< Medea (Seneca - Dolce)
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Lucio Anneo Seneca - Medea (61)
Traduzione dal latino di Ludovico Dolce (1560)
Atto secondo.
Atto I Atto III

ATTO SECONDO.

Medea, Nudrice.

Medea
In ferro crudelmente
M'ha trapassato il petto:
Che giunto è a le mie orecchie
Il suono de le nozze
Del non più mio Giasone.
Io stessa a pena posso,
A pena creder un sì fatto male.
Pote ciò far Giasone?
Sendomi tolto il padre,
E la patria, et il Regno,
Lasciarmi sola in peregrina parte.
Questo duro ha sprezzato
I benefici miei.
Ei, che veduto havea
Le fiamme vinte e 'l mare
Da la mia sceleraggine, s'induce
A creder, che non più mi resti alcuna
Sorte di grave male.
Dunque quasi dubbiosa
E senza mente e cuore
Vado considerando tutti i modi
Di far degna vendetta
Di tanta offesa mia?
Volesse Dio, che questi
Alcun fratello havesse:
Ma egli ha moglie, in lei
S'adopri il ferro mio:
Questo basta a miei mali.
S'è alcun delitto, ilquale
Conobber mai cittadi
Si barbare, qual Greche,
E che stato non sia da le tue mani
Conosciuto fin quì, hor si prepari.
Ti confortino a questo
Le tue sceleritati,
E ritornino tutte unite insieme.
Rapito del mio Regno
Fu il famoso ornamento;
E 'l mio picciol compagno
E fratel di me stessa
Scelerata donzella
Fu da me ucciso e fatto
In molte parti, crudo
E misero spettacolo a suo padre.
Per lui tolto di vita
Ho il vecchio Pelia, e cotte
Fur le sue carni in un bollente rame
E quanto sangue e quante
Fiate ho sparso: e pure
Ira non fu cagione,
Ma solo amor, che m'arse
Di questo ingrato il petto.
Ma, che potea Giasone
Far, essendo venuto
Ne l'altrui arbitrio e voglia?
Dovea più tosto porre
Il petto incontra al ferro.
Ah meglio meglio doglia
Furiosa favella. Se si puote
Viva, qual fu Giasone,
Mio: ma se non si puote
Vivasi ancora, viva;
E di me ricordandosi, riguardi
A benefici tanti,
C'ha da me ricevuto.
Tutta la colpa è di Creonte, ilquale:
Come quello ch'è Re di questi luoghi,
Romper gli ha fatto il gia legato nodo
Del maritaggio mio;
E che toglie a figliuoli
La madre, e questi pegni
De l'alme data fede
Da me diparte. Questi haggia il gastigo,
Solo qual si conviene.
Io farò tosto che 'l palagio altero
Sarà distrutto in cenere; e le fiamme
Vedran le navi, che legate stanno
Infino a la Malea.
Nud.
Io ti prego a tacere,
Et a dolerti in parte,
Ove sieno segreti i tuoi lamenti.
Percio che quel, che le ferite gravi
Con pacienza sostiene,
Trova poi occasion da vendicarsi.
Med.
L'ira, che ascosa tiensi
Nuoce.
Nu.
L'odio, ch'è aperto,
Invola il far vendetta.
Med.
Picciola doglia è quella,
Che riceve conforto,
E si giace celata.
I gran mal non si ponno
Tener sepolti. Io voglio
Andar contra a nimici.
Nud.
Ferma ferma figliuola
L'impeto furioso,
Che ben vedi, ch'a pena
Ti può render sicura
Lo star mutola e cheta.
Med.
Fortuna teme i forti,
Et i timidi preme.
Med.
Hora è da far la prova,
Se la virtude ha luoco.
Nud.
Sempre virtude ha luoco.
Nud.
Non ho speranza alcuna
Ne le mie cose afflitte.
Nud.
Chi di nulla ha speranza,
Di nulla si disperi.
Med.
Rimaso è a dietro il mio Regno di Colco:
Il mio consorte ha la sua fede rotta,
E di tanti miei beni
Non me ne resta alcuno.
Solo avanza Medea.
Quì vedi mare e terre, e ferro, e fuochi.
E fulmini e gli Dij.
Nud.
Il Re si dee temere.
Med.
Fu già mio Re mio padre.
Nud.
E tu l’arme non temi?
Med.
Non se nascesser ben fuor de la terra.
Nud.
Tu morrai.
Med.
Lo desio.
Nud.
Fuggi.
Med.
Non già: son di fuggir pentita.
Dunque io, che son Medea,
Dovrò fuggir?
Nud.
Sei madre.
Med.
Del seme di cui vedi.
Nud.
Dubiti di fuggire?
Med.
Fuggirò, ma dapoi,
Ch’a pieno fatta havrò la mia vendetta.
Nud.
L’offeso per punirti
Ti seguirà.
Med.
Ben’io
Gli farò ritrovar qualche dimora.
Nud.
Deh le parole e le minaccie affrena
Mal’accorta, e diponi
Cotesto animo altiero.
Ch’è bel saper accommodarsi al tempo.
Med.
Fortuna può ben le ricchezze torre
Ma non l’animo franco.
Ma l’uscio scocca, e s’apre.
Esce Creonte de l’Imperio Greco
Ne l’aspetto superbo.


