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XX.
Seguirono dei giorni queti quanto i primi erano stati tempestosi. La vita è piena di tali contrasti «inverosimili».
Pareva che tutta quella burrasca si fosse scatenata apposta per farmi sentir meglio la pace profonda del Presbiterio.
Dopo una settimana io mi chiedeva se, per caso, tutto quell’imbroglio, non fosse un sogno: non aveva più incontrato nè il sindaco, nè il Bazzetta.
Non vedevo che i miei ospiti. Sempre gli stessi volti, sempre le stesse cose, alle stesse ore. In quella dolce uniformità di abitudini nessun altro avvenimento che qualche nuovo piatto, qualche torta di pomi, qualche nuovo guazzetto di Mansueta.
Faceva la mattina di buon’ora grandi passeggiate pei monti, m’inerpicavo sulle vette circostanti, mi ficcava in tutti i burroni, in tutte le macchie; felice se riuscivo a scovarne qualche immagine, schiva dei sentieri troppo battuti, o qualche rima discreta.
Avevo anche ripreso i miei studi di pittura. Nel pomeriggio, appena scemava un po’ il caldo, — scendevo colla mia cassetta alla cascata dove avevo trovato un motivo eccellente d’alberi e di rupi.
Qualche volta il curato veniva a raggiungermi, a vedere «se il dipinto andava innanzi» — ma veramente la sua presenza non giovava punto a mandarlo innanzi, — perchè quando arrivava lui si cominciava fra una pennellata e l’altra a discorrere, — ed erano più i discorsi delle pennellate. Il lavoro era un comodo pretesto di star là seduti fino a che il sole scendeva giù in Valsesia.
In casa mi dava soggezione la presenza di don Sebastiano, il vice-curato, — il quale, secondo l’usanza, partecipava sempre alla mensa del presbiterio. Egli non mostrava troppa simpatia per don Luigi; e il torto era tutto del suo carattere arcigno, del suo spirito gretto e farisaico. Quel testimonio freddo, impassibile, insensibile pareva fatto apposta per impedire le cordiali confidenze.
Nella solitudine della cascata, i nostri discorsi erano molto più intimi.
Si parlava di molte cose, ma più soventi di filosofia, di arte, di letteratura; egli non aveva ipocrisie, non si adontava s’anche cadeva nella conversazione il nome di un autore o di un libro messi all’indice dalla Romana Congregazione.
Confesso che soventi ce li facevo cadere io apposta, e, per quella curiosità che v’ho detto, lo guardavo di sottecchi per sorprendere sul suo viso gl’intimi sentimenti del cuore.
Nella letteratura moderna egli s’era fermato a Byron e a Chateaubriand, e del primo non aveva letto che il Child-Harold. Gli parlai del Don Giovanni. Poi, man mano gli feci gustare gli scritti piccanti degli autori più recenti: di Victor-Hugo, di Theophile Gauthier, di Heine, di cui avevo piena la mente.
Se gli domandavo le sue impressioni, — mi rispondeva schietto, anzi qualche volta preveniva egli stesso la mia domanda.
Mi faceva ripetere volentieri i miei poveri versi, — ed io sceglievo di preferenza i più bizzarri e i più sconclusionati. Li ascoltava con attenzione, senza far le smorfie e si contentava alla fine di dire: — che originale che siete!
Sopratutto si compiaceva di sentirmi a raccontare dei miei viaggi. Io ho cominciato di buon’ora a girellar per il mondo a mio talento: a quel tempo conoscevo tutti i valichi delle nostre Alpi, ero stato in Bretagna, in Normandia; avevo dimorato a Parigi; e conosciuto colà quella generazione, per cui Victor Hugo ha scritto Les Misérables, un’epopea, e Baudelaire Les fleurs du mal, un’imprecazione, cesellata nel diamante — avida delle alte cose che le sfuggono, sdegnosa delle basse che l’assaltano, generazione crucciosa che prova il rimorso prima del peccato, per cui il piacere è un cilicio che gli dilania il petto: — avevo posato l’orecchio su quel grande cuore dell’umanità e ci avevo sentito con una gioia spaventosa gli stessi battiti morbosi del mio; le stesse soffocazioni d’ideali, le stesse febbrili concitazioni d’istinti. Io gli descrivevo il grande malanno, di tutti noi venuti al mondo nello strettoio di un grande peccato e di un grande ignoto; glielo descrivevo col linguaggio crudele del notomista e del clinico che è la sola e la dolorosa conquista della nostra filosofia, linguaggio che incide ed uccide....
