< Mastro-don Gesualdo < Parte seconda
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Parte seconda - Capitolo Quinto
Parte seconda - Cap IV Parte terza - Cap I



V.



Don Ninì aveva sperato di tenere segreto il negozio. Ma sua madre da un po’ di tempo non si dava pace, vedendolo così mutato, dispettoso, sopra pensieri, col viso acceso e la barba rasa ogni mattina. La notte non chiudeva occhio almanaccando dove il suo ragazzo potesse trovare i denari per tutti quei fazzoletti di seta e quelle boccettine d’acqua d’odore. Gli aveva messi alle calcagna Rosaria ed Alessi. Interrogava il fattore e la gente di campagna. Teneva sotto il guanciale le chiavi del magazzino e della dispensa. Come le parlasse il cuore, poveretta! Il cugino Limòli era arrivato a indicarle la signora Aglae che scutrettolava tutta in fronzoli. - La vedete? è quella lì. Che ve ne sembra, eh, di vostra nuora? Siete contenta? - Proprio, come le avesse lasciata la jettatura don Diego Trao, morendo!

Nei piccoli paesi c’è della gente che farebbe delle miglia per venire a portarvi la cattiva nuova. Una mattina la baronessa stava seduta all’ombra della stoia sul balcone, imbastendo alcuni sacchi di canovaccio che Rosaria poi le cuciva alla meglio, accoccolata sullo scalino, aguzzando gli occhi e le labbra perchè l’ago non le sfuggisse dalle manacce ruvide voltandosi di tanto in tanto a guardare giù nella stradicciuola deserta.

— E tre! — si lasciò scappare Rosaria vedendo Ciolla che ripassava con quella faccia da usciere, sbirciando la casa della baronessa da cima a fondo, fermandosi ogni due passi, tornando a voltarsi quasi ad aspettare che lo chiamassero. La Rubiera che seguiva da un pezzetto quel va e vieni, di sotto gli occhiali, si chinò infine a fissare il Ciolla in certo modo che diceva chiaro: Che fate e che volete?

— Benedicite. — Cominciò ad attaccar discorso lui. E si fermò su due piedi, appoggiandosi al muro di rimpetto, col cappello sull’occipite e in mano il bastone che sembrava la canna dell’agrimensore, aspettando. La baronessa per rispondere al saluto gli domandò, facendo un sorrisetto agrodolce:

— Che fate lì? Mi stimate la casa? Volete comprarla?

— Io no!... Io no, signora mia!...

— Io no! — Tornò a dire più forte, vedendo che lei s’era rimessa a cucire. Allora la Rubiera si chinò di nuovo verso la stradicciuola, cogli occhiali lucenti, ed entrambi rimasero a guardarsi un momento così, come due basilischi.

— Se volete dirmi qualche cosa, salite pure.

— Nulla, nulla, — rispose Ciolla; e intanto s’avviava verso il portone. Rosaria tirò la funicella e si mise a borbottare;

— Che vuole adesso quel cristiano? A momenti è ora d’accendere il fuoco. Ma intanto si udiva lo schiamazzo degli animali nel cortile e i passi di Ciolla che saliva adagio adagio. Egli entrò col cappello in testa, ossequioso, ripetendo: Deo gratias! Deo gratias! lodando l’ordine che regnava da per tutto in quella casa.

— Non ne nascono più delle padrone di casa come voi, signora baronessa! Ecco! ecco! siete sempre lì, a sciuparvi la vista sul lavoro. Ne hanno fatta della roba quelle mani!... Non ne hanno scialacquata, no!

La baronessa che aspettava coll’orecchio teso cominciò ad essere inquieta. Intanto Rosaria aveva sbarazzato una seggiola del canovaccio che vi era ammucchiato sopra, e stava ad ascoltare, grattandosi il capo.

— Va a vedere se la gallina ha fatto l’uovo, — disse la padrona. E tornò a discorrere col Ciolla, più affabile del consueto, per cavargli di bocca quel che aveva da dire. Ma Ciolla non si apriva ancora. Parlava del tempo, dell’annata, del fermento che aveva lasciato in paese la Compagnia d’Arme, dei guai che erano toccati a lui. — I cenci vanno all’aria, signora mia, e chi ha fatto il danno invece se la passa liscia. Benedetta voi che ve ne state in casa, a badare ai vostri interessi. Fate bene! Avete ragione! Tutto ciò che si vede qui è opera vostra. Non lo dico per lodarvi! Benedette le vostre mani! Vostro marito, buon’anima!... via, non parliamo dei morti... le mani le aveva bucate... come tutti i Rubiera... I fondi coperti di ipoteche... e la casa... Infine cos’era il palazzetto dei Rubiera?... Quelle cinque stanze lì?...

La baronessa fingeva d’abboccare alle lodi, dandogli le informazioni che voleva, accompagnandolo di stanza in stanza, spiegandogli dove erano stati aperti gli usci che mettevano in comunicazione il nuovo col vecchio.

