< Memorie del presbiterio
Questo testo è completo.
III V

IV.


Uno squillo sottile e prolungato rispose allo scrollo potente che il sagrestano, avvezzo alle corde del campanile, aveva dato all’esile cordicina verde che uscia da un buco dell’imposta. Pochi istanti dopo, un rumor di passi si avvicinò e una vocina fievole chiese chi fosse.

— Son Baccio.

E la porta si aperse.

Cesare entrando in Roma colle spoglie delle Gallie, non aveva certo l’aspetto più altiero e più trionfante di quello di Baccio, quando, penetrato nel corridoio e fatto un sorriso alla vecchierella che ci aveva aperto, disse a me:

— Resti servito!

La prima senzazione che provai, fu di un profumo d’incenso diffuso, misto a quell’odore senza nome che emana dalla umidità delle pareti nelle case poco abitate. La vecchierella che precedeva col lume, parlava a bassa voce colla mia guida; giunta in fondo al corritoio che dava in un cortiletto, si arrestò, mentre l’altro proseguiva col bagaglio e poichè le fui giunto vicino, alzò con ingenua famigliarità la lucernetta fino all’altezza del mio naso; allora vidi due occhietti lucidi e profondi che mi fissavano con una curiosità che sapeva di investigazione e che si sciolse in un lungo sorriso immobile.

— Santa Caterina! sclamò poi precedendomi di nuovo attraverso i ciottoli erbosi, se l’avessi saputo prima, avrei almeno allestito qualche cosa che fosse degno di un signore!

E dirigendomi la parola:

— Siamo in certi paesi, illustrissimo, che si ha proprio vergogna quando arriva un forestiero come lei. Basta, Don Luigi le spiegherà meglio ogni cosa. Ecco, s’accomodi qui: questo è il suo gabinetto.

Ciò che la ingenua Perpetua chiamava il gabinetto del signor curato, era uno stanzone ampio ed alto, così che avrebbe potuto servire per una festa da ballo. Sedetti sopra una specie di divano coperto di una pelle color caffè, arrestata all’ingiro da piccoli bottoni d’ottone, e mi diedi ad osservare. Davanti a me un largo tavolo quadrato, in vecchio noce annerito, appoggiato a quattro gambe solide come colonne, dominava da protagonista la scena. Per metà coperto da un tappeto di panno verde grossolano, sopportava due alte cataste di registri legati in cuoio, senza dubbio i registri delle nascite e delle morti, questa scrittura doppia, questa Entrata ed Uscita di un commercio senza soluzione di continuità, per quanto possano mutare i tempi e gli avvenimenti.

Accanto ad essi il breviario aperto pareva annoiarsi aspettando la ripresa della lettura interrotta, in compagnia di un gran calamaio di piombo da cui aveva l’aria di spiccare il volo una coppia di penne d’oca; appoggiato al calamaio un rotolo di carta azzurrognola coperta di fitti e grossi caratteri. A destra del tavolo nereggiava gettando un’ombra lunga e tagliente sulla parete, una libreria.

Le novanta volte su cento voi potete giudicare del carattere, delle abitudini, degli affetti di un uomo dal frontispizio dei volumi schierati nella sua libreria. E ciò sopratutto in quelle silenti dimore delle creature pensanti, sepolte nella monotona vita della provincia, case bianche che serbano una tal aria di modesta aristocrazia, se così è lecito esprimermi, in mezzo al bottegume ed al borghesume; oasi strappate dagli uragani della vita al giardino della civiltà, dalla civiltà dimenticate, ma che il viaggiatore filosofo saluta e benedice talvolta colla pia gioia del nomade nel deserto. Là non troverete le cento nullità letterarie di cui si pasce ogni giorno la curiosità cittadina; il libercolo, l’opuscolo di circostanza, il volume a margini sterminati, ultimo portato della speculazione libraria, li cercherete invano sotto ai vetri puliti di quegli scaffali che racchiudono tutte le memorie di un passato, pane quotidiano di spiriti che, per lo più tuffati in un ozio meditativo, non hanno bisogno di nuovi sapori, di sali più corroboranti per innalzarsi al disopra delle monotone realtà che li circondano.

La libreria, la famiglia rispetto alla quale non siete nè figlio, nè padre, ma che vi può dare tutte quelle gioie che stanno chiuse in queste due parole, interrogatela quando è patrimonio dell’uomo solitario, dell’uomo esiliato dalla società e che ha in essa creata la società sua. Lo conoscerete.

I libri del curato di Sulzena erano pochi ma eletti.

Fatta astrazione delle numerose edizioni della Bibbia, dei suoi dizionarii e commenti, delle opere dei Santi Padri, e dei numerosi volumi di giurisprudenza ecclesiastica, suppellettile indispensabile, parecchie file di volumi legati più modernamente, e taluni con una tal qual civetteria più da gabinetto di dama che da studio di prete, annunciavano nel mio ospite una coltura elevata e gentile.

Ciò per la scelta così come pel numero. I classici da Omero a Menandro, da Tucidide a Plutarco, rappresentati nei più profondi e nei più fantasiosi; i nostri poeti, un bel Dante coi commenti del Portirelli, legato in oro, e l’indice della Divina Commedia del Volpi; un Boccaccio, — ad edizione non purgata. — i poeti minori, l’Ariosto. Notai l’assenza di messer Francesco e del Tasso.