Quell’anima buona pendeva dalle mie labbra.... una avidità ingenua, insaziabile lampeggiava nei suoi sguardi scintillanti, — l’avidità di Adamo per le tentazioni della scienza del male.
Poi, quand’io avevo finito, scoteva la sua nobile testa come chi rinviene da un fascino opprimente, e diceva sospirando:
— Ah! la vostra vita non è soltanto oziosa contemplazione, — ma è la lotta, — ed è anche la vittoria, poichè, dopo aver così giovane affrontati tanti pericoli, n’uscite buono e credente.
Ero buono e credente davvero?
Egli mostrava di crederlo: nè io lo contraddicevo.
Forse lo era, — benchè non secondo i dettami della sua religione.
Appartenevo fin d’allora alla schiera di coloro che negano assetati di fede, che portano il dubbio come una croce in cerca di qualche nuovo Calvario.
A sentire i discorsi che noi pronunziavamo a voce bassa salendo al lume del crepuscolo sotto i grossi noci che costeggiano il torrente, si sarebbe detto che il più vecchio ero io.
Egli era nato prima, e forse aveva vissuto meno: interrogava la mia esperienza! mostruoso paradosso di un’epoca in cui i venti anni hanno qualcosa da insegnare ai sessanta!
Però quel candore che con tanta sollecitudine si faceva incontro alle mie tristi rivelazioni doveva celare un mistero. E mi ero proposto di scoprirlo.
Il buon prete intendeva forse per la prima volta discorsi strani come quelli che io gli tenevo. — Dalla adolescenza alla vecchiaia egli aveva trascorso gran parte del viver suo in un mondo primitivo. — Ma, chissà, la passione doveva aver picchiato alla porta del suo eremo, — essa conosce i sentieri delle tebaidi. Non sempre quando lo spirito è invitto, il cuore è inespugnabile e nell’assalto alla coscienza, il dubbio è il più codardo; egli retrocede quando le tentazioni accorrono all’assalto; ma queste hanno sempre degli alleati nella cittadella: — gli istinti. Molti santi vittoriosi di Leviathan hanno piegato innanzi ad Artadoth, il demone della voluttà.
La passione aveva picchiato alla porta del suo eremo, — il santo era forse riuscito a respingerla, ma non senza fatica, — lo mostrava quella curiosità ch’io aveva potuto ravvivare disotto alla cenere degli anni, il temperamento sanguigno del prete.... una segreta cura che gli leggevo nel viso.... Ma dopo tutto che gusto era il mio di investigare l’umile, il comunissimo romanzo di un povero prete? Non so, — non già per irriverenza malevola, — per un vivo capriccio di artista, di psicologo, null’altro. Del resto il mio rispetto per lui non poteva scemare per la conoscenza di qualche umana debolezza.
Tuttavia, tanta è la forza delle massime convenzionali avute dall’educazione, che qualche volta arrossivo di questa mia innocente curiosità. Me ne vergognavo come di una profanazione.
Don Luigi nell’esercizio del suo ministero me ne imponeva. Sapeva congiungere alla dignità del sacerdozio una grande semplicità di cuore.
Una volta, nel pomeriggio della seconda domenica dopo il mio arrivo a Sulzena, ero passato innanzi alla porticina del coro mentre egli faceva la dottrina ai ragazzi: mi fermai ad ascoltarlo: la sua voce delicata, armoniosa arrivava a me congiunta alla soave fragranza del tempio e le somigliava: egli alternava alla recitazione dei dogmi l’insegnamento di una sua morale spontanea, indulgente, amorevole. Egli era sicuro del suo Dio e delle promesse che faceva in suo nome.
