< Memorie del presbiterio
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XXIV XXVI

XXV.


Erano le riflessioni ch’io facevo fra me tornando dalla Testa Grigia dove avevo voluto arrampicarmi un’ultima volta. E la conclusione fu ch’io avrei quella stessa sera chiesto congedo per l’indomani.

La serietà di questo proponimento mi fe’ naturalmente rallentare il passo. Una singolare tenerezza mi legava a quei luoghi. Le poche settimane colà passate rappresentavano per me un lungo e notevole periodo della mia vita.

Un villaggio è spesso un piccolo mondo che spicca sopra un orizzonte immenso: quivi gli umili casi quotidiani hanno sempre per scena l’ampia campagna, il cielo infinito.

Il terreno era umido per un primo nevischio caduto il giorno prima: avanguardia delle grosse nevi che per allora stavano attendate sulle cime del Sempione. Aveva fatto una splendida giornata, di quelle limpide che reca il vento dalla montagna. L’aria, fredduccia, ma in compenso tersa, trasparente, quasi sopprimeva le distanze.

Ero ancora lontano un quattro miglia da Sulzena e avrei detto di arrivarci in un salto.

Giravo la gola di Fontanile e vedevo il villaggio rimpetto, un po’ sotto a me, indorato dai raggi del sole che cadeva. Distinguevo i più minuti particolari, le siepi, le finestre, coi pannilini stesi, le pietre, le spire del fumo che usciva dai bassi comignoli.

È delizioso spettacolo questo di poter in una occhiata riassumere la vita di un intero paese; da un sentimento di potenza, quasi di superiorità; pare di poter disporre di quel gruzzolo di vite come si fa di un alveare.

Istintivamente mi ero seduto e guardavo.

Ad un tratto un altro particolare attrasse la mia attenzione.

Da quella parte il terreno degli orti di Sulzena si divalla rapidamente tracciando una leggera concavità, il cui terreno sassoso e scheggiato, è qua e là rivestito da radi cespugli di ginepro.

Notai che dei massi staccandosi a certi intervalli saltellavano giù a precipizio per quella scesa e balzavano nel torrente sottoposto.

Osservando meglio potei scoprire la causa di questo franare poco naturale nella sua continuità; era una persona, un uomo in abito scuro che di quando in quando spiccatosi da un cespuglio si lanciava ad afferrare quello più vicino che gli soprastava. Così a salti e sforzi intermittenti saliva verso il villaggio.

Chi poteva essere costui che preferiva alla strada comoda che sale dalla parte di ponente, questo sentiero da scoiattoli? Due sole ipotesi possibili, — uno cui preme non farsi scorgere, — oppure un matto come me che abborre le strade battute e ama meglio fiaccarsi il collo che seguir gli altri.

Questa seconda supposizione era la più probabile.

La simpatia, ispiratami da questa somiglianza di gusti, mi vinse e indugiavo guardando il curioso lavorio di quello sconosciuto, — finchè un’ora dopo lo vidi sparire fra due siepi spostando l’ultimo rovinìo di pietre che celebrò distesamente il suo trionfo.

Allora anch’io mi mossi.

Cominciava ad imbrunire.

I colori del paesaggio erano spariti: il quadro acquistava il grandioso indefinito del bozzetto. Sparivano nell’ombre i lineamenti e restavano ingrandite le linee. Le forme di quel poema di terra e di cielo lasciavano a nudo il concetto. Il quale esprimeva una cupa tristezza.

Il profilo del villaggio si disegnava debolmente sul fondo bianchiccio del monte: ai due capi opposti il presbiterio e la casa del sindaco: il primo, a spigoli retti semplici, smussati agli angoli da gruppi di piante: ritto in mezzo l’esile campanile tendente al cielo; — l’altra tutta a sporgenze, a denti come una immagine di un accattabrighe. Si sarebbe detto che quei due edifizi recassero impietrita la storia del lungo dissidio fra i loro abitatori.

E la fantasmagoria acquistava man mano efficacia: altre figure venivano ad aggiungersi alle prime.

In mezzo alle due case dominatrici un po’ indietro la specola quadrata dello speziale come un curioso che coi debiti riguardi osserva due litiganti che stanno per venire alle prese.

Una quarta casupola si levava sopra la linea media del villaggio; imboscata fra due noci giganti che le sorgevano ai due lati: dopo lunghi calcoli, conchiusi che fosse l’abituro di Beppe, smilzo, gramo.

Era notte chiusa. Affrettai il passo; facevo d’indovinare le pietre meno aguzze per posarvi il piede, incespicavo sovente. Qualche volta cadevo; una volta percossi colla fronte una delle croci disposte lungo il sentiero a ricordo di una sciagura. Non so perchè avevo quasi paura come quando ero bambino; involontariamente pensavo ai viottoli vivaci della mia Milano, ai crocchi gioviali dell’osteria del Gallo.

Malgrado le difficoltà camminavo lesto, vo a saltelloni, a sdruccioloni, e mi avvicinavo rapidamente a Sulzena.

Sbuco sotto la casa del Sindaco; sento la sua voce aspra, collerica nel tinello che strapazza la fantesca. Tiro dritto, infilo la strada del villaggio.

Una figura nera viene alla mia volta; poi si ferma e torna indietro. Io proseguo: lo sconosciuto mi precede un tiro di pietra; e ad un tratto sparisce non so dove.

Poco più in là passo innanzi alla casa della povera Gina.

È la seconda volta che in una sola sera penso a lei.

L’immagine di quella disgraziata mi s’affaccia al primo mio giungere in Sulzena ed ora, alla vigilia della partenza, non potevo allontanarla dalla mente.

