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XV.
Contenti e nel tempo stesso malinconici. Interrogavano tacitamente la immobile fisionomia del babbo.
E la fisionomia del babbo era lugubre.
Le parole di Don Luigi erano state inefficaci. Il povero uomo pensava alla sua povera donna.
— È sotto terra, mi sussurrò all’orecchio, sotto terra, tre metri sotto terra. Hanno un bel dire, ma adesso infracidisce nella sua cassa, Mi voleva tanto bene, e ce ne volevo tanto a lei!... Scusi, signor pittore... mi lasci piangere.
I due fanciulli mangiavano avidamente, ma mettevano sempre, fra un boccone e l’altro un punto di interrogazione.
La buona Mansueta se li condusse via coll’esca di due mele cotte nella cinigia.
Restammo soli, io, il vedovo e Baccio; soli e in un mestissimo silenzio non interrotto che dal crepito della lampada ad olio.
Ma Beppe si alzò di repente, e, piantatosi fra me e il campanaro, prese un atteggiamento che ci fece paura; un atteggiamento di rivolta e di sfida. Pareva Spartaco in abito di frustagno. E con voce concitata, rauca, affannosa, cominciò:
— Voglio parlare! bisogna che parli! il mio segreto mi bruccia nella strozza! Mi ascolti pazientemente, signorino, e tu, Baccio, stammi a sentire anche tu.
Si asciugò il sudore, tornò a sedere, si nascose la testa nelle mani, e continuò:
— La mia Gina a quindici anni era la più bella ragazza del paese, e la più buona. Tu, Baccio, lo puoi dire e lo può dire Mansueta e Don Luigi e tutti lo possono dire. Le nostre baite erano vicine; mio padre e mia madre, suo padre e sua madre si davano del tu fin da quando erano fanciulli alti come quei due poveretti che sono usciti testè...
Qui s’interuppe, e disse a bassa voce, quasi parlando a sè stesso:
— Perchè li abbiamo messi al mondo, perchè?
E, ringolfandosi nelle memorie, continuava:
— Ella veniva ogni mattina a distendere il fieno sull’aia che separava le nostre case; e cantava una canzonetta... che era il mio spuntare del sole.
Ti ricordi, Baccio, che bel giorno fu quello delle mie nozze con Gina? Sono passati undici anni. Il mio testimonio era quel galantuomo del signor De Emma. Come scampanavi di gusto, buon Baccio!...
Ed ora è morta e infracidisce nella sua cassa!... E sapete chi me l’ha uccisa? Quel cane di sindaco che morirà per le mie mani come è vero che ci sono Gesù e la Madonna e l’Eterno e lo Spirito Santo in paradiso.
A queste parole guardai Baccio in viso; egli aveva la bocca chiusa ermeticamente, e gli occhi spalancati oltre ogni umana possibilità. Tremava dalla testa ai piedi.
Beppe dilaniava un tovagliolo con dita convulse, e, senza accorgersene lo inzuppava di grosse lagrime intermittenti.
— Dio di bontà, esclamò Baccio, dando un crollo a tutta la sua zoppicante persona, è venuta la fine del mondo?
— La verrà e presto; sentirai. Parecchi già avevano avvertito la mia Gina che quel birbone la guardava con certi occhi, che so io, in un modo che non guardava le altre donne; ma la poveretta era così buona e così virtuosa che non le passava nemmeno pel capo che al mondo ci fosse gente capace di fare il male e tampoco di pensarlo. Egli intanto aveva preso l’abitudine di venir molto di frequente in casa nostra, ora con un pretesto or coll’altro; io era obbligato dalle mie facende a passar quasi l’intiera giornata sulla montagna, e i miei vecchi erano ingenui come la Gina, e, poi via... erano vecchi. Alla sera, senza motivo alcuno, gironzolava di su e di giù davanti al nostro uscio.