Creonte, Medea


Creonte
Medea d’Eta figliuola,
Scelerato lignaggio,
E di malvagità colmo e ripieno,
Ancor non porta il pie fuor del mio Regno?
Certo ella macchinando
Va qualche opra crudele:
C’homai famosa è la sua fraude a tutti,
E famose le mani.
A chi perdonerà questa malvagia?
E chi permetterà, che stia sicuro?
Io m’era già proposto di levare
Tosto col ferro questa grave peste.
Ma il mio genero usando
Meco preghiere, al fin pur vinto m’have.
L’ho concesso la vita: ma partendo
Liberi da paura le mie terre.
E sen vada secura.
Vedi, com’ella viene
Verso di me con fiero aspetto; e pare,
Che con minaccie di parlarmi cerchi.
Vietate, che s’accosti
Servi; e dite, che taccia.
Et impari una volta
Obedire a ch’impera.
Partiti immantenente,
E vanne altrove con veloce piede,
Portando teco e conducendo un Mostro
Horribile e crudele.
Med.
Per qual difetto mio mi dai l’esilio?
Cr.
Questa innocente Donna
Domanda la cagione,
Onde a perpetuo esilio la condanno.
Med.
Se giudicar ti piace,
Si come giusto l’altrui causa, ascolta:
Se, come Re, comanda.
Cr.
O giusto o ingiusto, che si sia, conviene,
Che al mandato d’un Re sij obediente.
Med.
Sappi, che i Regni ingiusti
Non sogliono durare.
Cr.
Va pur, e cerca Colco.
Med.
Io son per ritornarvi,
Ma chi quì mi menò, mi vi riduca.
Cr.
La notte troppo tarda
Viene al decreto mio.
Med.
Un Re giusto non suole
Terminar contra alcuno.
Se pria non ode la contraria parte.
E se ben fosse giusto
Il suo giudicio, esso gia non fu gia giu.
Cr.
Da te riceve Pelia indegna morte:
Ma favella, ch’io voglio,
Ch’a la tuo nobil causa si dia loco.
Med.
Quanto difficile sia
Di sgombrar l’ira fuori
De l’animo, che gia se ne sia acceso:
E quanto questa passion tenace
Faccia seggio in un Rege,
Hello imparato anch’io
Ne la mia Real corte.
Che quantunque io mi trovi
In così miserabile ruina
Abbattuta, scacciata
Supplice, sola, e da ciascun nel fine
Misera abandonata;
Già fui pur risplendente
D’illustre e Real padre,
Et è mio avo il Sole:
E tutto, quel che Fasi irriga e bagna
Con piacevoli giri,
E tutto quel, che ’l Ponto
Scithico a dietro vede:
E di donde addolcisce
Il mar ne l’acque poi palustri; e quanto
Suol spaventar la schiera
De l’armate Danzelle,
Rinchiusa da le rive
Del Thermodonte, tutto
Soggiace al padre mio.
Dunque discesa d’alta
Prole, figlia di Re, felice fui.
Alhora addimandar le nozze mie
Quei, c’hor son dimandati:
Ecco l’empia fortuna
Volubile e fugace
M’ha levata dal Regno
Hora e in esilio posta;
Dunque confida tu ne’ Regni tuoi,
Quando un picciol momento
Volge sossopra i Regni.
Quest’hanno i Re nel vero
Magnifico e gran dono, e proprio loro,
E che non può levar tempo ne morte:
Il sovvenir a miseri, e raccorre
I supplici e scacciati ne’ suoi tetti
Con fedeltà et amore.
Solo ho portato questo
Fuori del Regno mio
L’haver servato l’ornamento e ’l fiore
Et i presidi de la gente Greca,
E la prole famosa de gli Dei.
Dunque Orfeo è dono mio,
Che col suo canto rende molli i sassi,
E insieme con le selve
A le sue note tira.
Cosi mio dono è Castore e Polluce,
E di Borea i figliuoli,
E Linceo, che la vista ha sì sottile,
Che le cose oltre mar penetra e vede.
E tutti i Minij: però ch’io mi taccio
Del Duce di quei Duci,
Per il qual fasto nulla mi si deve.
Questi imputo a niuno,
A voi ridotto ho glialtri.
