< Memorie del presbiterio
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XV XVII

XVI.


Una scampanellata che venia dalla camera di Don Luigi interruppe il racconto terribile del povero vedovo.

— Dio mio, sclamò, come destandosi a sua volta da un sogno, ho parlato troppo forte, l’ho risvegliato.

Baccio, che in meno d’un baleno era salito e ridisceso, mi appoggiò la bocca all’orecchio e mi disse:

— Don Luigi ha bisogno di voi..

Scoccavano appunto le undici ore.

Salii d’un balzo.

Certo le pareti del presbiterio non somigliavano alle mura massiccie e pendenti dei nostri bisavoli; giacchè dal viso alquanto sconvolto del curato e dalle pieghe sconnesse delle sue coltri m’accorsi, — e non presi un granchio, — che dal suo primo piano, egli aveva udito in parte se non in tutto la conversazione della cucina.

Don Luigi mi stese la mano e mi disse:

— Voi che mi parlavate di Tebaide, e mi dicevate— oh! le ricordo le vostre parole, — Tebaide, dove son vive ancora le memorie bibliche, e gli uomini santi le respirano ancora, e le ripetono con sapienza antica... — Vedetela la Tebaide, vedetela la sapienza! Ditemi come è vero che le apparenze ingannano! Credevate di arrestare il vostro passo di nomade in un eremo e siete entrato in una bolgia.... Non importa! Le vie della Provvidenza sono infinite. Forse è Lei che vi ha inviato. Ciò che sapeste per l’angosciosa espansione di quel povero Beppe, è il primo filo di tutta una lugubre istoria che oramai sarebbe impossibile tenervi nascosta. Ma di ciò a suo tempo. Ora siete mio ospite, e sapete ciò che vi dissi ieri in giardino. Temete le barricate; ciò che in volgare significa: non partirete senza il mio permesso. Ora si tratta di non lasciare solo quell’infelice. Egli ha nell’anima la vendetta; giacchè, voi lo indovinate senza che io ve lo dica... Quella povera Gina!...

Egli s’interruppe con un gesto d’orrore che mi si apprese al cuore.

— E quell’uomo vive ancora? sclamai coll’impeto dei miei vent’anni.

— Sì, e deve vivere, e saprete il perchè deve vivere, — a meno che non scavalchiate le mie barricate. Ma per ora, si tratta d’altro; ho bisogno di un servizio da voi. Non potrei riposare se sapessi Beppe libero di sè stesso questa notte.

Il curato, così parlando, aveva dato un nuovo scrollo al cordone del campanello.

Baccio comparve.

— Non lascierai partire Bebbe stasera. Preparagli la camera degli scalpellini; ai marmocchi ci pensi Mansueta. Questo signore ti aiuterà a persuaderlo.

Baccio, colla intuizione dei montanari, capì, approvò, inchinossi ed uscì, facendomi un cenno di supplica.

— Per domani, aggiunse il curato, ci penserà un altro amico.

Gli diedi la buona notte e ridiscesi in cucina.

Non ci fu d’uopo di molta fatica per persuadere lo sciagurato Beppe ad accogliere l’ospitalità del presbiterio. Come vide i suoi bambini andarsene a coricare sotto le ali tarpate della Mansueta, egli si lasciò condurre come un agnello, da Baccio, alla stanza degli scalpellini.

La foga con cui aveva narrata la sua tragedia lo aveva estenuato.

Dissi a Baccio che ritornava dall’averlo coricato:

— Eh! dimmi! che cosa significano quei lumi laggiù, verso la casa del sindaco?

Baccio uscì nell’orto e dopo un istante ricomparve sogghignando e mi disse, facendomi lume su per la scaletta:

— Sono i coloni del signor De Boni che portano a casa Bazzetta, ubbriaco fradicio.

E con questo bel corollario di quella bella giornata, mi diede la buona notte.


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