< Memorie del presbiterio
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IV VI

V.


Mi rivolsi al suono dei suoi passi, mi rizzai, e gli mossi incontro. Egli si fermò, mi stese ambe le mani, e, prima ch’io trovassi una parola, mi disse:

— Quanto vi sono grato di non aver proseguito il vostro viaggio. Oh! non l’avrei perdonata a Baccio, se vi avesse lasciato partire.

E data un’occhiata intorno per la cucina, si rivolse a Mansueta, che si era pur alzata al suo arrivo e che lo stava contemplando come una imagine santa.

I rintocchi dell’agonia continuavano.

— Sei colta all’improvviso, non è vero, poveretta? Hai detto a questo signore l’abbondanza dei nostri paesi?

— Oh! è un signore alla buona. Ed ecco le ova che ha desiderato; fresche come l’acqua del pozzo.

— Una cena simile! disse il curato; e abbassando la voce, soggiunse tristamente:

— E accompagnata da musica siffatta.

Mi introdusse dipoi nel tinello dove la vecchia fante non tardò a depormi innanzi, sopra un tovagliolo tovagliolo bianchissimo, le ova ed il pane accanto a una bottiglia di vino.

Il curato, cui non avevo ancora avuto modo di rivolgere il mio discorso tranne che a monosillabi, mi sedette vicino e, pur ripetendomi le sue scuse per la grettezza della cena, mi guardava con quell’occhio interrogativo, sebbene meno adamitico, che aveva veduto, al primo entrare, sotto la cuffia di Mansueta.

Il curato poteva contare sessantacinque ai settanta anni; ma la tarda età appariva in lui più che dalle rughe del viso, ch’era ancor fresco e rubizzo, da una cert’aria di stanchezza grave, direi quasi solenne, che circondava tutta la sua persona. Avea la fronte altissima e singolarmente convessa: la fiamma della lucerna vi poneva una larga pennellata lucente che illuminava una pelle così rosea e così tersa che si sarebbe detta di un fanciullo. Poche ciocche di capelli, bianchi come la neve, gli circondavano la testa; ma così fini, così vaporosi, che parevano sospesi nell’aria, e gli incorniciavano il viso meglio di una chioma di vent’anni. Il naso aquilino e finissimo pareva di un gentiluomo spagnuolo; la bocca, da cui apparivano ancora, a dispetto degli anni, due file intatte di denti, era forse un po’ larga in confronto alla perfezione dei lineamenti che la circondavano; ma il difetto era cancellato da due piccole pieghe ai lati che le perpetuavano il sorriso: aggiungete due occhi limpidi e profondi, l’abito modestissimo, ma di nitidezza inappuntabile, una mano quasi femminile, una voce dolce e nel tempo stesso piena di vibrazioni, l’erre di una duchessa — e vi spiegherete le parole che rivolsi al mio ospite, assaporando le ova eccellentissime del suo pollaio.

— Signor curato, gli dissi, davvero che, se non avessi coscienza della strada che ho percorso, crederei che qui non sono in Italia. La stranezza del modo con cui oggi ho dato tregua al mio viaggio, la cordialità che mi circonda, il vostro aspetto, tutto mi farebbe supporre d’essere in una di quelle case della Tebaide, dove son vive tuttavia le memorie bibliche, e gli uomini santi le respirano ancora, e le ripetono con antica sapienza...

Il vecchio mi interruppe:

— Tebaide, sì, è una Tebaide questa valle: ma soltanto per la solitudine; quanto al resto, sono troppo indegno del paragone. — Questo pezzetto di cacio... assaggiatene... è dei nostri pascoli. — Ed è per questo che l’ospitalità è qui, oltre che è un dovere, un bisogno, una vera consolazione.

Una malinconia velata, ma che tentava nascondersi invano, suonava nella voce del prete.

— Pochi viaggiatori, m’immagino, passeranno per questi gioghi, diss’io. E son così belli! Da quindici giorni vado errando quassù, e non so come mi reggerà il cuore a riveder la pianura. Vorrei poter vivere sempre in alto, in quest’aria pura, in mezzo a queste scene sublimi; esse valgono, ve ne assicuro, signor curato, tutti gli svaghi e tutti gli agi della città. Io vi invidio...