Ciolla seguitava a guardare intorno cogli occhi da usciere accennando del capo, disegnando colla canna d’India: — Per l’appunto! quelle cinque stanze lì. Tutto il resto è roba vostra. Nessuno può metterci le unghie nella roba vostra finchè campate... Dio ve la faccia godere cent’anni! una casa come questa... una vera reggia! vasta quanto un convento! Sarebbe un peccato mortale, se riuscissero a smembrarvela i vostri nemici... chè ne abbiamo tutti, nemici!...

Essa, che si sentiva impallidire, finse di mettersi a ridere: una risata da fargli montar la mosca al naso, a quell’altro.

— Cosa? Ho detto una minchioneria? Nemici ne abbiamo tutti. Mastro-don Gesualdo, esempigrazia!...

Quello non vorrei trovarmelo mischiato nei miei interessi....

Fingeva anche lui di guardarsi intorno sospettoso, quasi vedesse da per tutto le mani lunghe di mastro— don Gesualdo.

— Quello, se si è messo in testa di ficcarvisi in casa.... a poco a poco.... da qui a cent’anni.... come fa il riccio....

La baronessa era tornata sul balcone a prendere aria, senza dargli retta, per cavargli di bocca il rimanente. Egli nicchiò ancora un poco, disponendosi ad andarsene, cavandosi il cappello per darvi una lisciatina, cercando la canna d’India che aveva in mano, scusandosi delle chiacchiere colle quali le aveva empito la testa sino a quell’ora.

— Che avete da fare, eh? Dovete vestirvi per andare al battesimo della figliuola di don Gesualdo? Sarà un battesimo coi fiocchi.... in casa Trao!... Vedete dove va a ficcarsi il diavolo, che la bambina di mastro— don Gesualdo va proprio a nascere in casa Trao!... Ci saranno tutti i parenti.... una pace generale.... Siete parente anche voi....

La baronessa continuava a ridere, e Ciolla le teneva dietro, tutti e due guardandosi in viso, cogli occhi soli rimasti serii.

— No? Non ci andate? Avete ragione! Guardatevi da quell’uomo! Non vi dico altro! Vostro figlio è una bestia!... Non vi dico altro!...

— Mio figlio ha la sua roba ed io ho la mia... Se ha fatto delle sciocchezze mio figlio pagherà, se può pagare.... Io no però! Pagherà lui, col fatto suo, con quelle cinque stanze che avete visto.... Non ha altro, per disgrazia.... Ma io la mia roba me la tengo per me.... Son contenta che mio figlio si diverta.... E’ giovane.... Bisogna che si diverta.... Ma io non pago, no!

— Quello che dicono tutti. Mastro— don Gesualdo crede d’essere furbo. Ma stavolta, se mai, ha trovato uno più furbo di lui. Sarebbe bella che gli mantenesse l’amante a don Ninì!... Gli parrebbe di fare le sue follìi di gioventù anche lui!...

La baronessa, dal gran ridere, andava tenendosi ai mobili per non cadere. — Ah, ah!... questa è bella!... Questa l’avete detta giusta, don Roberto!... — Ciolla le andava dietro fingendo di ridere anche lui, spiandola di sottecchi, indispettito che se la prendesse così allegramente. Ma Rosaria, mentre veniva a pigliar la tela, vide la sua padrona così pallida che stava per chiamare aiuto.

— Bestia! Cosa fai? Perchè rimani lì impalata?

Accompagna don Roberto piuttosto! — Così Ciolla si persuase ad andarsene finalmente, sfogandosi a brontolare colla serva:

— Com’è allegra la tua padrona! Ho piacere, sì! L’allegria fa buon sangue e fa vivere lungamente. Meglio! meglio!

Rosaria, tornando di sopra, vide la padrona in uno stato spaventevole, frugando nei cassetti e negli armadi, colle mani che non trovavano nulla, gli occhi che non ci vedevano, la schiuma alla bocca, vestendosi in tutta fretta per andare al battesimo del cugino Motta. — Sì, ci andrò.... Sentiremo cos’è.... E’ meglio sapere la verità. — La gente che la vedeva passare per le strade, trafelata e col cappellino di traverso non sapeva che pensare. Nella piazzetta di Sant’Agata c’era una gran curiosità, come giungevano gli invitati al battesimo in casa Trao, e don Luca il sagrestano che andava e veniva, coi candelieri e gli arnesi sacri sotto il braccio. Speranza ogni momento si affacciava sul ballatoio, scuotendo le sottane, piantandosi i pugni sui fianchi, e si metteva a sbraitare contro quella bambina che le rubava l’eredità del fratello:

— Sarà un battesimo strepitoso! C’è la casa piena.... tutta la nobiltà.... Noi soli, no! Non ci andremo.... per non fare arrossire i parenti nobili.... Non ci abbiamo che vedere, noi!... Nessuno ci ha invitati al battesimo di mia nipote.... Si vede che non è sangue nostro....

