< Medea (Seneca - Dolce)
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Lucio Anneo Seneca - Medea (61)
Traduzione dal latino di Ludovico Dolce (1560)
Atto quarto.
Atto III Atto V

ATTO QUARTO.

Nudrice.

Nudrice.
L’animo mio paventa,
E tutto pien d’horrore.
Una grande ruina, un grave danno
Veggio, che s’avicina.
O, quanto il duolo accresce,
E se medesmo infiamma,
E le passate forze
Va tutte reintegrando.
L’ho veduta sovente
Furibonda tirar gli Dei dal cielo:
Hor Medusa s’apparecchia
Di far più mostruosa opra, ch’ancora
Habbia fatto giamai.
Perciò, che tosto, ch’ella
Con attoniti passi
Entrò nel chiuso; e si accostò a gli altari,
Sparse tutte sue forze,
E tutto quello, ch’ella
Stessa temeo, spiegò, spiegando insieme
Ogni sorte di male.
Con la sinistra man toccando i sacri
E santi Altari, disse
Le segrete parole,
Chiamò qualunque peste
Produce Libia ne la calda arena.
E quante ne ritien Tauro coperte
Sempre di ghiaccio e neve,
Et ogni Mostro. Così prestamente
Da le caverne loro
Tratte da carmi e Magici parole
Vi venne una gran torma
Di squamosi serpenti:
Che vibrando tre lingue, e gonfi d’ira,
A gli accenti mirabil, in un punto
In più nodi avolgendo
La velenosa coda,
Stupidi si fermaro.
Et ella: picciol mali,
Et arma troppo vile
E, quando in sé contien la bassa terra:
Io voglio ricercar veleni in cielo.
Hora è tempo di fare
Effetto tal, ch’ogni memoria ananzi.
Qui discenda quell’angue,
Che a guisa di torrente
Giace la sù annodando
Con nodi immensi e strani
Ambedue l’Orse, quella,
Ch’è maggiore, et insieme la minore.
La maggior vie più atta
A Pelasgi, e a Sidonij la minore.
E finalmente allarghi
Ofiulco le mani,
E ne sparga il veleno:
Scenda Pithone e l’Hidra,
E ’l Dragon, che giamai non prendea sonno,
E prima chiuse gli occhi
Indotto a questo da gl’incanti miei.
Poscia, ch’ella chiamò tutti i serpenti,
Ridusse in uno i mali
Tutti, che può crear terreno seme,
Quanti genera Erice,
E ’l Caucaso, ch’è sparso
Del sangue di Prometheo: e ’l Medo, e ’l Partho
Gli Arabi; o quanti accolge
Sotto il fredd’Asse il svevo
Nobile per le selve
Hercine: et herbe quante
Nascon di Primavera,
O ne l’algente verno:
E quanti fiori han foglie
Velenose e mortifere: et insieme
Quante radici avenenati suchi
Mandano fuori: o sopr’Atho, e su Pindo,
Quante ne bagna il Tigre, e l’Histro quante
Quante l’Hidaspe, e quante il Bethi, ilquale
Da nome al suo terreno.
Ella la notte colse
L’herbe crudeli, altre col ferro et altre
Con l’unghie; e de’ Serpenti
Tragge il veleno fuori,
E vi mescola insieme osceni augelli
Il cuor del mesto Guffo,
E le viscere tratte
Di mesta strige ancor tremante e viva.
E queste cose pone
Separate la fiera
Artefice del male.
Et aggiunto v’è il foco,
E ’l pegro ghiaccio e freddo.
Et aggiunsevi ancora
Parole non men crude e di paura
Che ci siano i veleni.
Ecco, ch’ella ne viene
Strepitando co’ piedi furiosa,
Cantando i sacri carmi:
Et a le prime voci il mondo trema.
Medea.
Pregovi ombre defonte,
E voi Dei de l’Inferno;
Tu cieco Caos, e tu Regno di Dite
Tenebroso e dolente:
E tu caverna de l’horrenda morte,
E voi alme disciolte
Hor da supplicij vostri
Correte a novi maritaggi, a queste
Novelle nozze. fermisi la ruota
Che tormenta Isione:
E Tantalo sicuro beva l’acque.
Più grave pena mova
A tormentar del gia marito mio
Il suocero crudele.
Lasci Sisifo il sasso,
E voi ponete i vasi
Bellide: perche questo
Giorno ricerca homai
Tutte le sanguinose nostre mani.
Tu lume de la notte
Da me chiamata vieni
A sacrifici nostri
Con bruttissimo aspetto
Minacciosa in più forme.
Io sciogliendo la chioma
Al solito costume
Ad honor tuo, discorsi
Con nudo piede il bosco:
E chiamai da le secche nubi l’acqua:
E commossi l’Oceano et ogni mare.
E parimente il mondo,
Sendo del ciel la legge
Confusa, vide il Sole
Et insiemele stelle.
E voi Orse toccaste
L’a voi vietato mare.
Feci cangiar ancora
Lemedesme stagioni:
Onde s’ornò di fiori
La terra al canto mio;
E Cerere nel verno
Vide mature biade:
E Fasi suo malgrado
Tornò l’acque al suo fonte.
E l’Istro ch’è diviso
In tante bocche, ratto
Fermò l’onde turbate e tempestose,
Risonarono l’acque,
Et hebbe tema il mare.
E non si udendo fiato
Di vento, la magione
Del bosco antico a le mie note fiere
Perde la solit’ombra
Febo lasciato il giorno
Fermossi in mezo; e l’Hiade mosse a nostri
Canti, ne sdrucciolaro.
