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MASTRO CANNONE
Mastro Cannone voi non lo avete di certo conosciuto, e forse non lo avete mai neppur sentito rammentare: eppure era l’orgoglio della marina mercantile dell’Adriatico.
Venezia, Ancona, Bari, Brindisi, e perfino Taranto si disputavano l’onore d’avergli dato i natali, ma io credo che non fosse nemmeno italiano, poiché aveva tutti i caratteri dei forti uomini del Nord.
Quando gli si chiedeva dove fosse nato, alzava le spalle, crollava la testa leonina, scuotendo la sua folta capigliatura, d’un biondo slavato, che amava portare lunga come un cow-boy delle frontiere messicane, e si chiudeva in un feroce silenzio. Non erano mai riusciti a strappargli una parola di bocca, né promesse di liquori, né promesse di sigari. Eppure fumava e beveva, come fumano e bevono i marinai...
Nordico od italiano che fosse, vi posso dire che era un pezzo d’uomo più alto di un corazziere del nostro Re, con una schiena da toro e con certe braccia che rassomigliavano a rami d’albero, tanto erano irte di muscoli.
Prendersi una botte di zucchero sulle fortissime spalle; torcere una sbarra di ferro; portare un’àncora mezzana e alzare un cannone e maneggiarlo come fosse un semplice fucile, erano inezie.
Se era forte come due tori, era anche un po’ prepotente quando gli saltava la mosca al naso: perciò la nostra ammirazione si accompagnava a un profondo rispetto e ci guardavamo bene dall’irritarlo.
Che formidabile aiuto era però per noi, specialmente durante le tempeste! Il timone era un giuocattolo nelle sue mani e le onde potevano ben urtarlo: la ribolla rimaneva rigida sotto la sua poderosa stretta.
Una vela non funzionava nel momento in cui piombava una di quelle raffiche che possono compromettere l’intera alberatura di una nave? Crac, un colpo di scure del gigante e... non era la vela sola che cadeva, bensì anche il pennone!...
Ora voglio narrarvi un’avventura straordinaria occorsa a quest’ercole, che aveva preso imbarco sul nostro Risoluto, avendo egli sempre desiderato vivamente di visitare le coste dell’America del Sud; indovinate però per quale motivo? Per provare possibilmente la sua forza contro i giganteschi patagoni della Pampa, dei quali aveva più volte udito celebrare la forza e la eccezionale robustezza.
Il caso doveva dargli modo di appagare quel suo desiderio e anche dargli un saggio del coraggio indomito di quei salvaggi figli delle sconfinate pianure erbose.
Avevamo fatto un carico pel Callao, il porto più commerciale del Chili, poiché è il fornitore di Valparaiso e di Santiago e dovevamo quindi seguire, per un lungo tratto, le coste occidentali e poi orientali della Patagonia.
La traversata dell’Atlantico meridionale l’avevamo compiuta in ottime condizioni, favoriti sempre da freschi venti di levante e di settentrione e con una rapidità assolutamente straordinaria, quando ad un centocinquanta miglia dalle coste della Patagonia, ecco che il cielo si oscura, il mare comincia ad agitarsi e dei formidabili colpi di vento, i pamperos della Pampa, si scatenano con furia incredibile.
Correvamo il rischio di venire ricacciati in mezzo all’Atlantico.
Tenuto consiglio nel quadro, fu deciso di tentare il possibile per metterci in salvo entro qualche baia della costa, prima che l’uragano raddoppiasse di violenza.
Avevamo dinanzi a noi quella di Gallegos, sicura perché profonda, essendo formata dalla foce del fiume omonimo.
Stringendo il vento più che era possibile e correndo lunghe bordate, imprendemmo la rotta verso quel rifugio.
Il mare diventava di momento in momento più terribile. I paraggi dell’estrema punta dell’America meridionale, battuti dai venti della Patagonia e da quelli della Terra del Fuoco, son tristamente celebri per l’altezza delle onde.
Non vi è alcun luogo del mondo dove i cavalloni si mostrino così irati, nemmeno al Capo di Buona Speranza.
Ci investivano con tale furia, balzando al di sopra delle murate, che certi momenti non sapevamo se la nave continuava a navigare o se calava giù attraverso gli abissi dell’Atlantico.
Solamente verso sera, dopo quattordici ore di lotta disperata, affondammo le ancore nella baia, proprio dentro al Gallegos e col bompresso spaccato all’altezza della dolfiniera.
La notte fu pessima, poiché il pampero non cessò un istante di soffiare, costringendoci ad una continua vigilanza; tuttavia la mattina il tempo si rasserenò ed il mare cominciò a calmarsi.
Dovendo procedere alla riparazione dell’asta del bompresso, fu deciso di approfittare di quella fermata per rinnovare la nostra provvista d’acqua, la quale si era corrotta sotto i calori intensissimi della zona equatoriale.
Fu armata una scialuppa con sei marinai scelti fra i più coraggiosi e affidammo il comando a mastro Cannone, non senza prima avergli raccomandato di lasciare in pace i patagoni, nel caso che ne avesse incontrati.
