< Medea (Seneca - Dolce)
Questo testo è stato riletto e controllato.
Lucio Anneo Seneca - Medea (61)
Traduzione dal latino di Ludovico Dolce (1560)
Atto quinto.
Atto IV Medea (Seneca - Dolce)

ATTO QUINTO.

Nuntio, Coro, Nudrice,
Medea, Giasone.

Nun.
Ogni casa è perita:
Caduto è questo Regno.
E la figliuola e ’l padre
Giacciono cener mescolata insieme.
Cor.
Con qual fraude ingannati
Son stati ambedue?
Nun.
Con quella fraude istessa,
Ch’ingannar suole i Regi:
Co’ doni.
Cor.
In questi doni
Qual fraude esser poteva?
Nun.
Et io ne prendo maraviglia ancora:
Et a pena, ch’io ’l creggia,
Se ben veduto ho ciò con gliocchi miei.
Cor.
Come avenuto è questo
Cosi subito fatto?
Nun.
Il foco, come gli fu imposto, avampa
Per tutto il Real tetto:
E gia non è più tetto
Ma sol ruina; e a la città si teme.
Cor.
Dunque che non si corre
A estinguerlo con l’acqua?
Nun.
E questo in si gran male
E mirando e stimando; che le fiamme
Si nudriscon con l’acqua;
E, quanto più si tenta
D’ammorzarne un tal foco, esso piu cresce.
Medea rivolgi il piede,
E cerca di fuggire
Con ogni fretta fuor de la cittade.
Med.
Io debbo dipartirmi:
Anzi, quando ci fossi
Partita, ancor in lei tornar vorrei;
Però, ch’io vo veder le nuove nozze
Perche cessi mio animo? deh segui
Questo impeto felice:
Che cosi fatta parte
Di vendetta, onde godi
Quanta si può chiamare?
Tu furiosa ancora
Ami, se t’è a bastanza
Il vedovo Giasone.
Cerchi una sorte tale
Di pene e di cordogli,
Disusata nel mondo.
E cosi t’apparecchia:
Partisi la ragione,
E partasi il rispetto:
Lieve vendetta è quella,
Che portan picciol mani.
Hor prendi tutta l’ira;
E sveglia il tuo furore,
Che quasi è addormentato:
E dal profondo petto
Tira furia maggior d’ogni passata.
Quel, che s’è fatto insino
A quì, pietà si chiami:
Fa, che si sappia, come
Son cose lievi quelle,
Che si sono vedute
Uscir de le mie mani.
Ha scherzato la doglia
Sopra di questi.
Che potevano alhora
Le rozi mani mie, ch’era fanciulla,
Ardir, che fosse grande?
Hor son Medea: con i miei mali insieme
E cresciuto l’ingegno.
La memoria mi giova
D’haver a mio fratello
Spiccato il capo; e diviso in più parti
Le morte membra; e prima
Haver rubato al padre
Il vello d’oro. Giova ricordarmi
D’haver indotte le figliuole insieme
Ad amazzar il padre.
Dolor materia cerca,
Che la tua man porrai
Esperta in ogni male.
Ove adunque ti spingi
Ira? o qual’arme movi
Contra il perfido tuo fiero nimico?
Non so che di feroce
Ha proposto di dentro
L’animo: e non ardisce
Ancora a se di confessarlo. troppo
Troppo sciocca mi sono
Affrettata. Volesse
Giove, che ’l mio nimico
Havesse havuto de la mia rivale
Alcun figliuolo. Quello,
Che d’esso è tuo, gia partorì Creusa.
Mi piacque questa sorte
Di pena, e certo con ragion mi piacque,
Hora è da preparare
L’ultima sceleraggine: onde voi
Gia miei figliuoli patirete voi
Per le scelerità del padre vostro
Il supplicio, ch’ei merta.
Ma ecco nuovo horrore
Ha percosso il mio core,
E tutte mi s’agghiacciano le membra,
Mi trema il petto, e s’è partita l’ira
Di la, dove havea loco,
E cacciando la moglie
Tutta riede la madre.
Io spargerò de’ miei
Figli e de la mia prole
Misera il caro sangue?
Fia meglio, o cieco e pazzo
Furor, che tal sceleritate fiera
E nefanda et horrenda
Io diparta da me. Deh qual peccato
I miseri han commesso?
Scelerato è Giasone,
Medea più scelerata
Essendo madre loro.
Anzi moiano pur, che non son miei.
Periscano: ah pur sono
Miei: ne colpa o peccato
Han, ma sono innocenti.
Ma confesso, che siano; anco innocente
Era il fratello mio.
Deh, perch’animo mio sospeso resti?
Perche tingon le lagrime le guancie?
E tra il voler e ’l disvoler mi tira
Da l’una parte l’ira, e d’altra Amore?
Ne so quel, che far si deggia?
Si come, quando due contrari venti
Tra lor fanno aspra guerra,
L’onde agitate hor quà hor là portando
L’aggira in ogni parte:
Non altrimenti io sono
Combattuta nel core:
L’ira faccia pietate,
E la pietade l’ira:
Dolor cedi a pietade,
Cara mia prole, e solo
Conforto de l’afflitta
Mia casa quì venite,
E cingetemi il collo,
Godivi salvi il padre,
Mentre n’habbia la madre.
Adosso m’è l’esilio,
E la presta fuggita,
Gia gia mi fian levati
Da questo grembo.
Hor su piangendo e sospirando, ratto
Periscano del padre
A gliocchi, poscia che perite sono
A quelli de la madre,
Da capo il dolor cresce,
E dentro l’odio ferve.
E l’ira antica de la mente mia
Ripiglia un’altra volta
L’odiosa mano; e dove