Hor Luna è tempo, che ti trovi a tuoi
Sacrifici solenni:
A te con sanguinosa mano io tesso
Queste ghirlande, che legate sono
Da novi serpi: a te Tifeo consacra
Queste membra, ch’ardire
Hebber di torre il cielo
Al formidabil Giove.
Questo è il sangue di Nesso,
Che fu perfido a Alcide.
Il Rogo, ov’egli poi
Arse, di questo cenere fu sparso,
Che bebbe il fier veleno,
Ond’erano infettate le sue carni.
Tu vedi anco la face
De la suora pietosa, et empia madre
De la gia ultrice Altea.
L’Harpia lasciò ne l’horribile speco
Queste piume alhor, quando
Se ne fuggì da Zetho.
S’aggiungono le penne, che cascaro
A le uccelle Stinfalide ferite
Da le saette tinte
Nel sangue velenoso
De la serpe Lernea.
Io sento risonare i sacri Altari,
E tremar veggo i Tripodi commossi
Del favor di te Dea.
Io veggio i lievi carri
Di Trivia; non gia quelli,
Che quando è piena col lucente volto
Move vegghiando e gira:
Ma quelli, ch’ella adopra
Quando mesta, e con faccia
Rubiconda et oscura,
Quando da nostri incanti
E’ costretta sen corre
Con piu vicini freni.
Cosi la trista luce
Pallida spargi intorno
Pel cielo e di terror le genti ingombra.
E in tuo aiuto Dittinna
Risuonino i Corinthi
I pretiosi loro
Metalli: a te porgemo
Il sacrificio sopra
Cespuglio sanguinoso.
A te una falce tolta
Di mezo dal sepolcro
Leva i notturni fochi.
A te, piegando il capo,
Cosi torcendo il collo
Formo sacre parole.
A te giacendo a guisa
Di funereo costume
Una benda costringe
I capei rabuffati.
A te si move un ramo
Sparso de l’acqua oscura
Da la Stigia palude.
A te con petto ignudo
Pur a guisa di Menade con sacro
Coltello ferirò le braccia mie.
Stilla a glialtari il sangue
Nostro: avezzati mano
Stringer il ferro; et a poter patire
Spargere i sangui cari.
Dato ho percossa al sacro
Liquore. E se per caso
A te recasse noia
L’esser spesso chiamata;
Ti prego, che perdoni
Al disiderio mio caldo et ardente.
La causa di chiamare
Perseo spesso i tuoi archi
E sola e la medesima mai sempre
L’empio e fiero Giasone.
Tu hor la veste tingi di Creusa;
Laqual tosto c’havrà presa, si senti
Di repente abbruciar novella fiamma
Le profonde medolle.
Il fuoco chiuso in oro
Risplendente s’appiata:
Ilqual mi diede quello,
Che col fegato sempre
A sue pene fecondo
Purga la sua rapina;
Et insegnò a nasconder le sue forze.
Diede Prometheo l’arte:
E Vulcan tenne il foco
Ricoperto col solfo,
E tolsi anco le fiamme
Del folgore celeste
Del parente Fetonte:
E tengo i doni ancor de la Chimera.
Et ho le fiamme tolte
De l’abbruciata gola
Del Toro: che meschiate
Col fele di Medusa
Fatto ho serbar; ch’è un taciturno male.
Giungi Hecate a i veleni
Maggior virtute, e a miei
Doni conserva i semi de la fiamma.
Ingannino la vista,
E s’aventino altrui
Divorandole il petto, et ogni vena.
Stillin tutte le membra
Nudando l’ossa; e la sua accesa chioma
De la novella sposa
Vinca l’accese faci.
Io veggo, che i miei voti
Sono hoggimai esauditi:
Che tre latrati ha dato
L’audace Hecate; e accesi
Ha sacri fuochi con la face piena
Di doloroso pianto.
Tutta la forza è in punto:
Quì chiama i miei figliuoli;
I quali portin tosto
A la sposa i miei doni.
Andate figli, prole
D’una infelice madre:
Vedete di placar con questi doni,
E ancor con molti preghi
La Signora e matrigna,
Andate tosto, e tosto
Ritornate a la madre,
Acciò goder io possa
Gliultimi abbraciamenti.
Coro
Ove la sanguinosa
Menade move il piede
Frettoloso sospinta
Da fiero et empio amore?
Qual si nefando male
Apparecchia di fare
Da tal furor portata?
Il volto è tutto pieno
D’ira, e d’asprezza; e crollando la testa
Minaccia il Re superba.
Chi porrà fede in una
Scacciata e posta in bando?
Son focose le guancie
E ’l pallor fa, che si dilegua il sangue,
Che le facea vermiglie.
E sempre varia, e un sol color non serba.
Hor si parte, hor ritorna,
Si come Tigre suole
Orba de’ propri figli
Con furioso corso
Cercar il bosco la vicino al Gange.
Medea non sa frenare
L’ira, ne li suoi amori.
Ira et amore hor hanno insieme aggiunto
La causa lor: che seguirà da poi?
Quanto leverà il piede
Questa malvagia, che venne da Colco
Fuora de’ Greci Regni?
E sgombrerà di tema
Questo paese, e parimente i Regi?
Hor Febo il carro affretta;
E la notte discenda
A nasconder la luce.
E ’l duce de la notte
Sommerga Hespero il giorno,
Che solo è da temere.

Il fine del quarto Atto

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