Anche il vecchio Motta s’era rifiutato, la mattina, allorchè Gesualdo era andato a pregarlo di mettere l’acquasanta alla nipotina. Seduto a tavola — stava mangiando un boccone — gli disse di no, levando in su il fiasco che aveva alla bocca. Poi, asciugandosi le labbra col dorso della mano, gli piantò addosso un’occhiataccia.

— Vacci tu al battesimo della tua figliuola. E’ affar tuo! Io non son nato per stare fra i signoroni.... Voialtri venite a cercarmi soltanto quando avete bisogno di me.... per chiudere la bocca alla gente.... No, no.... quando c’è da guadagnare qualcosa non vieni a cercarmi, tu!... Lo sai? L’appalto della strada.... la gabella....

Mastro Nunzio voleva snocciolare la litania dei rimproveri, intanto che ci si trovava. Ma Gesualdo, il quale aveva già la casa piena di gente, e sapeva che non gli avrebbe mai fatto chinare il capo se aveva detto di no, se ne andò colle spalle e il cuore grossi. Non era allegro neppur lui, poveraccio, sebbene dovesse far la bocca ridente ai mirallegro e ai salamelecchi. Però infine con Nanni l’Orbo, più sfacciato, che gli rompeva le tasche chiedendogli i confetti a piè della scala, si sfogò:

— Sì!... Va a vedere!... Va a vedere come s’è storta fin la trave del tetto, ora ch’è nata una bambina in questa casa!

Barabba e il cacciatore della baronessa Mèndola avevano dato una mano a scopare, a spolverare, a rimettere in gambe l’altare sconquassato, chiuso da tant’anni nell’armadio a muro della sala grande che serviva di cappella. La sala stessa era ancora parata a lutto, qual’era rimasta dopo la morte di don Diego, coi ritratti velati e gli alveari coperti di drappo nero torno torno per i parenti venuti al funerale, com’era l’uso nelle famiglie antiche. Don Ferdinando, raso di fresco, con un vestito nero del cugino Zacco che gli si arrampicava alla schiena andava ficcando il naso da per tutto, col viso lungo, le braccia ciondoloni dalle maniche troppo corte, inquieto, sospettoso, domandando a ciascuno:

— Che c’è? Cosa volete fare?

— Ecco vostro cognato, — gli disse la zia Sganci entrando nella sala insieme a don Gesualdo Motta. — Ora dovete abbracciarvi fra di voi, e non tenere in corpo il malumore, con quella creaturina che c’è di mezzo.

— Vi saluto, vi saluto, — borbottò don Ferdinando; e gli voltò le spalle.

Ma gli altri parenti che avevano più giudizio, facevano buon viso a don Gesualdo: Mèndola, i cugini Zacco, tutti quanti. Già i tempi erano mutati; il paese intero era stato sottosopra ventiquattr’ore, e non si sapeva quel che poteva capitare un giorno o l’altro. Oramai, per amore o per forza, mastro— don Gesualdo s’era ficcato nel parentado, e bisognava fare i conti con lui. Tutti perciò volevano vedere la bambina — un fiore, una rosa di maggio. — La zia Rubiera abbracciava Bianca, come una mamma che abbia ritrovata la sua creatura, asciugandosi gli occhi col fazzoletto diventato una spugna.

— No! Non ho peli sullo stomaco!... Non mi pareva vero, dopo d’averti allevata come una figliuola!... Sono una bestia.... Son rimasta una contadina.... tale e quale mia madre, buon’anima.... col cuore in mano....

Bianca tutta adornata sotto il baldacchino del lettone, pallida che sembrava di cera, sbalordita da tutta quella ressa, non sapeva che rispondere, guardava la gente, stralunata, cercava di abbozzare qualche sorriso, balbettando. Suo marito invece faceva la sua parte in mezzo a tutti quegli amici e parenti e mirallegro, col viso aperto e giulivo, le spalle grosse e bonarie, l’orecchio teso a raccogliere i discorsi che si tenevano intorno a lui e dietro le sue spalle. La zia Cirmena, infatuata, rispondeva a coloro che auguravano la nascita di un bel maschiotto, più tardi, che già le femmine sono come la gramigna, e vi scopano poi la casa del bello e del buono per andare a maritarsi....


— Eh... i figliuoli bisogna pigliarseli come Dio li manda, maschi o femmine... Se si potesse andare a sceglierli al mercato... A don Gesualdo non gli mancherebbero i denari per comprare il maschio.

— Non me ne parlate! — interruppe alla fine la zia Rubiera — Non sapete quel che costino i maschi!... Quanti dispiaceri! Lo so io!...

