< Meditazioni storiche
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Prospero Balbo a Felice Le Monnier Meditazione I




PREFAZIONE.




A coloro che tenendo essere una oramai la letteratura di tutta la Cristianità, e vedendo in essa scriversi tanti libri di argomento simile al mio, domandassero come io speri riuscire utile ancora fra tanti; io confesserei di non aver nulla a rispondere, come solo potrei qui, in poche parole. Tutti noi meditatori o discorritori di storia pretendiamo non avere altro scopo che la verità, altra via ad essa che l’imparzialità; e tutti più o meno schiettamente accenniamo aver letti i predecessori e compagni, e per ciò appunto malcontenti, aver afferrata la penna quasi Giovenali per isdegno, o quasi Correggio e Montesquieu per coscienza di essere noi pure da tanto. Quindi i leggitori già non badano a tutto ciò. Ma mentre gli uni lasciano impazienti qualunque libro ei presumono pari a molti in che non trovarono satisfazione; altri, all’incontro, fermi in credere doversi questa all’ultimo trovare nella maggior parte degli oggetti proseguiti costante mente dalle menti umane, cercano se la trovassero mai nel nuovo libro; nel quale poi si avanzano tanto almeno da poterne giudicare da sè, indipendentemente da qualunque promessa fallita o fallibile. Ad uso di questi ultimi ho cercato esporre nella Meditazione Prima le ragioni e le speranze, men del libro da me scritto, che della scienza da coltivata.

Ma a’ miei compatrioti, a cui fu detto già, e ripetuto ed amplificato poi, che tutti questi modi di discorsi, considerazioni o filosofie storiche non sono cose italiane, che sono contrarie al genio italiano, all’uso de’ maggiori, che italiane sono solamente le storie semplici e propriamente dette, le narrazioni nude o poco meno, io ricorderò fin di qua pochi fatti nostri all’incontro. Uno de’ primati italiani più certi fu già questo appunto de’ Discorsi storici. Machiavello è anteriore di due secoli, Vico contemporaneo a Bossuet, che fu il primo grande fra gli stranieri meditatori di storia. Ei non fu se non nel secolo scorso, quando appunto si moltiplicavano e peggioravano altrove siffatti scrittori, che cessarono quasi interamente i nostri, non so s’io dica lodevoli per non aver seguiti quelli, o biasimevoli per non essersi loro opposti. Ad ogni modo, progredita e nel progredire ravviatasi questa nostra scienza, qualunque sia, nel secolo presente, non tutti gl’Italiani rimasero alieni a tale progresso, non tutti s’aggiunsero a’ disprezzi di esso. Romagnosi, Manzoni, Rosmini, Cantù, Gioberti, scrittori diversissimi, protestarono pur tutti contro col fatto; Manzoni direttamente coll’opera della Morale cattolica, gli altri indirettamente in molte parti dell’opere loro. A questi pochi, ma tali, io spero aver forse aggiunto il nome dell’amico mio Vidua, pubblicando un breve e forte scritto postumo di lui sullo Stato delle Cognizioni in Italia; a questi tentai poscia aggiunger me stesso con un saggio, per vero dire, molto leggiero, e tento aggiugnermi ora col presente meno incompiuto.

