< Memorie del presbiterio
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XX XXII

XXI.


L’indomani Don Luigi uscì subito dopo il desinare, — e più tardi lo aspettai invano al solito ritrovo. Non mi sentivo di vena a lavorare; dopo aver buttate giù, a lunghi intervalli delle pennellate a casaccio di quelle che non persuadono la coscienza, presi una risoluzione, raccolsi i miei barattoli e me ne tornai difilato a casa.

Don Luigi non era rientrato.

Baccio mi disse misteriosamente:

— Il sor curato è salito alla Carbonaia, ciò vuol dire che tornerà di buon umore. — Non c’è stato da quasi un mese; quella passeggiata gli fa sempre un gran bene.

Il sagrestano si fregava le mani soddisfatto e intieramente sicuro dell’efficacia del rimedio.

Compresi dalle sue parole che si trattava del terreno prediletto, causa delle contestazioni del sindaco.

Mi prese ansietà di vedere questo miracoloso rifugio. Mi feci indicare la strada e, sotto pretesto di andare incontro al curato, affrettai il passo per prevenire il suo ritorno.

Il sole era alto ancora e il luogo non era distante che un miglio scarso.

Dopo una mezz’oretta di un sentiero scheggioso e incassato in una gola stretta e boscosa, sbucai sopra un piccolo altipiano, quasi tondo, posto sul culmine di un poggetto, una specie di sperone del monte Grigio, il quale s’innalza brullo nel fondo. Si domina di là il villaggio, e la valle fino a Zugliano.

Era quella la mia meta: la riconobbi subito dalla quercia fronzuta che spiegava maestosa nel mezzo i suoi rami sopra gli avanzi di una casupola bassa abbandonata come se ne vedono tante in montagna, specie di covo umano da cui il bisogno o la morte ha snidato la vita.

Malgrado il suo nome prosaico di Carbonaia il luogo è delizioso: vi cresceva un’erbetta minuta e d’un bel color chiaro chiazzato a lunghe zone di menta fiorita. È remoto ed aperto nel tempo stesso. Lo Strona lo difende da una parte, e un inaccessibile burrone dall’altra: una macchia fitta di castagni cresciuti rigogliosi dalle ceneri degli antichi forni permettono di spiare non visti tutti i sentieri che scendono dal monte e salgono dalla valle.

La dimora che ha servito ai carbonai è deserta da molti anni; la natura ha preso possesso di quella rovina. L’ha coperta di muschi d’edera: ha riempito tutte le fenditure coi capelveneri e colle felci, — tuttavia essa può servire di riparo contro un temporale improvviso.

Come mi aveva detto lo speziale, non era un fondo fruttifero; il godimento quasi del tutto nominale di esso era da tempo immemorabile lasciato alla parrocchia, cioè ai poverelli che nel nome di lei ne ricavavano qualche pugno d’erba l’estate e qualche fardellino di legna l’inverno. Ma il sindaco pretendeva rivendicarlo per antico dritto di proprietà non mai abbandonato che precariamente dal comune, — e coonestava l’animosità col progetto di farvi passare una viottola assai incomoda del resto che dalla strada provinciale, che saliva al di là della Strema, mettesse direttamente senza passar in paese alla frazione di Fontanile, le cui case si vedevano in fondo accovacciate in una piega del monte e non giustificavano davvero colla loro importanza quella singolare premura sindacale.

Inoltrandomi fra le macchie, scoprii don Luigi.

Era seduto dietro la casupola sopra un grosso ceppo di castagno coverto di muschio; teneva la fronte bassa appoggiata al dosso della mano e aveva le guancie rigate di lagrime.

Non si accorse di me.

Ebbi rimorso di averlo spiato.

Per salvare almeno le apparenze, mi rivolsi indietro pian piano e, quando mi fui allontanato convenientemente, mi posi a cantarellare ad alta voce per metterlo sull’avviso della mia presenza.

Egli mi richiamò per nome.

Quando tornai da lui, s’era ricomposto, ma senza ombra di dissimulazione. Mi diè uno sguardo di amichevole confidenza, mi prese la mano e la tenne alcuni minuti nelle sue senza far motto.

— Figliuolo, mi disse poi, ho pensato alle idee ieri manifestate dal dottore.... e, posso errare, ma quello mi pare materialismo nè più, nè meno. — È un argomento che prova troppo.... e nulla. Coll’ammettere l’irresponsabilità delle inclinazioni, si esclude la colpa, e il male; si esclude la pena, la sanzione e il giudice.... È tutto una conseguenza. Quanto a me, dinanzi a questo cielo e a questi luoghi, testimoni di tutti i miei pensieri.... e dei miei errori, — vi assicuro, — del male che ho fatto preferisco sentirmene responsabile e accusarmene, — perchè ciò mi da la speranza di ottenere perdono per me e la consolante certezza che sarà riparato per gli altri. Che ne dite?