Nelle sublimi puerilità del rito, nelle premure quasi femminili per il suo altare, era poeta ed artista e però anche fanciullo. Sceglieva le rose egli stesso per riempiere i suoi vasi, ne disponeva in leggiadra guisa i colori, vi faceva piovere su dalle terse vetrate della cupola un raggio di effetto sapiente, una luce tranquilla che ispirasse un dolce e gradevole raccoglimento.
Ed era poi tanto umano e tanto sollecito dei suoi parrocchiani; egli prendeva sul serio la sua cura d’anime: dove si soffriva non mancava mai nè il suo soccorso nè la sua consolazione. Certe mattine all’alba mentre uscivo per le mie corse montanine lo incontravo che rientrava: aveva passata la notte al capezzale di un infermo; era stanco, afflitto ma non abbattuto: mi dava il buon dì con un sorriso ed entrava in chiesa ad offrire davanti al suo tabernacolo i voti della povera creatura di cui aveva nella veglia penosa assistito i patimenti.
In quei momenti sentivo tutta la sua superiorità, tanto più grande quanto più inconscia.
Quando don Luigi veniva alla Cascata, era un amico, un ingenuo compagno che conosceva molto meno di me le cose e le vie del mondo.
Una cosa mi meravigliava: Don Luigi non parlava mai di sè.
Se, discorrendo, mi appellavo alla sua esperienza e gli dicevo: «voi sapete questo e quest’altro» non diceva nè sì nè no; qualche volta impensieriva come se una subitanea rimembranza lo assalisse. E la tristezza, ogni giorno crescendo, gli oscurava lo sguardo.
Un giorno, mentre all’ora consueta, noi due eravamo alla Cascata, capitò il dottore De Emma. Era stato a casa, non ci aveva trovati ed era venuto a raggiungerci. Sedette sotto i noci e fe’ da terzo nella nostra solita conversazione.
Il discorso cadde sul Renato di Chateaubriand, lugubre protesta del dubbio uscita dall’anima di un credente.
— Strano enigma! sclamò il curato.
— Enigma sì, io dissi, e mostruoso, ma punto strano.
— Come? domandò Don Luigi.
— Queste buie disfatte della ragione e della coscienza sono frequenti nella vita.
— Il pittore ha ragione, disse il signor De Emma; le passioni buone o cattive sono lievito originale della nostra natura. Dopo una lunga incubazione erompono come il vaiolo, irresistibili, spesso micidiali, talvolta provvidamente salutari.
Don Luigi parve colpito da queste parole, diè una strana occhiata al dottore e domandò:
— Credete?
— Si, colla differenza che il vaiolo si può prevenirlo col vaccino, mentre per quell’altro male.....
— Non vi sono preservativi? ed aggiunse dimessamente: ma e la virtù e il dovere, e....
— Sono freni, — resistono, ma si spezzano. Ci vorrebbe uno sfogo anticipato, una specie di vaccino morale; una cura previdente di affetti che stornassero in tempo le forze germinanti del male. Ma quale? come indovinarle prima di conoscere il male? Difficilmente si può e si sa fare. Spesso le condizioni, le ripugnanze sociali vi si oppongono. E il più delle volte è impossibile lo scandagliare in fondo alle indoli talvolta diversissime nella sostanza dalle loro superficiali apparenze: ne ho viste talune disformarsi nella crisi subitamente, rivelare tendenze di cui non si sarebbe mai sospettato l’esistenza. E ne ho viste dell’altre trasfigurarsi; e giusto non dimenticherò mai uno stranissimo fatto accaduto a Sorese in Brianza dove la mia famiglia possedeva molti anni sono vasti poderi ed io mi recavo con essa a passare i mesi delle vacanze. Una delle bellezze o rarità, come dicono i ciceroni, di quel villaggio era Tonio, un povero cretino di dieciotto anni, sciancato, losco, peloso, due terzi meno che scimmia, un terzo meno che uomo, serio come un gendarme, ingenuo come una pulzellona, orfano, nudrito, o quasi, a spese del Comune, errante a saltelloni su e giù per le strade, sdraiato in gennaio nella neve, accocolato di pien meriggio sotto il sollione di luglio, creatura incapace ed inoffensiva che rispondeva con un sorriso ed un mugolio a chi gli gettava il soldo o il tozzo di pane.