E continuò a sfogarsi all’orecchio di Bianca, accesa sbirciando di sottecchi don Gesualdo per vedere quel che ne dicesse. Don Gesualdo non diceva nulla. Bianca invece, cogli occhi chini, si faceva di mille colori.

— Non lo riconosco più, no!... nemmeno io che l’ho fatto!... Ti rammenti, che figliuol d’oro?... docile, amoroso, ubbidiente... Adesso si rivolterebbe anche a sua madre, per quella donnaccia forestiera... una commediante, la conosci? Dicono che ha i denti e i capelli finti... Deve avergli fatta qualche malìa! Commediante e forestiera, capisci!... lui non ci vede più dagli occhi... Spende l’osso del collo... La gente cattiva... i birboni anche l’aiutano... Ma io non pago, no!... Oh, questo poi, no!

— Zia! — balbettò Bianca con tutto il sangue al viso.

— Che vuoi farci? È la mia croce! Se sapevo tanto piuttosto...

Don Gesualdo badava a chiacchierare col cugino Zacco, tutti e due col cuore in mano, amiconi. La baronessa allora spiattellò la domanda che le bolliva dentro: — E' vero che tuo marito gli presta dei denari... sottomano?... L’hai visto venire qui, da lui?... Di’, che ne sai?

— Certo, certo, — rispose in quel punto don Gesualdo. — I figliuoli bisogna pigliarseli come vengono. — Zacco a conferma mostrò le sue ragazze, schierate in fila come tante canne d’organo, modeste e prosperose. — Ecco! io ho cinque figliuole, e voglio bene a tutte egualmente!

— Sicuro! — rispose Limòli. — È per questo che non volete maritarle.

Donna Lavinia, la maggiore, volse indietro un’occhiata brutta. — Ah, siete qui? — disse il barone. — Siete sempre presente come il diavolo nelle litanie, voi!

Il marchese, che doveva essere il padrino, si era messa la croce di Malta. Don Luca venne a dire che il canonico era pronto, e le signore passarono in sala, con un gran fruscìo di seta, dietro donna Marianna la quale portava la bambina. Dall’uscio aperto vedevasi un brulichìo di fiammelle. Don Ferdinando, in fondo al corridoio, fece capolino, curioso. Bianca dalla tenerezza piangeva cheta cheta. Suo marito ch’era rimasto ginocchioni, come gli aveva detto la Macrì, col naso contro il muro, si alzò per calmarla.

— Zitta... Non ti far scorgere!... Dinanzi a coloro bisogna far buon viso...

Tutt’a un tratto scoppiò giù in piazza un crepitìo indiavolato di mortaletti. Don Ferdinando fuggì via spaventato. Gli altri che assistevano al battesimo corsero al balcone coi ceri in mano. Persino il canonico in cotta e stola. Era Santo, il fratello di don Gesualdo, il quale festeggiava a quel modo il battesimo della nipotina, scamiciato, carponi per terra, colla miccia accesa. Don Gesualdo aprì la finestra per dirgli un sacco di male parole:

— Bestia!... Ne fai sempre delle tue!... Bestia!...

Gli amici lo calmarono: — Poveraccio... lasciatelo fare. È un modo d’esprimere la sua allegria...

La zia Sganci trionfante gli mise sulle braccia la figliuola:

— Eccovi Isabella Trao!

— Motta e Trao! Isabella Motta e Trao! — corresse il marchese. Zacco soggiunse ch’era un innesto. Le due famiglie che diventavano una sola. Però don Gesualdo tenendo la bambina sulle braccia rimaneva alquanto imbroncito. Intanto don Luca, aiutato da Barabba e dal cacciatore, serviva le granite e i dolci. La zia Cirmena, che aveva portato seco apposta il nipotino La Gurna, gli riempiva le tasche e il fazzoletto. Le Zacco invece, poichè la maggiore, contegnosa, non aveva preso nulla, dissero tutte di no, una dopo l’altra, mangiandosi il vassoio cogli occhi. Don Luca incoraggiava a prendere dicendo:

— È roba fresca. Sono stato io stesso ad ordinarla a Santa Maria e al Collegio. Non s’è guardato a spesa.


— Diavolo! — disse Zacco, che cercava l’occasione di mostrarsi amabile. — Diavolo! Vorrei vedere anche questa!... — Gli altri facevano coro. — Ecco che risorgeva casa Trao. Voleri di Dio. Quella bambina stessa che aveva voluto nascere nella casa materna. Il canonico Lupi arrivò anche a congratularsi col marchese Limòli il quale aveva pensato al mezzo di non lasciare estinguere il casato alla morte di don Ferdinando.

— Sicuro, sicuro, — borbottò don Gesualdo. — Era già inteso... V’avevo detto di sì allora... Quando ho detto una parola...