— Oh! non ditelo! Voi siete giovane, e, alle vostre parole mi sembrate poeta— siete pittore, del resto, e... ut pictura poësis; gioventù e poesia mostrano il lato bello di ogni cosa, e il lato brutto e triste lo nascondono. Pensate la vita di un uomo che è solo da quarant’anni!... senza un’anima con cui ricambiare un’idea!... le scene della natura, voi dite; le amo anch’io, le ammiro, le adoro, sono le mie confidenti, la mia società... ma sono mute, non mi rispondono; e si ha bisogno di chi risponda quando si interroga, quando si pensa, quando si soffre.

Alzai la faccia: quella del curato si era fatta più pallida e pareva che un velo gli fosse sceso sugli occhi. Incontrando il mio sguardo si ricompose, e mutò tono alla voce, forse pentito di quelle parole che implicavano quasi una confidenza a un uomo conosciuto da pochi minuti.

— Pochissimi viaggiatori, pochissimi; e viaggiatori della vostra condizione ancor meno. Di solito è qualche mulattiere ritardato dalle intemperie che viene a chiedermi un posto per sè e per le sue mule; e’ mi dà le notizie delle borgate ove ha corse le fiere e udito parlar di politica all’albergo o ai caffè. Oppure son compagnie di tagliapietre che vanno a esercitare il loro acerbo mestiere sulle cime; povera gente onesta che di solito ha girato molto il mondo, e avuto avventure. Ecco i miei ospiti. Capirete come io sia riconoscente a voi...

— Signor curato, lo interuppi, io sì che debbo essere riconoscente a Baccio ed alla mia buona stella di avermi condotto in questa casa. Ah! la gioventù e la poesia non sono per me tutto riso e splendore; perchè sono giovine ed artista, sono pieno di dubbi e di sconforti, e perchè sono, o meglio sento che sarò un giorno poeta, l’anima mia assorbe già, insieme colle bellezze, tutti i lamenti e tutti i terrori della natura.

Salendo al villaggio, signor curato, mi sentivo triste come un moribondo; pensavo a mia madre, stranamente. Avevo anch’io bisogno di trovar chi mi rispondesse, chi mi capisse!... bevo questo bicchiere alla salute di Baccio, di quel bravo uomo che mi ha condotto davanti a un’anima buona e bella come la vostra!

Prendendo il bicchiere speravo vincere o almeno sviare l’emozione che sentivo salirmi dal cuore alla faccia. Fu invano: io stavo sotto un fascino: l’amicizia che doveva legare dappoi il giovine pittore al vecchio curato aveva già stese le ali sulle nostre teste.

Alle mie parole egli si era alzato, e, con un gesto che avea del fratello insieme e del padre, mi prese le mani, mormorando:

— Dio vi benedica!

In questo, Mansueta entrò con una candela accesa e mi disse:

— Quando desidera, il letto è pronto.

Persuaso che fosse l’ora in cui conveniva ritirarsi, strinsi la mano un’altra volta al mio nuovo amico, e, a malincuore, giacchè non sentivo più nessuna stanchezza, seguii la fantesca.

Ella mi fece salire una piccola scala dai gradini larghi e lisci, e mi trovai davanti a un letticciuolo pulito, fiancheggiato da un ampio seggiolone che aveva l’aria di aver passato i begli anni della sua gioventù fra la musica e l’incenso del coro.

Del resto la camera destinatami non offriva molta materia di analisi. Una sedia coperta di paglia stava al posto del tavolo da notte, coll’inevitabile bicchier d’acqua e il mazzo dei zolfanelli; in faccia al letto, sotto la finestra, un tavolino quadrato con una gamba più corta delle altre, pareva un ballerino nell’atto di spiccare la pirouette; una fila di quadretti coprivano in simmetria le pareti bianchissime: sotto i vetri punzecchiati dalle lentiggini delle mosche, riconobbi il Crisostomo, San Filippo abate, San Luigi Gonzaga, — litografie colorate con toni azzurri e rossi crudi e duri come gli scheletri che si trovano nelle sabbie dei tropici— brava gente che certo faceva le meraviglie di veder quel letto vestito a nuovo e me beatamente distesovi sopra.

Non era quella la camera che il curato offriva agli scalpellini ed ai mulattieri; non tardai a persuadermi che per me si era scelto il locale delle grandi occasioni, in cui chi sa da quanto tempo nessuno aveva dormito.