Manzoni chiudeva l’augusta falange. In fatto d’arti figurative, il curato non era nè troppo eclettico nè troppo avanzato. Alle pareti pendevano dentro cornici che un giorno erano probabilmente dorate, quattro larghe ed alte stampe rappresentanti il giudizio di Salomone, Giuseppe venduto dai suoi fratelli, Alessandro che taglia il nodo Gordiano, e il sacrificio di Abramo. Insieme formavano come una selva che tu avessi veduta attraverso alla nebbia, irta di braccia ritorte, ad angoli acuti, retti, ed ottusi, di gambe ravvoltolate, raggrinzate, incrocicchiate, di torsi scabri più della corteccia del pino, di movenze in aperta congiura contro l’equilibrio, di panneggiamenti più complicati e più indecifrabili che non siano per me e forse anche per voi i logaritmi. Il barocco aveva detta l’ultima parola in quelle quattro composizioni evidentemente uscite da un’unica fantasia; e lì come incastrati nella parete umidiccia, sopra ampie scranne a forme rettangolari, erano tale una stonatura da mettere i brividi al più volgare dei beoti.

Sul camino, piccolo in confronto all’ampiezza della stanza, sorgeva sotto il suo berrettone di vetro un pendolo tutto incrostato di conchiglie marine d’ogni specie e d’ogni colore, che nell’insieme formavano un disegno assai somigliante alla rosa dei venti. Ai lati due vasi di ardesia, lunghi lunghi, di forma conica, ricolmi di carte fuor d’uso, di vecchi astucci da occhiali, e di fuscelli di malva appassita, pieni di polvere.

Evidentemente il curato non prodigava le sue affezioni domestiche al di là della libreria.

La fantesca ritornò sull’uscio donde era uscita. Il cigolìo mi fe’ volgere la testa: ella pareva volermi dire alcun che e non averne il coraggio. Dopo aver titubato alquanto:

— La scusi, balbettò, la scusi tanto; mi trovo colla credenza vuota come la chiesa alla mezzanotte. Domani sì, ce ne sarà della grazia di Dio... adesso..

— Oh! la mia cara donna, la interruppi, vi pare? Fatemi friggere due ova, e datemi un boccone di cacio, oppure un tozzo di pane in una scodella di latte; sono i cibi che preferisco e non voglio assolutamente che vi diate altre brighe. Anzi, se mi permettete, verrò in cucina ad aiutarvi.

— Oh! che buon signore! già l’ho detto subito dalla faccia. Venga pur qui, se non vuol star solo finchè torni don Luigi; quanto ad aiutarmi (e si diè a ridere fra i denti), non è mica caso... se ne avessi bisogno, c’è Baccio.

— A proposito, sclamò il campanaro quando entravamo in cucina; mi scordavo di dirvelo, o Mansueta; sapete dov’è il signor curato?

— Lo so io? stavo annaffiando quel po’ di piselletti che sembra siano stati cosputati dalle streghe, che Dio mi perdoni... che non vogliono dar segno di vita...; sento il campanello, vengo dentro, e don Luigi non c’era già più.

— È dalla Gina che muore.

Per poco la povera Mansueta non si lasciò cader di mano la scodella che stava per collocar sui fornelli.

— Santa Caterina beatissima! Dite da senno? Ma come mai? non è possibile... con quel povero bravo suo marito... che l’ho visto nascere! e con quella povera creatura di bambina! lasciarli soli... è impossibile, è impossibile. Baccio, vedrete che Don Luigi non la lascierà morire così.

Il sagrestano parve star sopra pensiero alcun poco, e, — Non so se farò bene o male, disse come parlando a sè stesso; è notte alta. Ad ogni modo è giusto che tutti lo sappiano e preghino.

E uscì frettolosamente da una porticina che metteva all’aperto.

Io mi accovacciai sotto l’ampio camino della cucina ed attesi, osservando la fantesca occupata intorno alla mia cena. Le sue labbra avvizzite e cadenti cominciarono allora a muoversi con una velocità che andava sempre crescendo. Il burro che bilbiva nella scodella accompagnava col suo capriccioso scoppiettio gli ora pro ea, gli ave e gli amen che di tanto in tanto sfuggivano alla preghiera mentale della vecchierella. Tutto era silenzio nel resto. Io guardava il tizzone ardente da cui spiccavansi le faville come anime liberate dalla materia, e pensavo a quella della povera montanara che in quel momento faceva forse lo stesso.

D’improvviso uno squillo, forte e nitido, cadde dall’alto, e rimbombò nell’aria tragicamente.

— Che è questo?

— È Baccio che suona l’agonia per la Gina. E abbandonati i fornelli, e accostatasi ad una scranna, la povera creatura cadde ginocchioni.

O memoria della mia giovinezza!... Contemplai per un istante quella testa grigia, e involontariamente piegai un ginocchio al suo fianco. Fu in questa posizione che trovommi in casa sua il curato di Sulzena.


Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.