Le cose andarono al punto che, un giorno, dopo la cena, poi che i vecchi e i ragazzi furono andati a dormire, la Gina, con una voce che non pareva la sua, e cercando quasi di non incontrare il mio sguardo, mi disse:
— Bebbe, ho bisogno di parlarti.
Me le sedetti vicino, presso il fuoco, ed ella, con quella voce sempre più diversa del solito, mi bisbigliò nell’orecchio, mettendomi un braccio intorno al collo:
— Ho paura del sindaco!
Io, che non mi ero accorto nè dubitava di nulla, — Del sindaco, esclamai strabiliato; oh! che cosa ti gira per il capo, stasera?
Allora ella mi narrò, come quel cane di un signor Angelo De Boni la perseguitasse già da più di due mesi, seguendola e arrestandola per le campagne e pei boschi, trovandosi sempre sul suo passaggio, sorridendole con un’aria bestiale, e dicendole delle cose... delle cose di cui ella non capiva il significato, ma che le parevano cose cattive, cose contro il timor di Dio. E le diceva con voce dolce e rauca... e — aggiunse quella mia sventurata celandosi la faccia tra le mani — aveva tentato più volte di metterle le mani addosso!...
Credo che fosse un urlo quello che mi uscì dall’animo all’udir questa infamia; giacchè il mio marmocchio più piccolo si destò strillando, e sentii nell’altra camera il povero padre voltarsi sotto le coltri e mandar un sospirone affannoso come è usanza dei vecchi disturbati nel loro primo sonno.
Come il bimbo fu acquetato, presi pel braccio la Gina e ce ne venimmo insieme qui dal signor curato. Te ne ricordi, Baccio, fosti tu che venisti ad aprire, tutto meravigliato.
— Santi del paradiso! sclamò il campanaro, spalancando gli occhi e alzando le braccia; era per questo?!... Se me ne ricordo! ero appena tornato dalla fontana e stavo per andarmene a letto...
— E narraste la cosa a Don Luigi, interruppi a mia volta; e che vi consigliò Don Luigi?
Beppe si passò un’altra volta la mano sulla fronte.
— E che volete che mi consigliasse, mio buon signore? Prima diventò pallido, pallido, poi mi disse in tutta confidenza, guardandosi intorno come se avesse paura che i muri e i quadri lo potessero dire, mi disse che il Sindaco era un uomo capace di tutto; che bisognava usar prudenza: che Gina non uscisse mai dopo il cader del sole, che io facessi il possibile per non lasciarla troppo sola... che so io, tante altre cose mi disse. Ma in cielo era scritto ciò che era scritto!
Tuttavia le parole del signor curato mi avevano alquanto rassicurato, e rifacevo la strada verso casa con animo assai più leggiero, quando la Gina affrettò il passo stringendomi forte il braccio e quasi avvinghiandosi a me, come se avesse veduto il lupo.
Fosse stato il lupo, fosse stato l’orso!... non mi avrebbe messo maggior spavento. Spavento, dico? no, rabbia, stupore, ribrezzo; giacchè era lui, l’infame uomo, che aveva spiato i nostri passi, che ne aveva certamente indovinato il motivo, e da quel momento, lo giurerei in punto di morte, stabilì di affrettare la rovina della povera Gina e la mia.
Ci seguì, a pochi passi di distanza, fino sull’uscio.
Mentre io stavo aprendo adagio adagio per non svegliar la famiglia, ci passò dinanzi, sempre alquanto lontano, e intonò zufolando l’aria di una canzone oscena, come per cimentarmi, che so io, per farmi perdere la testa del tutto.
Qual notte fu quella! Il sonno che a mia memoria non mi aveva mancato mai, tranne che nell’ultimo mese che precedette le mie nozze (ma quelle erano veglie che non darei ancora adesso per tutto l’oro del mondo) non voleva saperne ad ogni costo di venire a togliermi la febbre che mi ardeva. La povera tosa, che capiva il mio turbamento, benchè me ne stessi zitto, faceva mostra di dormire; ma io mi accorgeva che vegliava e che il suo cuore batteva come il mio. Essere angosciati, e allo scuro, e non poter muoversi, non so se l’abbiate provato anche voi, è una cosa a cui Dio non dovrebbe condannare una povera creatura. Come la disgrazia diventa più grossa, come il buio somiglia più buio e pieno di diavolerie e come sembra di aver sullo stomaco una pietra da mulino!...