Ora, era avvenuto cotesto, che, trovandosi fornita per bene la cassetta delle elemosine, il dabbene parroco dì quel villaggio, aveva deciso, previo consenso degli onorevoli fabbricieri, di commettere a un pittore di città, una nuova Madonna, ad olio, s’intende, e di grandezza naturale, da collocare al posto di quella vecchia e sdruscita che faceva torto all’altar maggiore, e, a detta di chi se ne intendeva di arti belle «era ormai una Madonna che non valeva più un fico».
Quale solennità non fu quella dello insediamento della nuova Madonna!
Ad ogni svolto di via, archi trionfali costrutti di paglia intrecciata e di mortella, festoni dall’una all’altra grondaia, tappeti, lenzuola, coperte da letto ad ogni finestra; altarini posticci, irti di moccoli smilzi smilzi e di imagini di santi ancora più smilzi; baracche di merciaiuoli, chicche, aranci, castagne, — per le circostanti praterie assiti e panche e tende d’ogni colore e d’ogni foggia con vendita di vino e di birra; e ciarlatani e spacciatori di zolfanelli e cantatori di bosinate, a suon di pifferi e di chitarre; — e forestieri a bizzeffe, e di quelli, veh! venuti le cento leghe da lontano; e il cortile dell’albergo pieno zeppo di carri e carrette e carrozze, — e fior di signori e signore dagli abiti di panno chiaro e dagli ombrellini di seta e, — ad ogni quarto d’ora,— una salva di mortaretti che faceva traballar tutto e tutti dall’un capo all’altro della borgata.
Io vedo tuttociò come se mi fosse ancora presente davanti agli occhi; mi sento ancora pigiato da quella folla variopinta in cui si faceva largo di tratto in tratto, coll’autorità dell’abito e forse più con quella dei gomiti, qualche pievano in ritardo, già prelibante la lauta imbandizione del parroco; in cui si incrociavano in altrettanti saluti, congratulazioni, appuntamenti per la cena e pel ritorno, tutti i minuscoli dialetti della Brianza, da quelli asmatici di oltre Adda, e i secchi e spiccati del piano d’Erba, fino ai cadenzati e grassotti che cominciano verso la Camerlata e si spandono, con poche varianti, su tutto il territorio di Varese, per dar posto ad una lingua, quasi nuova di zecca, sulla sponda sinistra del Verbano.
Tutta quella moltitudine era diventata d’un tratto immobile, tutto quel cicalio era cessato come per incanto, a un nuovo e più formidabile sparo di mortaretti e allo scoppio di una allegra fanfara che annunciava l’arrivo della processione e quello della nuova Madonna con essa.
Come la cattolica Dea passava davanti a me ed io contemplava curiosamente quella figura dipinta dal pittore di città, colla balda ingenuità di un Ottentotto, una mano sulle spalle mi scrollava e una voce ben nota mi distoglieva dal quadro. Era mio padre, che abbassandomisi all’orecchio e additando il centro del corteo mi diceva:
— Guarda la faccia di Tonio!
E infatti, Tonio era trasfigurato. Armeggiandosi tra la folla con una destrezza che nessuno gli aveva mai riconosciuto fino a quel giorno, gli occhi dilatati, intenti, assorti nella faccia della Madonna, egli andava avanti colla processione come se non toccasse coi piedi la terra, come se un nuovo spirito di vita agitasse il meccanismo del suo carcame, e l’idea, per la prima volta, avesse susurrato chi sa quali arcane sillabe all’animo suo. Le labbra del cretino erano agitate da un tremito convulso; pareva che dietro di esse una parola bussasse disperatamente perchè le venisse aperto!...