Ella mi spinge, io segno.
Volesse Dio, che i figli
Di Niobe usciti fosser del mio ventre:
E cosi havessi sette
Superbo, figli e figlie;
Ch’a le pene io mi posso
Sterile addimandare.
Al fratello et al padre
(Quello che basta) ho partorito due.
Ove va questa turba
Funebre e lagrimosa?
E chi cerch’ella? e a cui
Apparecchia di dare
Gran percosse di fiamme e sanguinose?
Over l’Infernal schiera
Indirizza le sue faci?
Il serpe scosso a la percossa fiera
Torto risuona. E chi è colui, che vuole
Megera empia assalire
Con la trave nimica?
L’ombra di cui è venuta
Incerta per le sue
Sparse e lacere membra.
Egli è il fratello mio,
E ricerca vendetta:
Noi la farem, ma pria
Tutta m’incendi e ’nfiamma
E mi squarcia, e m’abbrucia,
Che ’l mio petto è capace ad ogni furia.
Et imponi fratello
A queste ultrici Dee,
Che da me si dipartano; e sicure
Ritornino a l’Inferno:
Lasciami a me fratello,
Et usa questa mano.
Con questa, che gia strinse
Il ferro e ti fe vittima, fratello
Hor ti plachiamo. che vuol l’aspro suono,
Che s’ode di repente?
Apparecchiano l’arme,
E cercan di amazzarmi.
Io lascierò l’incominciata acerba
Occision, e ascenderò su ’l tetto
De l’alto albergo mio.
Tu m’accompagna; e meco
Ne porta il corpo tuo.
Fornisci animo mio
Di far la degna impresa.
Gia tu non dei in ascoso
Perder la tua virtute.
Approva a questo popol la tua mano.
Gias.
Chiunque è fido amico,
E si duol de gli estinti
Suoi Regi e suoi Signori:
Qui tosto accora a fine,
Che l’autrice di tanta
Horrendo sceleraggine prendiamo.
Voi schiera mia gagliarda
Portate l’arme; e questa casa tutta
Rivolgete sossopra e ruinate.
Med.
Gia gia ricoverato
Ho il mio Scettro, il fratello,
Il padre con la spoglia
Del ricco vello d’oro.
Sommi tornati i Regni,
E la verginità da te rapita.
O nel fin Dij benigni
O lieto giorno e festo, o dì di nozze,
Vanne e partiti via,
C’ho fornita di fare
Quella scelerità, ch’io desiai.
Non la vendetta ancora:
Seguite mani. perche tardi tanto
Animo? perche stai così sospeso?
Gia in me caduta è l’ira,
E mi pento, e vergogno
Di quel, che lassa ho fatto.
Misera me, che è quello,
Che le tue crude mani
Nan fatto? ma quantunque
Tu ti penta, io l’ho fatto.
Un gran piacer, benche tal fatto sia
Degno d’odio, mi viene
A l’alma, et ecco cresce. Una sol cosa
Mancava: che di questo
Fosse riguardatore il proprio padre.
Non mi par d’haver fatto
Fin quì senza costui nessuna cosa.
Tutto il male, c’ho fatto,
Senza costui perisce.
Gias.
Ecco, ch’ella si mostra
In cima al tetto. Quì tosto si rechi
Il foco, acciò, ch’ella l’abbruci et arda
Ne le sue stesse fiamme.
Med.
Tu fa l’esequie a tuoi
Propri figliuoli, e da lor sepoltura.
Che la tua moglie, e ’nsieme
Il tuo suocero havuto
Hanno da me l’esequie, e son sepolti.
Questo tuo figlio è giunto
A morte; e innanzi gliocchi
Tuoi propri ancora ne morrà quest’altro.
Gias.
Io ti prego Medea
Per tutti i Dei, ti prego
Per i nostri legami
Del maritaggio, e ancora
Pel sacro e congiugal letto; che mai
Non violò mia fede:
Che tu perdoni al figlio:
Che se n’è alcun peccato,
Io confesso, ch’è mio.
Amaza me, me sol leva di vita,
C’ho commesso ogni errore.
Med.
Per questa carne istessa,
Onde ti pesa e duole
Io vo cacciar il ferro.
Hor vanne hora superbo,
E chiedi l’altrui nozze
Di vergini e donzelle,
E le madri abandona.
Gias.
Uno era assai a la pena.
Med.
Se le mie man potessero esser rese
Satie d’una sol morre,
Non ne havrei data alcuna.
E benche due n’ancida,
E troppo picciol numero al mio duolo.
Se ne la madre ancora
Alcun figlio s’asconde,
Cercherò ne le viscere col ferro,
E fuori nel trarrò con questa spada.
Gias.
Fa la scelerità, fornisci lei;
Non ti prego, che lasci di fornirla,
Ma dammi qualche spatio
A tai supplicij miei.
Med.
Dolor non t’affrettare:
Ma godi de la lenta
Scelerità, ch’io faccio.
Gias.
Ah nemica crudel del proprio sangue;
Amazza me.
Med.
Tu dunque mi comandi,
Ch’io sia pietosa. Hor le cose van bene,
Ho fornito: mia doglia
Più non ha havuto in che gratificarti.
Hor tu ingrato Giasone
Volgi qui gliocchi tuoi, volgi superbo.
Deh non conosci tu la tua consorte?
Cosi sogl’io fuggire,
E farmi per lo ciel sicura via.
Ecco, che i due serpenti
Pongon benigni colli
Squamosi sotto il giogo.
Hor tu padre hoggimai
I tuoi figli ricevi.
Io per l’aria sarò portata intanto.
Gias.
Dovunque te n’andrai,
Dì, che non v’è alcun Dio.


Il fine della Settima Tragedia
di Medea.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.