A coloro poi, che furono così benevoli a’ miei studi anteriori da confortarmi talora a continuarli, ei mi pare dover rendere conto brevemente come io me ne scosti qui in parte. Questo libro, di che pubblico il principio in età avanzata, io l’ebbi più o meno in cuore fin da quegli anni ultimi dell’adolescenza, primi della gioventù, in che si sogliono anticipare le idee della vita ulteriore; fin d’allora la storia universale fu oggetto, fu desiderio delle mie immature contemplazioni. Ma distrattone in gioventù dalla vita attiva, quando poi incominciai a scrivere, m’attenni a ciò che era men discosto da quella, alla storia della patria. E se non fui costante alla forma (nè importa qui se la colpa fosse mia, o d’altrui, o de’ tempi, o della sventura), costante fui lunghi anni all’assunto, allo studio. Ad ogni modo ei fu quel medesimo studio, che mi fece riedere all’idea giovanile. Quanto più mi addentrai nella storia d’Italia, tanto più mi venni capacitando: utili certo ad essa e molto lodevoli essere le raccolte, le pubblicazioni di documenti, e le belle e più le buone narrazioni di (atti; ma mancare a lei oramai molto meno questi, che non la retta intelligenza di essi, la ricerca e la esposizione di lor ragioni, la comparazione di essi con quelli dell’altre storie; tutto ciò insomma che di qualunque nome si chiami, filosofia o ragioni o meditazioni della storia d’Italia, non fu guari scritto nè ben nè male finora. E così venni ciò tentando, e così accumulandone non brevi scritti. Ma di nuovo e finalmente mi capacitai: che in tanta connessione com’è della Storia d’Italia con quelle delle due grandi nazioni vicine, anzi di tutta la Cristianità, non è forse possibile cercar bene per la prima volta le ragioni di essa senza entrare in quelle di tutta la Storia cristiana, o meglio ancora di tutta la universale. Ed io mi sbigottii dapprima a tanta ampliazione d’argomento; ma ricominciai poscia, pensando, che se mi mancheranno le forze a questo, così mi sarebber mancate a quello, meno ampio ma non meno arduo, della Storia d’Italia; e che se elle mi reggessero, e non rimanessi troppo inferiore al grande assunto, avrei adempiuto a quello fra’ lavori dell’arte mia, che mi pare il primo necessario alla patria nostra, ed uno de’ più opportuni a farsi per un Italiano a comun pro. Io non so se m’inganni, ma ei mi pare che convergendo all’Italia la storia antica tutta, e divergendone quindici diciannovesimi della moderna, possano le due essere forse più facilmente osservate da questo centro, che non da qualunque altro punto di vista all’intorno.

Finalmente, adempio a un altro anche più stretto dovere. Questo nostro angolo, già rozzo e ancor ruvido, d’Italia, io credo sia pure uno di quelli ove chiunque perdura, trovi più esempi e conforti ed aiuti al lavoro. Tantochè, s’io volessi accennare tutti coloro che mi giovarono in uno di questi modi, io farei tal lista da parer vantarmi anzichè ringraziare. Ma ne sono alcuni che non vorrei assolutamente tacere. Ai professori Peyron, Gazzera, Barucchi, ed un quarto il quale mi vieta di aggiunger qui il nome suo, io debbo, fin di qua, che esca men povero di notizie, men pieno d’errori questo mio lavoro. E con tali aiuti ei mi sarebbe facilissimo, come credo sia in generale a qualunque scrittore, moltiplicare citazioni ed erudizioni anche recondite. Ma, qui come al solito, io scrivo ad uso de’ colti anzichè degli eruditi; ondechè ho ridotte al minimo e rigettate in nota tutte le illustrazioni, e citati più sovente gli ultimi e migliori raccoglitori e discutitori de’ fonti che non i fonti stessi. Ciò solo mi parve utile, ciò solo ad ogni mode possibile in materia sì vasta. Del resto, contro a quello che fu pur detto della gran facilità di scrivere discorsi storici, io potrei protestare di non aver mai di gran lunga scritto così difficilmente e lentamente e rinnovatamente come qui; e di temer quindi anzi la condanna pronunciata contro ai lavori troppo fatti e rifatti; e da tali difficoltà essere stato mosso a terminar via via e pubblicare ogni parte del mio lavoro. Ma lascino pure i leggitori (e gli spregiudicati le lasceranno) quinci e quindi condanne e proteste, e giudichino del solo risultato. Questo solo importa ad essi; ed anche allo scrittore. Se egli avrà poco o molto contribuito a spargere, massimamente in patria, alcune che a lui paiono verità importanti, niuna fatica di lui sarà stata troppa; ei chiuderà con qualche satisfazione la sua carriera letteraria. E la chiuderà ad ogni modo col conforto d’aver perdurato fino all’ultimo in tal buona volontà.

Torino, 29 giugno 1842.


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