Io ricordo quella faccia, così che potrei, dopo tant’anni, riprodurla, se fossi pittore, colla fedeltà della fotografia.
La moltitudine, tutta assorta nella imponenza dello spettacolo, non aveva badato alla trasformazione del povero scemo, e forse nemmeno la sua profana presenza in mezzo a quel lusso di stole, di cappe magne, di tricorni, di fiaccole e di stendardi incedenti nella mistica nube dell’incenso e al suono cadenzato delle liturgie.
Ma il segrestano, una vecchia volpe bigotta, quando il meraviglioso quadro ebbe passata la soglia della chiesa parrocchiale, vi si piantò diritto davanti coll’asta dell’elemosina adagiata orizzontalmente sull’epa, e, a nome delle autorità civili ed ecclesiastiche, intimò a tutto quel formicaio di popolo che non si facesse un passo più in là; nel tempio non c’era posto che per gli invitati; se volevano veder la madonna a suo luogo, venissero l’indomani; ordine esplicito delle autorità costituite, imbandito da quell’onorevole funzionario, or colle buone or colle brutte, a seconda del caso.
Ma Tonio voleva seguire la Madonna; implorava collo sguardo e coi gesti e colle labbra balbuzienti chi sa quale parole di supplica disperata. Il segrestano lo mandò a rotoli con un ceffone, tra le risate del publico.
Venuta la sera, tornati alle loro case tutti quei più o meno devoti visitatori, ridivenuto deserto e tranquillo il villaggio, coricatosi il curato contento e ben pasciuto, il segrestano aveva dato di chiavistello a tutte le porte e porticine della chiesa, ne aveva visitati tutti gli angoli, ed era a sua volta andato a dormire ben pasciuto e contento.
Quale fu la sua meraviglia quando il mattino seguente, accendendo le candele per la prima messa, inciampò in un corpo disteso per terra, ai piedi della Madonna nuova, e riconobbe Tonio e constatò che era morto!
Alla notizia del caso, divulgatasi nel paese in un batter d’occhio, una vecchia aveva giurato sull’anima sua di aver udito uscir dalle labbra del povero scemo, mentre egli seguiva in quel tal modo la processione — queste parole indirizzate alla Madonna:
«Ti voglio... bene!»
Sarebbero state le sue prime ed ultime parole...
Don Luigi non si mostrò scandolezzato del racconto.
Il dottore continuò:
— Chi poteva prevedere le precauzioni di tenerezza che occorrevano a Tonio? e se si fossero potute prevedere? — chi avrebbe voluto accordargliele? Intanto la prima immagine di donna che, per esser dipinta, non stornò da lui, con ribrezzo, gli sguardi lo uccise.
— Ora facciamo, dissi con nuovo coraggio, facciamo il caso opposto.
— Sicuro, riprese il dottore, supponiamo un carattere nobile, elevato, un uomo superiore. Ebbene, può darsi che egli abbia un’intima inclinazione a delle sregolatezze strane. Ciò succede spesso: Rousseau ha detto che egli sentiva in sè, allo stato potenziale tutti gli istinti del più scellerato malfattore: moltissimi uomini, e dei migliori, potrebbero farvi la medesima confessione. Questi istinti non si avvertono che quando una causa morbosa sopravviene a suscitarli, cioè quando è troppo tardi per correggerli. Torniamo al nostro esempio, facciamo le migliori ipotesi, ammettiamo che quell’uomo superiore preveda il pericolo— ma sarà egli in caso di scansarlo? le funzioni, le convenienze, gli obblighi del suo stato, un insuperabile pudore gli lascieranno la libertà di scegliere i rimedi e di usarne in tempo? Qui sta il punto.
Il dottore s’interruppe; e mi parve di leggere nei suoi sguardi il rincrescimento di aver detto troppo.
Cambiò discorso: parlò di Beppe.