Che cosa ho mai fatto, andavo arrovellandomi dentro di me, che cosa ho mai fatto di male per meritarmi questa tribulazione? Ho lavorato fin da piccino come una bestia da soma, non ho mai torto un capello a nessuno, non ho mai, mai mancato di rispetto ai miei vecchi, ho voluto bene alla Gina, onestamente, e l’ho sposata da onest’uomo; ho cercato di tirar su il meglio possibile i figli che la Provvidenza mi ha dato... perchè ci deve essere un cane?... E, sentendomi serrarsi i pugni e affogarmi della voglia di bestemmiare, domandavo scusa al Signore e facevo voto di starmene cheto ed anche....anche di perdonare....— ma.... perdonare.... purchè, purchè.... e il pensiero che colui potesse toccar, fosse con un dito anche, soltanto un lembo di una manica di Gina, mi faceva ribollir il sangue daccapo! E le parole del signor curato che poco prima pareva mi avessero un po’ sollevato, allora mi suonavano all’orecchio con un effetto del tutto diverso. «È un uomo capace di tutto!» Che tutto? Tremavo, e gelavo e bollivo. E se Gina non mi avesse detto le cose che a metà?... Infelicissimo uomo!... Nessun pennello, nessuna penna avrebbe potuto ritrarre l’indefinibilmente profonda espressione di dolore e di rabbia, di abbattimento e di energia che in quel momento appariva in quella faccia smunta su cui le lagrime non scorrevano più.
Io e Baccio attoniti, rattenendo il respiro, non battendo ciglio, lo guardavamo immobili e atterrati ugualmente; egli, semi-idiota e vecchio montanaro, ed io non montanaro, non semi-idiota e non vecchio, affratellati da due sentimenti di pietà che nella bilancia di Dio certo avrebbero pesato lo stesso.
E Beppe, alzatosi e camminando a lunghi passi per la cucina, continuava:
— A questo dubbio che mi afferrò per il collo come una tenaglia rovente, restar un minuto ancora immobile e allo scuro, sarebbe stato lo stesso che morire.
Balzai dal letto, accesi il lume, lo accostai a Gina e la fissai... chi sa come, in faccia.
Ella aveva gli occhi spalancati e a sua volta mi affissava, tentando di sorridere... ma piena di spavento.
Non mi perdonerò mai ciò che feci e dissi allora.
La presi per ambo le braccia e le diedi uno scrollo che la fece scivolare dal letto, e stringendole le mani come un forsennato, e quasi mordendole le labbra colle mie, urlai:
— Tu non mi hai detto tutto! Egli ti....
La sventurata si lasciò cadere in ginocchio, e liberate le mani ch’io, quasi fuor dei sensi, le abbandonai, le congiunse come si fa davanti all’altare.
— «Ti ho detto tutto, mi disse; lo giuro sulla testa di quei due poveri innocenti; tutto, tutto, tutto!» E diede in uno scoppio di pianto, mentre mi stringeva e mi baciava e ribaciava le ginocchia.
Piangemmo insieme abbracciati non so per quanto tempo; quando ripresi conoscenza di me stesso, la notte era ancora alta e la Gina stava rattizzando i carboni sul focolare.
Me le accostai mormorando:
— Perdonami.
— Taci, rispose Gina, questa volta sorridendo davvero. Ci vogliamo tanto bene. Ma vien qua, il mio uomo, e riscaldati che sei tutto intirizzito. Datti pace, va, che il diavolo non è brutto come si dipinge. Quel briccone sa che siamo andati da Don Luigi; ciò lo farà pensare due volte prima di....
