< Memorie del presbiterio
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XXIII XXV

XXIV.


Uscito nella via mi fermai per accendere il sigaro: e, senza volerlo, intesi che il sindaco parlava di me chiamandomi «lo scarabocchino».

Non era un’ingiuria tanto atroce ch’io potessi aver diritto di offendermi.

Eppoi non ci tenevo punto alla stima del sindaco: e non ero curioso di sapere ciò che diceva di me.

Mi disponevo ad andarmene, quando mi accorsi che qualcuno mi spiava dalla porta socchiusa della bottega.

Era il signor Bazzetta il quale certamente veniva ad accertarsi se ero già abbastanza lontano da poter sparlare di me.

Non potei trattenermi dal dirgli ad alta voce:

— Oh bravo! Se voleste aver la bontà di farmi un po’ di lume, ve ne sarei obbligato. Io adoro la polizia... urbana, l’unica che manchi a Sulzena.

Comprese la doppia allusione ch’io volli far al suo racconto di poco prima e alla sconvenienza di quell’ultimo atto, perchè rispose:

— Anch’io una volta, — ora non ci penso più. Aspettate vengo colla lucerna.

Uscì poco dopo e volle rimanere a rischiararmi la strada finchè io non ebbi svoltato verso la chiesa.

Mi volsi parecchie volte ed osservai che man mano svaniva sul suo musettino il sorriso di riguardosa premura con cui mi aveva augurato la buona notte.

Don Luigi era arrivato da Novara.

Era tanto soprappensiero quando entrai, che non si mosse.

Aveva fatto l’ultimo tratto di strada a piedi con quella belletta; era stanco, infangato, — ma s’era fisso di aspettarmi.

Indovinai che il buon prete aveva d’uopo di uno sfogo.

Gli parlai di Aminta, supponendo che la separazione da lui fosse il motivo della sua afflizione.

Mi disse che l’aveva lasciato felicissimo della sua nuova condizione.

Poi ad un tratto mi domandò:

— Credete, caro Emilio, che abbiamo fatto il suo bene?

Risposi che non si poteva dubitarne.

— Ebbene, guardate, soggiunse dondolando tristamente il capo più curvo del solito, guardate, c’è chi ne dubita.

— Oh, qualche ignorante.

— No, sono persone savie e prudenti, ma mal prevenute.

Quel giorno a Novara era stato a visitare il Vicario, il quale, come sapesse lo scopo della sua gita, prima quasi che aprisse bocca, gli aveva parlato di Aminta soggiungendo che era costretto di esternargli il suo biasimo per avere stornato quel ragazzo dalla carriera ecclesiastica. Poi, senza lasciargli dire una parola a propria discolpa, aveva soggiunto che la cosa farebbe scandalo, molto scandalo; era vero il fatto sì o no? Non poteva negarlo; dunque non ci era altro da dire, — egli non sapeva davvero come pretendesse giustificarsi, — che nome darebbe a un capitano che facesse disertare i soldati; e pensare che lei, un sacerdote..... brutto esempio.... pessimo esempio!....

— Ma, esclamai io, chi può averlo informato? Don Luigi si strinse nelle spalle: diamine, era facile indovinarlo.

— E che avete risposto? chiesi.

— Nulla; sono uscito di là che mi girava la testa. Però dicano quel che vogliono; il ragazzo sta bene dov’è e ci resterà.

— Ma possono darvi dei fastidi per questo?

— Non so; faranno quel che vorranno.

E il buon prete si curvò in aria di rassegnazione.

Quella notte stentai a prender sonno: il racconto di Mansueta, quello dello speziale, le confidenze di don Luigi mi giravano per il capo come le aste di un arcolaio; pensavo a Rosilde, al dottor De Emma; costui mi stizziva; mi pentivo di avergli accordata la mia simpatia. Anzi d’essermela lasciata scroccare. Non era egli causa di tutte le disgrazie dei miei amici?

Mi pareva evidente.

Sicuro era lui che aveva abusato della solitudine di Rosilde, della dappocaggine del De Boni, della credula bontà di Don Luigi. Questo era il peggio; compromettere un onest’uomo, esporlo a delle persecuzioni tormentose, implacabili. In fin dei conti facesse la penitenza chi aveva peccato!

Il suo contegno riguardo ad Aminta mi indignava! Perchè ricusava egli il suo appoggio al figlio di Rosilde? Per riguardo alla moglie? Magra scusa quando altri, quando un innocente, per riparare al suo abbandono, mettono a repentaglio tutta l’esistenza. Crudele egoismo!

La requisitoria era compiuta e la condanna non si faceva troppo aspettare.

La mattina seguente accadde a Baccio cosa tanto straordinaria che egli, per la prima volta in trenta anni di esercizio, si lasciò precedere nel suonare il mezzodì dal sacrestano di Sumasco, noto per la sua negligenza. E c’è di peggio.

Egli piombò nello studio del curato tenendo in mano, per distrazione, il raggio d’oro delle grandi solennità.

Mansueta gli corse dietro, don Luigi si avanzò rapidamente ad incontrarlo, ma entrambi dimenticarono tosto la stranezza del suo contegno perchè egli balbettò:

— Il sindaco la vuole in sacristia.

Incredibili parole che, per l’affanno, non potè ripetere.

Don Luigi era già uscito per corrispondere alla richiesta del sindaco, che il pover’uomo era ancora sbalordito ritto in mezzo alla camera, Il signor Angelo non era certo venuto con delle buone intenzioni.

Il colloquio fu breve, non durò più d’un quarto d’ora, che però alla nostra ansietà sembrò interminabile.

Nessuno assistè. Il linguaggio del sindaco deve essere stato violento al solito: uscito dalla sacristia, sul sagrato si volse indietro e disse:

— Pensateci dunque: fra tre giorni o mi date quelle carte o preparatevi a ciò che vi ho detto.

Don Luigi, pallidissimo, rispose:

— Sarà quel che Dio vorrà.

Non capivo la minaccia del sindaco, e il curato non mi fe’ quel giorno alcuna confidenza.

Si ritirò nella sua camera e non ne uscì per tutta la giornata.

Mansueta, sollecita della salute del padrone, si recava sovente in punta di piedi a spiare dal buco della serratura, ed ogni volta tornava tentennando dolorosamente il capo.

Don Luigi passò tutte quelle ore ginocchioni pregando.

I dì seguenti il sindaco passò e ripassò più volte davanti al presbiterio coll’aria provocante di un creditore inesorabile. Le sue occhiate, volta a volta beffarde e furiose, causarono una quantità di disordini.

Mansueta lasciò due volte struggersi la cena sul fuoco. Il solo appressare del noto passo la metteva in convulsione.

E la non poteva sapere qual nuovo genere di tortura colui avesse potuto trovare, ma capiva che doveva essere formidabile dal contegno di Don Luigi, che da quel colloquio in poi non aveva più ricuperato la sua calma e anzi diventava sempre più inquieto e sofferente.

Pertanto io cominciavo a trovarmi a disagio.

Ero rimasto per riguardo a Don Luigi, e avrei voluto davvero essergli utile in quel frangente di cui mi era ignota la gravità. Ma la sua afflizione non pareva di quelle che si alleviano colle parole.

Il curato si manteneva stavolta chiuso con me come con tutti; noi ci vedevamo appena all’ora solita e si capiva che malgrado tutti gli sforzi egli non riusciva a dominare la cura segreta dell’animo.

Non volevo, al postutto, dargli soggezione.

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