E andò a deporre la figliuola fra le braccia della moglie che le zie si rubavano a vicenda. La baronessa Mèndola voleva sapere cosa dicessero. Zacco, premuroso, venne a chiedere dei confetti per don Ferdinando a cui nessuno aveva pensato.

— Sicuro, sicuro. E’ il padrone di casa.

— Vedete? — osservò la zia Rubiera. — A quest’ora c’è già pel mondo chi deve portarvi via la figliuola e la roba.

Scoppiarono delle risate. Donna Agrippina torse la bocca e chinò a terra gli occhioni che dicevano tante cose, quasi avesse udito un’indecenza. Don Gesualdo rideva anche lui, faceva buon viso a tutti. Alla fine arrischiò anche una barzelletta:

— E quando si marita vi lascia anche il nome dei Trao... La dote, no, non ve la lascia!...


La Rubiera che stimò il momento propizio, e non voleva perdere l’occasione, lo tirò a quattr’occhi vicino al letto, mentre si udivano in fondo al corridoio Mèndola e don Ferdinando i quali litigavano ad alta voce, e tutti corsero a vedere.

— Sentite don Gesualdo; io non ho peli sulla lingua. Volevo parlarvi di quello scapestrato di mio figlio. Aiutami tu, Bianca.

— Io, zia?...

— Scusatemi, io so parlare col cuore in mano... tale e quale come m’ha fatta mia madre... Ora che siete padre anche voi, don Gesualdo capirete quel che devo averci in cuore... che spina... che tormento!...

Guardava ora la nipote ed ora suo marito cogli occhi acuti, col sorriso semplice e buono che le avevano insegnato i genitori pei negozi spinosi. Don Gesualdo stava a sentire tranquillamente. Bianca, imbarazzata da quell’esordio, colla figliuoletta in grembo, sembrava una statua di cera.

— Saprete le chiacchiere che corrono, di Ninì con quella comica? Bene. Di ciò non mi darei pensiero. Non è la prima e l’ultima. Suo padre, buon’anima, era fatto anch’esso così. Ma sinora gli ho impedito di commettere qualche sciocchezza. Adesso però ci sono di mezzo i birboni, i cattivi compagni... Senti, Bianca, io, la mia figliuola, non l’avrei data da battezzare a quel canonico lì!...


Bianca, sbigottita, muoveva le labbra smorte senza arrivare a trovar parole. Don Gesualdo invece aveva fatto la bocca a riso, come la baronessa scappò in quell’osservazione. Essa, udendo che tornava gente, gli domandò infine apertamente:

— Ditemi la verità. V’ha fatto chiedere del denaro in prestito, eh?... Gliene avete dato?

Don Gesualdo rideva più forte. Poi vedendo che la baronessa diveniva rossa come un peperone, rispose:

— Scusate... scusate... Se mai... Perchè non lo domandate a lui?... Questa è bella!... Io non sono il confessore di vostro figlio...

Mèndola irruppe nella camera narrando fra le risate la scena che aveva avuta con quell’orso di don Ferdinando il quale non voleva venire a far la pace col cognato. La Rubiera, senza dir altro, asciugavasi le labbra col fazzoletto ancora appiccicoso di dolciume, mentre i parenti toglievano commiato. Nell’andarsene ciascuno aveva una parola d’elogio sul modo in cui erano andate le cose. Donna Marianna diceva alla Rubiera sottovoce che aveva fatto bene a venire anche lei, per non dar nell’occhio, per far tacere le male lingue... L’altra rispose con un’occhiataccia che donna Agrippina colse al volo:

— M’è giovata assai! Serpi sono! Non vi dico altro. Ci siam messa la vipera nella manica!... Vedrete poi...

Don Gesualdo, rimasto solo colla moglie tracannò di un fiato un gran bicchiere di acqua fresca, senza dir nulla. Bianca disfatta in viso, quasi fosse per sentirsi male, seguiva ogni suo movimento con certi occhi che sembravano spaventati, stringendo al seno la bambina.

— Te’, vuoi bere? — disse lui. — Devi aver sete anche tu.

Ella accennò di sì. Ma il bicchiere le tremava talmente nelle mani che si versò tutta l’acqua addosso.

— Non importa, non importa, — aggiunse il marito. — Adesso nessuno ci vede.

E si mise ad asciugare il lenzuolo col fazzoletto. Poi tolse in braccio la bambina che vagiva, ballottandola per farla chetare, portandola in giro per la camera.

— Hai visto, eh, che gente? che parenti affezionati? Ma tuo marito non se lo mettono in tasca, no.

Fuori, nella piazza, tutti i vicini erano affacciati per vedere uscire gli invitati. Alla finestra dei Margarone, laggiù in fondo, al di sopra dei tetti, c’era pure dell’altra gente che faceva capolino ogni momento. La Rubiera cominciò a salutare da lontano, col ventaglio, col fazzoletto, mentre discorreva col marchese Limòli, talmente accesa che sembrava volessero accapigliarsi.