— No, no, la interruppi io; ho preso la mia decisione; sai che le poche terre che abbiamo mi sono state a parecchie riprese cercate da Gervasio, il ricco mandriano; le posso vendere domani; se voglio, e a patti d’oro. Senti, Gina, le rondini abbandonano il nido dove furono una volta minacciate; noi faremo come le rondini; andremo altrove a fabbricarci un nido nuovo; in questo non si potrebbe più vivere in pace.
— Quello che tu farai, buon Beppe, sarà ben fatto; benchè la sia dura il lasciar il paese dove si è nati.
— Il paese è dappertutto dove si può vivere sicuri, lavorando. Andremo in un sito più bello di questo.
Così conversando del nuovo progetto, stretti l’uno all’altro, accanto al fuoco, fummo sorpresi dai primi bagliori dell’alba.
Io era così ansioso di mettere modo alle cose per mandare ad effetto il più presto il mio disegno, che, fosse anche un presentimento, la terra mi abbruciava i piedi. Sicchè senza aspettare che i vecchi si risvegliassero, per dar loro il buon giorno, siccome ero solito fare fin dall’infanzia, presi il cappello e i miei ferri e mi avviai verso i pascoli di Gervasio, dopo aver raccomandato a Gina di non porre piede fuori dell’uscio, promettendole poi che sarei stato di ritorno al più presto.
Non trovai Gervasio ai pascoli, che come ben sai Baccio, distano da qui una buon’ora di Cammino; egli era partito quella notte stessa per la sua casera di San Sulpizio; cinque leghe di strada, e che strada! Titubai alquanto se dovessi raggiungerlo, o rimandar la cosa al suo ritorno. Ma quando sarebbe tornato? i pastori non ne sapevano niente; poteva fermarsi alla casera un giorno, poteva fermarsi quindici. Decisi di spingermi fino a San Sulpizio. Mi fornii di due bei tozzi di cacio e di polenta, e via pei greppi e le pinete, certo che camminando a dovere avrei potuto essere di ritorno a casa per il cadere del giorno.
Ma, — ve l’ho già detto prima: — Era scritto ciò che era scritto!
Ti ricordi, Baccio mio, quella crocetta che sta a due passi dalla colma dei Tre Ladri? Fu là che mi prese l’uragano. Un uragano come, in vita mia, non ne avevo mai visto. To’! il cielo pareva disceso sulla terra, e i cocuzzoli delle montagne pareva che si arrampicassero in cielo. Si cozzavano insieme i ghiacciuoli delle nubi e i ciottoli delle frane; la vallata era scomparsa, le cime non le vedevo più; mi pareva di sentirmi schiaffeggiare e bastonare da centomila demoni!... — mi mancava il respiro... — ero come una pulce fra due unghie... to’.
Mi girava la testa, ma, questa volta, diversamente di prima, vo’ dire di quando la mi girava nel mio letto, allo scuro. Mi sentivo mancar il fiato: era la tormenta! E turbinava, oh! come turbinava! Mi credetti morto, e lo ero quasi, e mi distesi in terra, colle mani in croce, dicendo il De profundis e pensando intanto alla mia Gina, ai miei vecchi, ai miei piccini... e al... e anche al Sindaco!
Restai lì parecchi minuti in tal modo, aspettando l’ultimo momento.
D’improvviso mi sentii battere sulle spalle da una mano vigorosa.
Apro gli occhi già quasi irrigiditi dal gelo, e mi vedo davanti, indovina?... il figlio maggiore del signor De Emma, che, superata la bufera passava appunto di lì, colla sua muta, inseguendo il camoscio.
Mi sollevò, mi pose alle labbra la fiaschetta del rhum, e in men che non si dica, mi ritrovai il Beppe di prima, vispo e sano di corpo e pronto a far non cinque ma venti leghe... quanto al resto... Il resto era di ritornare a casa, e al più presto possibile.
