calcagna!...

— Che c’è? — chiese Diodata spaventata.

Egli colla mano le fece segno di star zitta. In quel momento tornò correndo compare Nardo; la gamba di legno si udiva da lontano sull’acciottolato.

— Eccolo!... eccolo che viene!...

Entrò Nanni l’Orbo, torvo, colla canna da cogliere i fichi d’India in spalla, e gli occhi biechi che fulminavano di qua e di là. Invano Diodata, colle braccia in croce giurava e spergiurava.

— Padron mio! — esclamò Nanni — a che giuoco giuochiamo? Questa non è la maniera!...

— Bestia! — gridò infine don Gesualdo, scappandogli la pazienza. — Ho la forca dinanzi agli occhi, e tu vieni a parlarmi di gelosia!

Allo strepito accorsero i vicini — Lo vedete? — ripigliò Nanni infuriato. — Che figura fo dinanzi a loro, padron mio? In coscienza, quel po’ che avete dato a costei per maritarla è una miseria, in confronto della figura che mi fate fare!

— Taci! Farai correre gli sbirri con quel chiasso! Che vuoi? Ti darò quello che vuoi!...

— Voglio l’onor mio, don Gesualdo! L’onor mio che non si compra a denari!

Cominciarono ad abbaiare anche i cani del vicinato.— Vuoi la chiusa del Carmine?... un pezzo che ti fa gola!

Infine compare Nardo riuscì a metterli d’accordo sulla chiusa del Carmine. — Corpo di Giuda! La roba serve per queste occasioni... carceri, malattie e persecuzioni... Voi l’avete fatta, don Gesualdo, e serve per salvare la vostra pelle...

Don Gesualdo con una faccia da funerale brontolò:

— Parla! Sbraita! Hai ragione! Adesso hai ragione tu!

— Considerate dunque il vostro prossimo, vossignoria! La moglie da mantenere... I figli che nasceranno... Se mi tornano a casa anche gli altri... quelli che son venuti prima, bisogna mantenerli come fossero miei... perchè sono il marito di Diodata... La gente dirà magari che li ho messi al mondo io!...

— Basta! basta! Se t’ho detto di sì per la chiusa!

— Parola di galantuomo? Davanti a questi testimoni? Quand’è così... giacchè mi dite che siete venuto soltanto per salvare la pelle, potete rimanere tutto il tempo che vi piace. Sono un buon diavolaccio, lo sapete!...

S’era fatto tardi. Compare Nanni, completamente rabbonito, propose anche di andare a vedere quel che accadeva fuori:

— Voi fate liberamente come se foste in casa vostra, don Gesualdo... Compare Nardo verrà con me. Al ritorno, per segnale, busserò tre colpi all’uscio. Ma se no, non aprite neanche al diavolo.

Era un terrore pel paese: porte e finestre ancora chiuse, Compagni d’Arme per le vie, rumore di sciabole e di speroni. Le signorine Margarone, in fronzoli e colla testa irta di ciambelle come un fuoco d’artificio, correvano ogni momento al balcone. Don Filippo, tronfio e pettoruto, se ne stava adesso seduto nel Caffè dei Nobili, insieme al Capitano Giustiziere e l’Avvocato Fiscale, facendo tremare chi passava colla sola guardatura. Nella stalla di don Gesualdo dei trabanti governavano i cavalli, e il Comandante fumava al balcone, in pantofole, come in casa sua.

Nanni l’Orbo tornò ridendo a crepapelle. Prima di entrare però bussò al modo che aveva detto, tossì, si soffiò il naso, pure si trattenne un po’ a discorrere ad alta voce con una vicina che si pettinava sul ballatoio. Don Gesualdo stava mangiando una insalata di cipolle, onde prevenire qualche malattia causata dallo spavento. — Prosit! prosit, don Gesualdo! A casa vostra ci ho trovato dei forestieri, tale e quale come voi qui da me. Il barone Zacco corre ancora!... L’hanno visto prima dell’alba più in là di Passaneto, figuratevi! a casa del diavolo!... dietro una siepe, più morto che vivo!... Sua moglie fa come una pazza... Sono stato anche a cercare del notaro Neri, se s’ha a scrivere due parole della chiusa del Carmine che date a mia moglie pei servizi prestati... Non che non mi fidi... sapete bene... per la vita e per la morte. Nessuno l’ha più visto, il notaro! Dicono ch’è nascosto nel monastero di San Sebastiano... vestito da donna... sissignore! Gli sbirri cercano da per tutto! Ma qui non avete da temere, vossignoria!... Udite? udite?