— Razze di serpi, sono! Cime di birbanti! Se lo mangiano in un boccone quello scomunicato di mio figlio!... Ma prima l’ha da fare con me! Sentite, accompagnatemi un momento dai Margarone... È un pezzo che non ci vediamo... Infine non è un motivo per romperla con dei vecchi amici... una ragazzata... Voi siete un uomo ammodo... e alle volte... una parola a proposito...

Venne ad aprire donna Giovannina con tanto di muso. Si vedeva in fondo l’uscio del salotto buono spalancato; tolte le fodere ai mobili. Un’aria di cerimonia insomma.

— Che c’è? — chiese il marchese entrando. — Cosa accade?

— Io non so nulla! — esclamò donna Giovannina la quale sembrava sul punto di scoppiare a piangere. — Ci sarà gente di là, credo; ma io non ne so nulla.

— Povera bambina! povera bambina! — Il marchese indugiava in anticamera, accarezzando la ragazza. Le aveva preso con due dita il ganascino da canonico, ammiccando con malizia, guardandosi intorno per dirle sottovoce:

— Che vuoi farci? Pazienza! Chi primo nasce primo pasce. Ci sarà donna Fifì, colla mamma, a ricevere le visite, eh? Don Bastiano, eh? il Capitan d’Arme?...

Don Bastiano infatti era lì, nel salotto, vestito in borghese, con abiti nuovi fiammanti che gli rilucevano addosso, raso di fresco, seduto sul canapè accanto alla mamma Margarone, come uno sposo, facendo scivolare di tanto in tanto un’occhiata languida e sentimentale verso la ragazza, lisciandosi i baffoni novelli che non volevano piegarsi. Donna Fifì, al vedere giungere la Rubiera, si ringalluzzì, superbiosa, tubando sottomano col forestiero per farle dispetto.

— Oh, oh, — disse il marchese, salutando don Bastiano ch’era rimasto un po’ grullo. — Siete ancora qui? Bene! bene!

Ed incominciò a discorrere col capitano, intanto che le signore chiacchieravano tutte in una volta, domandandogli perchè la Compagnia d’Arme fosse partita senza di lui, se aveva intenzione di fermarsi un pezzetto, se era contento del paese e voleva lasciare le spalline. Don Bastiano si teneva sulle generali, lodando il paesaggio, il clima, gli abitanti, sottolineando le parole con certi sguardi espressivi rivolti a donna Fifì, la quale fingeva di guardare fuori dal balcone cogli occhi pieni di poesia, e chinava il capo arrossendo a ciascuno di quei complimenti, quasi fossero a lei dedicati. Il marchese domandò a un tratto che n’era di don Filippo, e gli risposero che era uscito per condurre a spasso Nicolino.

— Ah, bene! bene!

La Rubiera si morsicava le labbra aspettando che il cugino Limòli avviasse il discorso sul tema che sapeva. Ma intanto osservava di sottecchi le arie languide di donna Fifì, la quale sembrava struggersi sotto le occhiate incendiarie di don Bastiano Stangafame, e non poteva star ferma sulla seggiola, col seno piatto ansante come un mantice, e i piedini irrequieti che dicevano tante cose affacciandosi ogni momento dal lembo del vestito. La conversazione languiva. Si parlò del battesimo e della gente che c’era stata. Ma ciascuno pensava intanto ai fatti suoi, chiacchierando del più e del meno, cercando le parole, col sorriso distratto in bocca. Solo il marchese sembrava che pigliasse un grande interesse ai discorsi del capitano, quasi non fosse fatto suo. Poi, sbirciando il viso rosso di donna Giovannina che stava a spiare dall’uscio socchiuso, la chiamò a voce alta.

— Avanti, avanti, bella figliuola. Vogliamo vedere quella bella faccia. Siamo qui noi soli, in famiglia...

La mamma e la sorella maggiore fulminarono due occhiataccie addosso alla ragazza, la quale rimaneva sull’uscio, nascondendo le mani di serva sotto il grembiule, vergognosa di esser stata scoperta a quel modo, vestita di casa. Limòli, senza accorgersi di nulla, domandava sottovoce a donna Bellonia:

— Quando la maritiamo quella bella figliuola? Prima tocca alla maggiore, è naturale. Ma poi ricordatevi che ci son qua io per fare il sensale... gratis et amore, ben inteso... Siamo amici vecchi!...

Donna Bellonia andava facendogli li occhiacci, sebbene il marchese fingesse di non badarci. Poi gli disse sottovoce:

— Cosa dite!... che idee da metterle in testa!... Ancora è troppo giovane... quasi quasi ha ancora il vestito corto...

— Vedo! vedo! — rispose il marchese sbirciando le calze bianche di donna Giovannina. Donna Fifì aveva condotto il capitano ad ammirare i suoi fiori sul balcone. Colse un bel garofano, l’odorò a lungo socchiudendo gli occhi, e glielo porse. — Vedo, vedo, — ripetè il vecchietto.