— Grazie, dissi al bel giovanotto; ella è proprio il figlio di suo padre, il figlio della Provvidenza! Oh! fa tardi, se si ritornasse laggiù? Mi aspettano, sa? e se ella vuol far tappa nel tugurio della mia Gina, — è un’amica del di lei babbo, la dev’essere una festa davvero!
Il signor Arturo, — Baccio tu lo conosci, — aggradì l’offerta.
Ci incamminammo, aggrappandoci alla meglio per gli scogli irti di sterpi. Ma la via del ritorno par sempre buona. Almeno sembrava tale allora per me.
Beppe parlava come un oratore che non sa, o meglio non vuol venire alla perorazione.
Bevette un bicchier di vino offertogli da Baccio e, asciugatasi di nuovo quella fronte piena di passato e di avvenire, continuò ma con una inflessione di voce e con un atteggiamento che accennavano alla catastrofe:
— Sissignori. E rividi, che non mi parea vero, la cima del mio campanile, e poi i fumaioli dei vicini, e finalmente infilai il viottolo che mena alla mia casa.
Per quanto fosse stata posta la strada fra le gambe, la notte ci aveva precorsi.
A cinquanta passi dalla mia ortaglia chi mi vedo venir incontro?
È mio padre, il mio padre ottuagenario, che non aveva fatto, a mia memoria, più che non faccia di cammino un bimbo appena uscito di fascie.
E mi dice, spalancando le braccia:
— Se Dio vuole! Sei qui! Che spavento? E la tua Gina?
— Che! risponde, la Gina?
— Dov’è?
— Se non lo sai tu!!
— Ma come?
— Non l’hai tu mandata a chiamare perchè ti raggiungesse al campo della Crocetta?
— Io?
— Venne un ragazzotto a dirle che ti raggiungesse colà!... per una cosa d’urgenza...
— Io vengo... vengo... da tutt’altro sito... non ho mandato nessuno...!...
— Che birbonata è questa? sclamò il povero vecchio guardando in faccia a tutti quanti.
— Una birbonata, urlai, e, senza aggiungere una sola parola, mi slanciai a tutta corsa verso il campo della Crocetta.
Non mi ricordavo più della strada; non so in quante siepi mi insanguinai le dita in quante pozzanghere mi ingolfai. Udivo da lontano i gemiti che uscivano dalla mia casa.
Ma un gemito più vicino, più straziante, un gemito simile a quello di chi sta per morire, mi arrestò di repente; come se avessi dato del capo in un muro.
Oh! quel gemito!.... mi ricordava quelli della notte scorsa! Era lei, era Gina! La trovai, la rinvenni, non so come, nelle tenebre, tra gli sterpi, distesa per terra....
— Gina!
— Lasciatemi morire!
— Sono io, sono Beppe! il tuo Beppe!
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Mi parve che udendo il mio nome, si addormentasse.
La presi sulle spalle e lento lento, mentre il cuore e la testa non sapeva più dove fossero, raggiunsi, la mercè di Dio, la mia soglia.
La adagiai sul letto, livido, estenuata.
Il vicinato era accorso.
Il signor Arturo era scomparso. Poverino, si prese in corpo sei leghe, e a quell’ora, per andare in cerca di suo padre.
Allontanai tutti quanti.
Gina, dopo un lungo sopore, aperse gli occhi e mi vide.
Rabbrividii a quello sguardo. Ella rabbrividì più di me. E con una voce che sembrava venire da sotterra:
— Non guardarmi, sospirò, non toccarmi! Chiudi la porta!... È là... il sindaco!.... è là... porta in quel bel paese, in quel paese più bello, i nostri bambini!... Portali via, senza farmeli vedere!... oh! povera, povera me!
— Gina, dicevo io, Gina... dimmi, spiegati...
— Taci... taci... e si metteva un dito sulla bocca e alzava gli occhi al cielo.— Taci. Ho resistito, oh! se gli ho graffiato la faccia...
Ella cacciò allora la testa sotto il guanciale, ed io restai solo col lucignolo agonizzante...