Erano appena due ore che la scialuppa erasi inoltrata nel Gallegos, per prendere acqua al di sopra dell’influenza della marea e stavamo per metterci a tavola, quando un colpo di fucile risuonò verso il fiume.
Mastro Cannone doveva averne fatta una delle sue: tale fu il nostro primo pensiero.
A quel primo sparo, altri ne erano tenuti dietro; poi scorgemmo la scialuppa filare a tutta forza di remi verso la baia, bersagliata da una tempesta di grosse pietre, le bolas patagone, che partivano dai cespugli e dalle boscaglie costeggianti il fiume.
Ci accorgemmo subito che l’equipaggio non era più al completo: mancava un uomo: mastro Cannone.
Il briccone, nostante tutte le nostre raccomandazioni, doveva proprio averne fatta qualcuna delle sue per provocare l’ira dei patagoni, i quali si mostrano, almeno oggidì, dopo le dure lezioni a loro inflitte dalle truppe argentine, abbastanza ospitali verso le genti che approdano sulle loro coste.
Appena i marinai giunsero a bordo, più o meno contusi, li circondammo per sapere che cosa era avvenuto.
Non c’eravamo ingannati: proprio mastro Cannone aveva stuzzicato il vespaio!
Mentre i marinai provvedevano l’acqua, alcuni patagoni erano comparsi, offrendo di vendere loro un guanaco ucciso di recente; ma mastro Cannone, irritato perché credeva che avessero preso troppo, li aveva caricati a colpi di pugno e poi aveva fatto fuoco contro un tacito, ferendolo.
I patagoni, montati sulle furie, si erano gettati su di lui colle lance e colle bolas ed il gigante, che si era veduta tagliata la via, era scappato nella foresta, inseguito da due dozzine d’indiani.
I marinai della scialuppa, dopo aver fatto inutilmente fuoco, oppressi da una tempesta di sassi e di palle di ferro erano scappati, lasciando che il gigante se la cavasse da sé.
Si discusse subito, tamburo battente, sul da farsi. Non potevamo lasciare il nostro gigante in balìa dei fieri abitatori della Pampa.
Malgrado la sua forza erculea ed il suo coraggio straordinario, avrebbe certamente finito per soccombere sotto qualche colpo di bola, che i patagoni sanno lanciare con precisione matematica o quasi.
Venne subito allestita una spedizione per cercare di trarre in salvo quel diavolo scatenato.
Fu armata la grossa baleniera, provvedendola del cannoncino da segnali, carico a mitraglia ed in dieci, poiché avevamo lasciati sei uomini a guardia del Risoluto, risalimmo il Gallegos, risoluti di ritrovare vivo o morto mastro Cannone.
A due miglia dalla foce, una piccola banda di patagoni cercò di arrestarci, inviandoci una vera grandine di bolas, ma una scarica di mitraglia lanciata attraverso i cespugli che servivano loro di asilo, li decise a scappare più rapidamente delle lepri.
Lasciati tre uomini a guardia della baleniera, ci inoltrammo risolutamente nella foresta, procedendo in fila indiana, essendo le querce australi foltissime.
Un marinaio della prima spedizione che aveva notato in quale direzione era fuggito il mastro, ci serviva da guida.
Avevamo già percorso un mezzo miglio, quando giunse ai nostri orecchi uno sparo, seguìto subito da spaventevoli vociferazioni.
Doveva essere stato mastro Cannone a fare quel tiro, poiché in quell’epoca i patagoni erano assolutamente sprovvisti di armi da fuoco. Affrettammo il passo e giungemmo ben presto ad una vasta pianura, in mezzo alla quale sorgeva una di quelle enormi piante chiamate ombù, che da sole formano una piccola foresta.
Intorno al gigantesco tronco, che venti uomini avrebbero a stento potuto abbracciare, correvano all’impazzata due dozzine di patagoni, spaventosamente dipinti in bianco, in azzurro ed in nero, urlando ferocemente e scagliando fra l’immensa massa di rami delle grosse pietre, proiettili terribili che fracassano d’un colpo solo il cranio dell’uomo che viene colpito.
Non ci volle molto per comprendere che quel demonio di mastro Cannone, vistosi perduto, si era rifugiato fra i rami dell’immenso ombù.
Facemmo due scariche, una in aria, l’altra all’altezza d’un uomo.
I patagoni, udendo sibilare le palle, balzarono sui loro cavalli che stavano radunati a poca distanza e si allontanarono a corsa sfrenata senza impegnare nessun combattimento. Probabilmente ci credevano in numero molto maggiore, poiché quei valorosi e fortissimi indiani raramente fuggono dinanzi al nemico.
Un momento dopo mastro Cannone si trovava fra di noi, molto avvilito però di essersi lasciato sorprendere su di un albero come un meschino volatile, mentre si era vantato di demolire tutti gl’indiani della Patagonia a colpi di pugno.
— Delle costole ne ho sfondate — ci diceva, mentre ci ripiegavamo più che in fretta verso il fiume, nel timore di venire inseguiti. — Disgraziatamente sono uomini troppo forti!...
Da quel giorno non lo udimmo più parlare di patagoni. Il giorno dopo, accomodata l’asta del bompresso, lasciavamo indisturbati la baia, riprendendo il nostro viaggio verso il capo Horn.