La Rubiera allora volle accomiatarsi, masticando un sorriso, coi fiori gialli che le fremevano sul cappellino. Intanto che le signore barattavano baci ed abbracci, il marchese si rivolse al capitano.

— Mi congratulo!... Mi congratulo tanto... davvero... don Bastiano.

— Perchè?... Di che cosa?... — Il capitano sorpreso e imbarazzato cercava una botta di risposta. Ma l’altro gli aveva già voltato le spalle, salutava le signore con una parola gentile per ciascuna; accarezzava paternamente donna Giovannina che teneva ancora il broncio.

— Che c’è? che c’è? Cosa vuol dire? Le ragazze devono stare allegre. Hai inteso tua madre? Dice che hai tempo di crescere. Su, dunque! allegra!

La Rubiera sentivasi scoppiare sotto la mantiglia; dopo che si fu voltata indietro a salutare colla mano dalla strada tutti i Margarone schierati sul terrazzino prese a borbottare:

— Avete capito, eh?

— Diamine! Non ci voleva molto. Anche per la Giovannina bisogna mettersi il cuore in pace...

— Ma sì, ma sì! Con tanto piacere me lo metto il cuore in pace... Una civetta!... Avete visto il giuochetto del garofano? Saremmo stati freschi mio figlio ed io... Quasi quasi se lo meritava! Scomunicato! Nemico di sua madre stessa!...

Lì a due passi si imbatterono in Canali, che andava dai Margarone, e aveva visto da lontano i baciamani fra la strada e il terrazzo. Canali fece un certo viso, e fermò la baronessa per salutarla, menando il discorso per le lunghe, sgranandole in faccia due occhi curiosi.

— Siete stata da donna Bellonia, eh? Avete fatto bene. Un’amicizia antica come la vostra!... Peccato che don Ninì...

La baronessa cercava di scavar terreno anch’essa, in aria disinvolta, facendosi vento e menando il can per l’aia. — Infine... delle sciocchezze... sciocchezze di gioventù...

— No, no, perdonate! — ribattè Canali. — Vorrei veder voi stessa!... Un padre deve aprire gli occhi per sapere a chi dà la sua creatura... Non dico per vostro figlio... Un buon giovane... un cuor d’oro... Il male è che s’è lasciato abbindolare... circondato da falsi amici... Di bricconi ce ne son sempre... Gli hanno carpito qualche firma...

La baronessa lo piantò lì senz’altro. — Sentite? Vedete? — andava brontolando col cugino Limòli. Poscia piantò anche lui che non poteva più tenerle dietro. — Vi saluto, vi saluto — E corse dal notaro Neri, pallida e trafelata, per vedere... per sentire... Il notaro non sapeva nulla... nulla di positivo almeno.

— Sapete, don Gesualdo è volpe fina... Son cose queste che si fanno sottomano, se mai... Avranno fatto il contratto da qualche notaio forestiere... Il notaro Sghembri di Militello dicono... Ma via... Non c’è motivo poi di mettersi in quello stato per una cosa simile... Avete una faccia che non mi piace.

Rosaria, ch’era a ripulire il pollaio quando la sua padrona era tornata a casa, udì a un tratto dal cortile un urlo spaventoso, come stessero sgozzando un animale grosso di sopra, una cosa che le fece perdere le ciabatte correndo a precipizio. La baronessa era ancora lì, dove aveva cominciato a spogliarsi, appoggiata al cassettone, piegata in due quasi avesse la colica, gemendo e lamentandosi, mentre le usciva bava dalla bocca, e gli occhi le schizzavano fuori:

— Assassino! Figlio snaturato!... No! non me la faccio mangiare la mia roba!... Piuttosto la lascio ai poveri... ai conventi... Voglio far testamento!... Voglio far donazione!... Chiamatemi il notaro... subito!...

Don Ninì stava bisticciandosi colla sua Aglae, in quella stanzaccia di locanda che per lui era diventata un inferno dal momento in cui s’era messo sulle spalle il debito e mastro— don Gesualdo. Il letto in disordine, i vestiti sudici, i capelli spettinati, le carezze stesse di lei, i manicaretti cucinati dall’amico Pallante, gli si erano mutati in veleno, dacchè gli costavano cari. Al veder giungere Alessi che veniva a chiamarlo, parlando di notaro e di donazione, si fece pallido a un tratto. Invano la prima donna gli si avvinghiò al collo, discinta, senza badare al Pallante che accorreva dalla cucina nè ad Alessi il quale spalancava gli occhi e si fregava le mani.

— Ninì! Ninì mio!... Non mi abbandonare in questo stato!...

— Malannaggia! Lasciatemi andare... tutti quanti siete!... Vi pare che si scherzi!... Quella donna è capace di tutto!