Ne può essere prova l’anedotto innocentissimo che mi piace contarvi, benchè affatto estraneo al soggetto. Prendo anzi quest’occasione per ripetere ch’io qui non scrivo un romanzo col suo principio, col suo mezzo, col suo fine, colle sue cause, il suo sviluppo e le sue conseguenze, e tutte le belle cose che si leggono nei trattati di estetica; ma bensì raccolgo impressioni di scene e di fatti, sensazioni di luoghi e di persone in cui mi sono scontrato e che, per un mero effetto del caso convergeranno, se mi si presta attenzione, a far cornice utile se non anche necessaria al soggetto doloroso che è la ragione di essere di questo studio.

Mi ero dunque coricato e riandavo col pensiero, già ondeggiante nell’atmosfera magnetica che precede il sonno, i casi della giornata. Macchinalmente i miei occhi erano fissi alla finestra chiusa, dalle fessure della quale penetrava un pallido bagliore di luna. D’improvviso mi parve che qualche cosa si movesse sul tavolino sottoposto, qualche cosa di nero, un volume o una scatola. Concentrai l’attenzione, trattenendo il respiro, e... un sudore freddo mi coperse dal capo ai piedi; era un berretto da prete che dondolava, che s’inchinava, che saltellava diabolicamente. Mi rizzai senza volerlo; il berretto, come se mi avesse veduto o sentito, si arrestò; riposi la testa sul guanciale, il berretto si diè a ballare di nuovo.

Bisogna ch’io confessi che ho la disgrazia di credere a una quantità sterminata di cose a cui la maggioranza degli uomini non crede; e voi sapete l’influenza della solitudine sugli spiriti inclini al soprannaturale.

A quell’epoca non avevo ancor letto Edgardo Poë, ma avevo già tutti sognati i sogni di quell’anima infelice; e quell’amore pieno di voluttuoso sgomento che mi lega adesso al poeta dell’Inesplicabile, mi avvinceva già, inconscio, al mondo tenebroso delle sue scoperte. Quel berretto magico che mi aveva atterrito, cominciavo a osservarlo, col capo quasi sepolto nelle coltri, collo sguardo immobile, col respiro represso, eppure con una sorta di godimento che somigliava a quello che prova il naturalista quando, frugando nelle roccie, gli vien dato di scoprire una specie rara d’erba o di minerale. Ballonzolando capricciosamente, a furia di piccoli sbalzi, il berretto era giunto sull’orlo del tavolo, e il fiocco, traboccatone, penzolava, coll’ondeggiamento monotono e regolare di una campana.

Allora mi parve di udire ancora i rintocchi della dell’agonia della Gina, e di veder la giovane morta distesa attraverso la camera.

L’eccessiva stanchezza, gli avvenimenti impreveduti danno — coll’aiuto di una materassa di piume, — di così fatte allucinazioni.

Il pallore di quella faccia, rovesciata sulle spalle, illuminava le pareti; gli occhi, coperti di un velo diafano, come se i ragni vi avessero filato di sopra, spalancati e pieni di stupore, scintillavano fiocamente; del corpo, sepolto nella penombra, non scorgevo che indistintamente i contorni. A poco a poco svanirono del tutto, quasi assorbiti dalla oscurità: ma, in compenso, il lume del viso cresceva. Io l’affisava senza batter ciglio, per tema che, abbandonandola solo un minuto secondo, la visione dovesse sparire. La contemplazione indefessa la incatenava; ma fra essa e i miei occhi passavano dei globi e delle striscie di fuoco. Cominciavo a sentirli di soverchio stanchi, e già anche la faccia del cadavere si scioglieva: non ne restavano che due scintille sotto le palpebre; ma quelle due scintille (mi toccai per accertarmi che non sognavo) quelle due scintille non erano una illusione, quelle due scintille esistevano, quelle due scintille erano occhi veri, due occhi oscuri che mi guardavano, che mi guardavano fissi fuor da quel berretto infernale!...

Balzai nel mezzo della stanza e nello stesso tempo... diedi in uno scroscio di risa.

Il berretto rotolò per terra, e il più leggiadro topolino del mondo mi passò tra le gambe.

— Ecco uno, pensai, ricacciandomi fra le coltri, uno che ha avuto più paura di me.

E spento il lume, e mormorato come il bramino:

Tutto non è che ombra vana!

mi addormentai per non risvegliarmi che a mattino inoltrato.

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