Ne mi si puote opporre
Fuor, che questo: che sol per mia cagione
E’ tornata la nave, che fece Argo.
Se a me fosse piaciuto
La mia virginità, se ’l padre mio,
Insieme con sì grandi e chiari Heroi,
Grecia hora ne saria tutta distrutta.
E primo fora stato
Tolto di vita da i feroci Tori
Questo genero tuo.
Sia pur la causa nostra
Da qual si vol fortuna oppressa e vinta:
Nè m’incresce d’havere
Conservati cotanti huomini illustri.
Tutto quel guiderdone,
Ilqual da la mia colpa ho ricevuto
E’ sol presso di te. Se ti gradisce,
Condannami per rea.
Ma intendi il mio peccato,
Son nocevole: questo
Lo confesso Creonte:
Matal sapevi, ch’io
Era, quando io ne venni
A piedi tuoi, et humilmente chiesi
La fede, e la tua mano
Benigna e protretice
Io cheggio, che concedi,
C’habitar possa in questa tua cittate
In luogo abietto e vile,
Nascoso, e dove i miseri si stanno.
E, se ti piace pure
Scacciarmen fuori; almeno
Mi si conceda nel tuo Regno un loco
Lontano; ov’io dimori.
Cr.
Assai bene ho dimostro,
Ch’io non son di que’ Regi,
Che reggon con la forza il Regno loro,
E che col pie superbo
Soglion calcar i miseri: anzi sono
Liberale e pietoso,
Havendo eletto per genero mio
Huomo esule et afflitto,
E pieno di terrore:
Che te brama a la pena
Et a la morte. Acasto,
Ilqual hor di Thesaglia il Regno tiene,
Si duol, che ’l debol padre
Per la molta vecchiezza
Da te sia stato occiso;
E del vecchio le membra
Divise e guaste piagne,
Alhor che le sorelle
Dal tuo inganno sospinte
Si misero a quell’opra
Si scelerata e ria.
E puo Giason, se tu la tua rimovi,
La sua causa difender giustamente:
Però che nessun sangue
Contaminate ha le sue pure mani,
Ne adoprò mai la spada
Empiamente: ma sempre
S’è serbato innocente.
Ma tu machinatrice d’ogni male,
A cui la feminil malitia porge
Ardire a ogni opra rea,
E in questo hai forza assai piu, che virile;
Esci non pur di questa mia cittade,
Ma di tutti miei Regni:
Purgali di te stessa,
E porta teco le mortifer’ herbe,
E i cittadin d’ogni paura sciogli.
E stando in altra terra
Quivi a tua voglia i Dei scongiura e prega.
Med.
Tu comandi, ch’io fugga.
Rendimi la mia nave,
O torna il mio compagno,
Perche, vuoi tu, ch’io me ne fugga sola;
Poi, che sola io non venni?
Se tu temi haver guerra,
Luno e l’altro discaccia del tuo Regno.
Perche contra ragione
Due colpevol distingui?
Io Pelia non occisi
Per me, ma per lui solo.
La fuga aggiugni, le rapine, e ’nsieme
L’abandonato padre,
E ’l lacero fratello.
Ne similmente è mio
Quel, che ’l marito insegna
A le novi moglieri.
Tante fiate io sono
Stata nocente altrui:
Ne mai per mia cagione.
Cr.
Gia gran pezza conviene,
Che fosti uscita: a che con le parole
Vai trattenendo il tempo, e fai dimora?
Med.
Io ti prego partendomi humilmente,
Che non nocqua a figiuoli
La colpa de la madre,
I quai sono innocenti.
Cr.
Vanne tu pur: ch’io ti prometto certo
Riceverli appo me, si come padre,
Med.
Deh ti prego Signore
Per le felici nozze
Di tua figliuola:
Per le speranze tue, per li tuoi Regni,
I quai da fortuna,
Che mai non serba un stile
Sogliono esser percossi et agitati;
Che, mentre io m’apparecchio,
Al duro esilio mio,
Mi concedi un sol giorno
Di potermi fermare
In questa tua cittate,
Acciò, ch’intanto io possa
A miei figliuoli dar gliultimi baci,
Come, quella, che forse
Morrò, pria, ch’altra volta gli rivegga.