Che potevo dire? Il materialismo allora mi dava assai meno fastidio di adesso. Non lo conoscevo che da lontano, e mi seduceva coll’apparenza di una generosa, eroica ribellione contro la più assoluta autorità dell’universo. Pure ammiravo l’ingenua bontà di quell’animo che s’adombrava al pensiero di esser liberato da una obbligazione e protestava contro l’assoluzione offertagli, con una logica che veniva dal sentimento più che dal raziocinio.

Esternai la convinzione che le sue parole non avessero altro movente che una eccessiva austerità di coscienza.

— Il male che avete fatto è un modo di dire, soggiunsi, ma non è di tal natura da rimordervi troppo.... e quanto alla riparazione ella è bella e fatta a quest’ora....

— Zitto, vi prego, — m’interruppe subitamente turbato, — zitto, voi non sapete nulla.

Volevo replicare, ma egli ripetè:

— Non sapete nulla, non sapete nulla.

Poi dopo alcuni minuti di silenzio, con maggior calma e una malinconica intonazione di voce:

— No davvero, figliolo, non posso scroccarvi un giudizio tanto indulgente. La santità di ser Ciappelletto mi ripugna.

La sua modestia era tanto sincera e tanto viva che non ardii combatterla, tacqui.

Don Luigi si alzò, passò il braccio sotto il mio e mi trasse con sè in gran fretta.

Al principio del sentiero si volse, abbracciò con uno sguardo di ineffabile tenerezza quel suo prediletto ricovero.

— È forse l’ultima volta ch’io vengo quassù, mormorò; — oh i decreti di Dio colpiscono giusto....

Cominciammo a scendere la china in silenzio.

Don Luigi era triste, accasciato come non l’avevo mai visto. Mi parve allora assai più vecchio del solito; si appoggiava al mio braccio e camminava a stento.

Appressandosi al villaggio si rinfrancò un poco; ma non tanto che Baccio non s’accorgesse della sua tristezza.

E mi disse con sincera schiettezza:

— Vossignoria è andato a disturbare il curato; ha fatto male, ha fatto male. Egli aveva bisogno di restar solo.

— Perchè? domandai sorridendo a fior di labbra.

— Perchè, quando nessuno l’inquieta, egli trova colà nella solitudine il rimedio di tutti i suoi fastidi.

E mi contò i mirabili effetti di quel luogo sull’animo del curato, ch’io sapevo già dallo speziale.

— Ma cosa ci trova lassù?

— Dicono, rispose esitando il sacrestano e abbassando la voce, dicono che venga un angelo a visitarlo.

— Un angelo, chi l’ha veduto?

— Saranno quasi vent’anni, un giorno tornando dalla Valsesia, scendevo per il Mongrigio. Arrivato a un certo punto dove il sentiero sovrasta al piano della Carbonaia guardo in giù e scorgo qualcosa di bianco fra i castagni: era una figura di donna ravvolta in un velo lungo fino a terra sotto al quale traspariva una veste azzurra. La visione passò lentamente fra gli alberi e scomparve dietro il muro dei carbonai. Non la vidi che un minuto, ma ne fui abbagliato. Splendeva più del cielo!, — andava cauta ma tanto leggiera che non pareva toccasse la terra. Dopo il primo stupore calai giù, passai il ponte dello Strona e, girando intorno alla collina, passai la strada di Sulzena. Allo sbocco del sentiero della Carbonaia incontrai don Luigi. Allora aveva dei dispiaceri ed era triste, afflitto più di adesso. Ma quel dì mi sembrò tutt’altro: mi passò vicino senza vedermi, incantato come uno che viene dal paradiso.

Il paragone di Baccio non mi sembrò punto strano: il suo racconto in cui altri più positivo di me non avrebbe visto che una fiaba grossolana, mi interessava grandemente. Lo ascoltai come la più seria cosa del mondo. Egli era certo in buona fede. Eravamo in sacristia dove don Luigi ci aveva lasciati soli per entrare in chiesa a parare l’altare per la benedizione Il sacrestano mi fece la sua confidenza agitando il turibolo a ravvivarne le brace. Il barlume del crepuscolo cadeva dall’alte e strette finestrello su certi visi pallidi di madonne e di sante; il bisbiglio sommesso dei devoti che entravano in chiesa, certi echi profondi, un acuto profumo d’incenso, — la maestà del luogo disponevano l’animo al meraviglioso.

Un po’ di prodigio cresceva attrattive alla misteriosa figura del curato.


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