Il povero uomo, a quanto gli scrivevano, aveva mostrata una grande docilicità, ma era tutt’altro che rassegnato. Si manteneva cupo, chiuso nella sua pena come al primo giorno: adempiva il còmpito della sua nuova condizione, ma con un fare distratto, collo stupore di chi non vi si è ancora dimesticato. Gli avevano proposto di fargli venire i figlioli, — egli ricusava sempre dicendo che sarebbe andato lui a cercarli.
— «Quando sarò tranquillo» aggiungeva.
Aspettavano dunque che egli fosse tranquillo.
Ma quel giorno non pareva vicino.
— Lo stato di quell’uomo m’inquieta, disse il curato, siete sicuro che i vostri parenti riescano a trattenerlo?
— Lo spero, rispose il dottore. L’ho tanto loro raccomandato che faranno tutto il possibile.
— E pensare, soggiunse, che noi ci diamo tante brighe per la sicurezza di quel cialtrone del De Boni. È vero che non si tratta solo di lui: se mai, una lezione gli starebbe bene.
— Dio non voglia, sclamò don Luigi un po’ sgomento.
— Non ha forse permesso il peccato? Però quel disgraziato di Beppe potrebbe perdersi: e, v’assicuro che questo sarebbe il solo mio rincrescimento.
Noi eravamo frattanto tornati in paese e passavamo giusto in quella davanti alla casa del mandriano. Sulla unica finestra del piano superiore notai gli steli disseccati di un garofano che penzolavano dall’orlo di una terrina rotta; — ricordo ed immagine della felicità di un tempo.
Annottava. Non so se fosse per i discorsi del dottore o per la mia naturale tendenza ad attribuire sentimenti e pensieri alle cose inanimate; mi parve di intravvedere nell’aspetto squallido di quella casa abbandonata, chiusa, silenziosa, qualcosa di simile ad una minaccia e involontariamente alzai gli occhi alla casa del sindaco che si disegnava nel fondo sopra un cielo di lucida opale.
Qualche passo più in là il curato ci lasciò per la solita visita che egli soleva fare prima di cena ai malati del villaggio. Salutò il dottore che voleva ad ogni costo tornare a Zugliano ed entrò in una porta dove un vecchierello lo attendeva come il vicario visibile della provvidenza.
Il signor De Emma mi accompagnò fino al Presbiterio, dove aveva lasciato la sua cavalcatura.
Allo sbocco della piazzetta c’imbattemmo in un giovine che scendeva dai monti con una scure in ispalla: il quale, appena ci vide, chinò il capo e accelerò il passo come volesse schivare il nostro incontro.
Il signor De Emma gli diè una voce, e lo costrinse suo malgrado a fermarsi.
Allora, sotto le rustiche spoglie del boscaiuolo, ravvisai con grande sorpresa il mio amico Aminta, che, dal giorno di quel nostro colloquio alla Cascata, non avevo più riveduto.
— Che significa codesta novità? domandò il dottore.
— È il signor Angelo che mi manda ai Roveretti a spaccar legna, rispose con amarezza e chinando gli occhi vergognoso.
— Ma perchè?...
— Mi sono arrischiato a dirgli che avrei preferito un’altra professione a quella ecclesiastica, — egli è saltato su tutte le furie, mi ha strappato la mia veste e mi ha detto che ero un villano, e che villano dovevo essere.
Balbettava, tremando, e pareva fosse sulle spine.
Il dottore non lo trattenne di più. Aminta ci salutò in fretta e s’allontanò di corsa.
Il suo terrore non era senza motivo: s’era appena allontanato che sbucò dalla farmacia la sinistra figura del sindaco, e passandoci innanzi ci diè una breve occhiata di traverso.
Il signor De Emma corrugò la fronte e mormorò: — poveretto, egli fa una dura penitenza! povera Rosilde se la lo vedesse! e non poterlo soccorrere! maledetto sistema di spiritualistiche ipocrisie!
Poi, accortosi ch’io lo guardavo con curiosa ansietà di penetrare le sue parole, tacque e s’avviò a capo chino.