Don Ninì, ripreso interamente dall’amor della roba, non si lasciò commuovere neppure dalla scena dello svenimento. Piantò lì dov’era la povera Aglae lunga distesa sul pavimento come all’ultimo atto di una tragedia, e Pallante che le tirava giù il vestito sulle calze, per correre a casa senza cappello. Colà ci fu una scena terribile fra madre e figlio. Lui da prima cercava di negare; poi montò su tutte le furie, si lagnò di esser tenuto come uno schiavo, peggio di un ragazzo, senza due tarì da spendere; e la baronessa minacciava di andare lei in persona dal notaro, per disporre della sua roba, così com’era, in sottana, a quell’ora stessa, se non volevano mandarlo a chiamare. Don Ninì allora scese a dar tanto di chiavistello al portone, e si mise la chiave in tasca, minacciando di rompere le ossa al garzone, se fiatava.

— Ah! questa è la ricompensa! — borbottò Alessi. — Un’altra volta ci vò davvero dal notaio.

Finalmente, per amore o per forza, riescirono a mettere in letto la baronessa, la quale si dibatteva e strillava che volevano farla morire di colpo per scialacquare la sua roba: — Mastro-don Gesualdo!... sì!... Lui se lo mangia il fatto mio! — Il figliuolo colle buone e colle cattive tentava di calmarla: — Non vedete che state poco bene? Volete ammalarvi per farmi dar l’anima al diavolo? — Poi tutta la notte non chiuse occhio, alzandosi ogni momento per correre ad origliare se sua madre strillava ancora, spaventato all’idea che udissero i vicini e gli venissero in casa colla giustizia e il notaro, maledicendo in cuor suo la prima donna e chi gliela aveva messa fra i piedi, turbato, se si appisolava un momento, da tanti brutti sogni: mastro-don Gesualdo, il debito, della gente che gli si accalcava addosso e gli empiva la casa, una gran folla.

Rosaria venne a bussargli all’uscio di buon mattino:

— Don Ninì! signor barone! venite a vedere... La padrona ha perso la parola!... Io ho paura, se vedeste...

La baronessa stava lunga distesa sul letto, simile a un bue colpito dal macellaio, con tutto il sangue al viso e la lingua ciondoloni. La bile, i dispiaceri, tutti quegli umori cattivi che doveva averci accumulati sullo stomaco, le gorgogliavano dentro, le uscivano dalla bocca e dal naso, le colavano sul guanciale. E come volesse aiutarsi, ancora in quello stato, come cercasse di annaspare colle mani gonfie e grevi, come cercasse di chiamare aiuto, coi suoni inarticolati che s’impastavano nella bava vischiosa.

— Mamma! mamma mia!

Don Ninì atterrito, ancora gonfio dal sonno, andava strillando per le stanze, dandosi dei pugni sulla testa, correndo al balcone e disperandosi mentre i vicini bussavano e tempestavano che il portone era chiuso a chiave. Da lì a un po’, medico, barbiere, parenti, curiosi, la casa si riempì di gente. Proprio il sogno di quella notte. Don Ninì narrava a tutti la stessa cosa, asciugandosi gli occhi e soffiandosi il naso gonfio quasi suonasse la tromba. Appena vide giungere anche il notaro Neri non si mosse più dal capezzale della mamma, domandando al medico ogni momento:

— Che ve ne sembra, dottore? Riacquisterà la parola?

— Col tempo, col tempo, — rispose infine il medico seccato. — Diamine, credete che sia stato come fare uno starnuto?

Don Ninì non si riconosceva più da un giorno all’altro; colla barba lunga, i capelli arruffati, fisso al capezzale della madre, oppure arrabattandosi nelle faccende di casa. Non usciva una fava dalla dispensa senza passare per le sue mani. Tant’è vero che i guai insegnano a metter giudizio. Sua madre stessa glielo avrebbe detto, se avesse potuto parlare. Si vedeva dal modo in cui gli guardava le mani, col sangue agli occhi, ogni volta che veniva a prendere le chiavi appese allo stipite dell’uscio. E anche lui, adesso che la roba passava per le sue mani, comprendeva finalmente i dispiaceri che aveva dato alla povera donna; se ne pentiva, cercava di farseli perdonare, colla pazienza, colle cure amorevoli standole sempre intorno, sorvegliando l’inferma e la gente che veniva a farle visita, impallidendo ogni volta che la mamma tentava di snodare lo scilinguagnolo dinanzi agli estranei.

Sentiva una gran tenerezza al pensare che la povera paralitica non poteva muoversi nè parlare per togliergli la roba siccome aveva minacciato.

— No, no, non lo farà! Son cose che si dicono in un momento di collera... Vorrei vederla!... Sono infine il sangue suo... Morirebbe d’accidente lei per la prima, se dovesse lasciare la sua roba a questo e a quello...

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