Sembrava che si divertisse a fare agghiacciare il sangue nelle vene al prossimo suo, quel briccone! Udivasi infatti un vocìo di comari, un correre di scarponi grossi strilli di ragazzi. Diodata s’arrampicò sino all’abbaino del granaio per vedere. Poi Nanni venne a dire:

— È il viatico, Dio liberi!... Va in su verso sant’Agata. Ho visto il canonico Lupi che portava il Signore... cogli occhi a terra!... una faccia da santo, com’è vero Iddio!

— Stasera, appena è scuro, mi farai trovare una cavalcatura laggiù alla Masera, e mi darai qualche cosa da travestirmi; — disse don Gesualdo, che sembrava più smorto alla luce dell’abbaino.

— Perchè? Non vi piace più lo stare in casa mia? Diodata vi avrebbe fatto qualche mancanza?


— No, no... Mi pare mill’anni d’esser lontano...

— Qui però non avete da temere... Gli sbirri non vengono a cercarvi qui! A casa vostra piuttosto! Guardatevi!...

Infatti Bianca la sera innanzi s’era visto capitare a tre ore di notte il Capitan d’Arme, un bell’uomo colla barba a collana e i baffi alla militare, che recava il biglietto d’alloggio. Bianca, già inquieta per suo marito, non sapendo che fare, aveva mandato a chiamare lo zio Limòli, il quale giunse sbadigliando e di cattivo umore. Invano il Capitan d’Arme accarezzandosi i baffi che aveva lasciato crescere da poco, le diceva colla voce grossa:

— Non temete!... Calmatevi, bella signora!... Noi militari siamo galanti col bel sesso!...

— Poi — aggiunse il marchese — questi qua sono militari per modo di dire; come io ho fatto il voto di castità perchè sono cavaliere di Malta.

Il Capitano si accigliò, ma l’altro, senza accorgersene continuò, battendogli familiarmente sulla spalla:

— Vi conosco, don Bastiano!... Eravate piccolo così, colle brache aperte, quando si faceva delle scappatelle insieme a vostro padre... Allora il voto mi dava noia come vi dà noia adesso quella stadera che portate appesa al fianco... Bei tempi!... Bell’uomo vostro padre! Il cuore e la borsa sempre aperti!...

Don Marcantonio Stangafame!... dei Stangafame di Ragusa!... una delle prime famiglie della Contea! Peccato che siate in tanti! L’avete indovinata a farvi nominare Capitan d’Arme!... Quattrocent’onze all’anno, per rispondere dei furti campestri... E’ una bella somma... Vi rimane in tasca tale e quale... poichè il territorio è tranquillo!... Una bagattella soltanto pei dodici soldati che vi tocca mantenere... due tarì al giorno per ciascuno, eh?...

— Basta, corpo di... bacco!... — gridò il Capitan d’Arme battendo in terra la sciabola. — Sembrami che vogliate burlarvi di me, corpo di... bacco!

— Ehi, ehi! Adagio, signor capitano! Sono il marchese Limòli, e ho ancora degli amici a Napoli per farvi scapitanare e tagliare i baffi novelli, sapete!

Capitò in quel momento il ragazzetto del sagrestano che veniva a fare un’imbasciata di gran premura, balbettando, imbrogliandosi, tornando sempre a ripetere la stessa cosa rosso dalla suggezione. Il marchese, che cominciava a farsi un po’ sordo, tendeva l’orecchio, gli faceva dei versacci, lo intimidiva maggiormente strillando: — Eh? che diavolo vuoi?

Ma Bianca mise un grido straziante, un grido che fece rimanere lo zio a bocca aperta, e scappò per la casa cercando il manto, cercando qualcosa da buttarsi in capo, per uscire di casa, per correre subito.

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