A me rimordeva d’essere la causa di quella nova testina. E mi persuasi come, il più dei casi, i consigli sia ottima cosa tenerli per sè.
Anche in agosto, la sera, in montagna, un buon fuoco è sempre una gradita compagnia.
Intirizzito dalla brezza pungente che s’era levata al cadere del sole, mi recai in cucina.
Mansueta seduta davanti ai tizzoni rimondava delle patate per la minestra e intanto teneva d’occhio la pentola che brontolava in mezzo al camino.
Ella non mostrava la sollecitudine dell’altre volte; una delle sue bravure era quella di levare la peluria tutta intera e di farla cadere a terra a spire come la scoria di un serpentello: ma quella sera la rompeva ad ogni momento e i pezzetti saltavano nel piattello, — s’interrompeva spesso e si poneva la mano sugli occhi come per tergere qualcosa che le facesse velo alla vista.
Finalmente in uno di questi intervalli la pentola levato il bollore traboccò sulle brace che crepitarono e stridettero annerandosi quasi dalla vergogna dell’inaudita trascuranza di Mansueta. La buona vecchia non resse a tanta mortificazione: l’afflizione che l’accorava irruppe.
Mi contò piangendo che aveva visto il nipote.
— Povero ragazzo, mi si spezza il cuore vederlo così maltrattato, lui tanto buono e sommesso!
Mi provai di consolarla: le dissi che Aminta sarebbe presto liberato di quella schiavitù di cani. — E volevo accennare alla sua età e al coraggio che con essa avrebbe acquistato.
La buona donna mi fraintese, e oltrepassando il significato delle mie parole mi disse con rustica franchezza:
— Liberato, oh sì ci vorrà ben altro! Quell’orso ha il cuoio duro: è tomo da campar cent’anni.
— Oh, soggiunsi ridendo dell’equivoco, oh! se appena gliene capita il destro, colui ci facesse la grazia di accopparsi.... l’occasione sarebbe sempre ottima per tutti di perderlo.... Ma in ogni caso vostro nipote non dovrà mica aspettare quel giorno per scuotere il giogo. — E giusto io avrei certi progetti in cui voglio sentire il parere di Don Luigi.
— No, saltò su a dire la donna, no, la non gliene parli per carità, egli non può senz’accorarsi sentirne a parlare; gli vuol tanto bene che il solo pensiero delle sue sofferenze lo fa piangere. In questi giorni è già sempre tanto tristo che non ha bisogno di nuovi dispiaceri. La non gli dica nulla; ci penseremo poi al povero Aminta; ora, poichè la Madonna ce l’ha mandato, faccia di tener allegro il mio padrone, di distrarlo.
La buona fantesca nella sua idolatria pel padrone sapeva far tacere anche la voce della sua tenerezza quasi materna per Aminta, l’unica creatura della sua famiglia che le restasse al mondo.
Quando intesimo il passo del curato, ella si scosse, si assicurò di aver gli occhi ben asciutti, prese il suo solito fare lesto e volonteroso e per tutta quella sera io contemplai con ammirazione que’ suoi occhi affaticati e quel suo volto scarno sorridere mentre avrebbe pianto tanto volentieri.
Non scorderò mai quelle sue rughe venerande, in cui non dirò come il secentista, che vi s’appiattassero gli amori, ma traspariva tanta e così limpida devozione, una bontà schietta, animosa!...
E anche Don Luigi, benchè avesse tanti motivi di tristezza, più assai e più gravi di quel ch’io potessi allora immaginarmi, si faceva una gran forza e conversava e mi parlava di me, delle cose mie dimenticando, nella premura di intrattenermi piacevolmente, sè stesso e le sue pene: tutto ciò senza sforzo per una volontaria e spontanea delicatezza.
Invece io, il solo senza fastidi (allora non ne avevo), io spensierato, pareva il più cruccioso di tutti. Ammiravo come ho sempre ammirato senza poterlo imitare, quell’eroismo umile di tutte le ore che piglia la vita come vien viene, come una battaglia e la combatte valorosamente ad oltranza.