Cr.
Tu mi domandi tempo
D’adoprar le tue frodi.
Med.
E qual frode temere
Si puo in si picciol tempo?
Cr.
Picciol non è alcun tempo
Al mal, che si procuri.
Med.
Tu vuoi negar un poco
Di tempo al lagrimare?
Cr.
Quantunque la temenza
Mi vieta, che i tuoi preghi
Sieno da me esauditi;
Io ti concedo un giorno
Da poter preparar le cose tue:
Med.
Questo è troppo; e di lui
Puoi reciderne parte.
Cr.
Hor sollecita e affretta la partita:
Perché, se ’l dì ti trova
Ne la città, ti accerto,
Che n’anderà la testa.
Hor son chiamato a celebrar le nozze.
Coro
Troppo audace colui
Fu, che primo con legno
Così frale e si poco
Avezzo a serbar fede
Ruppe l’ondoso mare:
E veggendo la terra
Restar dopo le spalle
Commise la sua vita
Alieni venti; e pote
Correndo il mar fidarsi a piciol legno
Tra la morte e la vita
Posto in breve confino.
Non conosciuto ancora
Havea le stelle alcuno:
Nè di queste nessuno
Serbava l’uso: non poteano ancora
Fuggir le navi quelle,
Che son Pleiude dette,
Nè l’Hiade parimente,
Nè ancor l’Olenia capra.
Non quelle, che seguite
Son dal tardo Boote,
Tardo in guidar il carro.
Non era ancora il nome
Di Borea, nè di Zefiro. Fu primo
Tisi ad haver ardire
Spiegar le vele a i venti;
E dar lor nuova legge.
E in varie guise raccogliendo i venti
Andar solcando il mare:
E troppo avido fue
Il navigante di veloce corso.
I nostri antichi padri
D’ogni fraude lontani
Fur contenti di starsi
Otiosi a godersi i propri lidi
E i vecchi fatti ricchi
In picciolo terreno
Non conosceano altre ricchezze, fuori
Che del natio terreno.
Ma il mondo, che diviso
Era fece tutt’uno
La nave di Thesaglia
Che prima corse il mare
E gl’insegnò a patire
Le ferite e percosse;
E ’l mar, ch’era diviso
Divener ratto parte
De la paura nostra;
E ben potrò ancor’essa
Di gravi pene: quando
Due monti, che chiudeano il mar profondo;
Di quà di là, come percossi intorno,
Gemer con alto suono,
Che parea che venisse infin dal cielo;
E ’l mar gravato l’onde
Innalzò insino a le lucenti stelle,
E sparsero di lor le folte nubi.
Alhor s’impallidio
Tisi, e lasciò tutte le briglie al legno.
Si tacque Orfeo, e riposò la lira.
E l’istess’Argo ancor perdeo la voce.
E alhor, che la donzella
Del sicilian Peloro,
Che ’l ventre ha cinto di rabbiosi cani,
Aprio tutte le bocche,
Chi non tremò tutto dal capo al piedi?
Chi similmente alhora,
Che le Sirene fiere
Con piacevole canto
Acchetavano il mare?
Alhor, che ’l Thracio Orfeo
Avezzo a ritener con la sua cerva
Le navi, quasi astretto
Fu a seguir le Sirene?
E qual fu ’l premio al fine
Del periglioso corso
L’aurata pelle, e seco
Un maggior mal, Medea,
Degna nel vero merce
De la primiera nave.
Hor già ci cede il mare,
E patisce ogni legge.
Nè Argo solamente
Fabricata da Pallade, laquale
Condusse i sacri Heroi,
Il mar preme, ma ancora
Ogni picciola barca.
Ogni termine è smosso;
E nuove città e mura
Han posto nel terreno;
E ’l mondo, che si puote
Varcar, non ha lasciato alcuna cosa
Nel proprio luogo. L’Indo
Bee de l’Arasse, e ’l Perso
E de l’Albi e del Rheno.
E verran dopo molto corso d’anni
Secoli, in che l’immenso
Oceano aprirà le chiuse strade
De la celata parte
E manifesterà tutta la terra.
E discovrirà Tisi
Nuovi mondi; nè sia
Ultima al mondo Thile.

Il fine del secondo Atto

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