Questo testo è incompleto.
In morte di mio fratello Giuseppe La mia cronaca di poeta
Questo testo fa parte della raccolta VIII. Da 'Storia e fantasia'

XI

MEDITAZIONE

— Va’, vivi e soffri, involucro
di polvere e di luce;
compagne a te le lacrime,
a te la speme è duce;
5smania il saper; tormento
e voluttá l’amor.
Va’, vivi e soffri e dubita,
sinché tu cada spento,
e sulla morta arena
10ti nutran l’aure appena
qualche selvaggio fior. —
Chi mi cavò dall’utero
cosi m’ha condannato.
Questo fardel sugli òmeri
15mi pose il mondo e il fato.
Questa è de’ padri miei
la legge e l’avvenir:
a ree lusinghe nascere,
vivere a tempi rei,
20ber l’inesausto affanno
cibar l’eterno inganno,
fremere e poi morir.

E, se una bruna palpebra,
se un conosciuto viso
25ad or ad or lampeggiano
sulla mia notte un riso,
indi ritrarne gioia
sará follia sperar;
ché il cor dell’uom s’intenebra
30di collere e di noia,
e il cor di donna in breve
è turbolento e lieve,
come la foglia e il mar.
O rosignoli, o teneri
35ospiti del boschetto!
in voi diffuso e vergine
è come in ciel l’affetto;
ché a voi misterioso,
è della morte il di;
40perciò la siepe e il frassino
vi dá gentil riposo,
e a noi superbi e dotti
son torbide le notti
e amaro è il sol cosi!
45I gelid’occhi al vortice
del mio passato io movo,
e l’arse travi e i fèretri
della mia casa trovo;
fèretri, ov’è sepolta
50la mia piú bella etá.
A me il presente è favola,
favola amara e stolta;
e l’avvenir chi M vede?
senza paura al piede
55chi traversar lo sa?

E intanto abbonda un secolo
dai súbiti guadagni:
lupi in man tei di pecore,
tigri col cor di ragni;
60baci di Giuda e accenti
misti di mèle e fiel;
mille villosi apostati
per il piattel di lenti;
liberti e berovieri,
65spadoni e giocolieri,
posti tra il boia e il ciel.
Pago è nessun del tacito
lare in che Dio lo pose:
invidia il ghiro all’aquila
70le sommitá nembose;
gitta la scarpa vecchia
e armeggia il ciabattin;
ogni milenso è un Cesare,
che al Rubicon si specchia,
75ogn’Ancia una Metella,
un Tullio ogni Brighella,
un Gracco ogni Arlecchin.
Chi puttaneggia in ciondoli
col dado e la fortuna;
80chi stupra le effemeridi,
chi l’aula e la tribuna;
chi sgombita, chi pesta,
chi mente e in alto va;
chi strepita, chi rampica
85dell’altro sulla testa;
chi porta senza impaccio
Cristo e Barabba in braccio,
e corna a chi noi fa.

Varchiam, varchiam, tra i zefiíri,
90tra il sole e la bufera,
varchiam questo spettacolo
di larve, infino a sera.
Ma tu, Signor, prometti
alla mia musa e a me
95che ci darai due salici
e i vispi usignoletti
qua e lá volanti, e molle
sulle fenèbri zolle
l’aura, che vien da te.
100E allor di questo comico
mondo, che mai non tace,
l’amara farsa e i cimbali
ascolteremo in pace;
e, quando fra le scene
105il fischio udrò suonar,
e il fumo delie lampade
ad avvertir mi viene
che la commedia è chiusa,
dirò: —Fra i salci, o musa,
110andiamci a riposar. —
E voi, notturne tibie
dal frassino sonanti,
o rosignoli, al tumulo
trillate i dolci canti.
115E, se alcun pio roseto
su noi germoglierá,
chinate l’ale al tiepido
rezzo odoroso e cheto;
e sotto alla commossa
120cóltrice della fossa
il cor ci batterá.

Però che sempre un palpito
ebbe per voi, cantori
dei radiosi vesperi
125e degl’infausti amori;
e, irato all’uom, sovente
per voi si consolò.
Ah! quando schiudi ai gemiti
la bocca onnipotente,
130chi mai, chi mai, Natura,
santa di Dio figura,
chi superar ti può?

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