Avvicinandomi al presbiterio incontro Baccio che mi passa accanto frettoloso senza vedermi.

Entrando nel cortiletto mi sgomenta un po’ il trovarvi il cavallo del dottor De Emma.

Fosse malato don Luigi?

Mansueta si affrettò a rassicurarmi. Il dottore è venuto da sè per affari; da un’ora è chiuso col curato nello studio.

Salgo ad aspettare la cena nella mia camera: la finestra verso strada è aperta.

Nel villaggio è buio; un filo di luce che esce dal nostro portone taglia a mezzo la piazzetta del sagrato.

Nel cortile scalpita la cavalcatura del signor de Emma: s’ode qualche belato fioco come venisse di sotterra.

Il colloquio nello studio si prolunga.

Un passo s’avvicina. È Baccio che torna. Don Luigi e il dottore gli vengono incontro a’ piè della scala. Sento il sacrestano che dice:

— In casa non c’è.

Poi entra; la porta dello studio si chiude di nuovo. Nessuno si ricorda di me.

Accendo un lume, prendo un libro.

Mentre sto per chiudere la finestra, un lontano rumore mi colpisce. Parmi d’aver inteso un grido, un altro; poi silenzio. Che succede all’altro capo dell’abitato? Segue un confuso vocìo. Passano alcuni minuti di quiete profonda,— un cane abbaia e mugola.

Due contadini si avvicinano a passo a passo.

Parlano fra loro a monosillabi, sembrano commossi, spaventati.

Uno dice:

— Tu hai visto.

L’altro risponde:

— Che! E tu?

— Neppure.

— Che si dice?

— Che l’hanno ammazzato.

— Che sia morto?

— Per bacco! dieci coltellate.

— Tredici....

— L’hai contate?

— Ohibò!

— E già non lo vo’ a ripetere.

— Me l’ha detto lo speziale.

Sono passati; vanno a precipizio giù per la scesa.

Un altro passo.

Questo si ferma alla nostra porta.

Una voce chiede nel cortile:

— C’è in casa il dottor di Zugliano?

Mansueta risponde di sì.

L’altro aggiunge qualcosa ed ella dà in esclamazioni.

Alla sua voce accorrono il curato e il dottore: parlano tutti insieme. Scendo anch’io.

Appena mi vede, Mansueta alza le braccia:

— Oh che disgrazia, oh che disgrazia, il sindaco....

— Andiamo, dove l’hanno portato? domandò il signor de Emma.

— Nella farmacia, risponde il montanaro. E s’avvia. Li seguo.

Per istrada il buon uomo conta al dottore che Beppe, tornato improvvisamente in paese, ha appostato il sindaco che all’ora consueta si recava dallo speziale, l’ha forato da tutte le parti.

Accorse alle grida lo speziale col suo garzone, lo trovarono che trascinava pei piedi il moribondo. Ci vollero tutti gli sforzi per levarglielo dalle mani. Egli era furibondo, gridava: — l’ho finito io, — e vo’ buttarlo nell’acqua: non bisogna sotterrarlo in terra di cristiani, vicino alla Gina!

Il dottore, a cui certo premeva assai più la salute del feritore che non la vita del ferito, s’informò di Beppe.

Il montanaro rispose ch’era scomparso. Nessuno aveva tentato di trattenerlo. Tutto il paese era per lui: si sapeva bene, s’egli aveva menato era che gli avevano fatto il solletico nelle mani. Naturale! levate il sentimento ad un uomo e diventa lupo.

Era giustizia greggia, ma giustizia giusta.

Potei accorgermi quanto fosse odiato a Sulzena il signor Angelo: dopo il primo momento di allarmi il villaggio era tornato silenzioso. Non era indifferenza, ma noncuranza volontaria e ostile.

Notai che molte finestre erano socchiuse, altre semiaperte; ma non vidi una sola porta aperta.

Entrammo nella farmacia. Il ferito era disteso sopra un pagliericcio: coperto di cenci insanguinati: il capo chino sulla spalla sinistra, la bocca intrisa di bava nerastra.

Il dottore De Emma s’inginocchiò e appressò l’orecchio al cuore del giacente.

Batteva ancora.

Le donne dello speziale immobili assistevano con glaciale curiosità alla visita, e guardavano il ferito come se fosse stato un sacco di noci.

Il signor Bazzetta ritto in mezzo a un mucchio di bende, di fiale, enumerava al medico le operazioni da lui praticate, e vi aggiungeva coll’usata garrulità le sue diagnosi e le sue prognosi.

Il dottore ordinò a tre omaccioni, dipendenti del De Boni, che l’avevano soccorso, di sollevarlo nel pagliericcio; e lo fece recare a casa.

Ci andai anch’io.

Bisognò picchiare un quarto d’ora di seguito perchè la fantesca si decidesse ad aprirci.

Deposto che fu sul letto, il dottore esaminò attentamente il ferito: aveva il petto, la schiena, il collo tempestati di trafitture larghe e profonde. Viveva ancora, ma per morire in breve.

Appena gli astanti intesero la gravità del suo stato, sfumarono tutti. Anche la serva, donnaccia ributtante colla quale, dicevasi, il De Boni viveva maritalmente, disperando della ulteriore liberalità del morente, fatto fagotto delle robe sue o non sue, se n’andò senza neppur volgergli uno sguardo.

Rimanemmo noi due col signor Bazzetta che, pratico della casa, aiutò il dottore a trovare le cose necessarie alla medicazione.

Finito ch’egli ebbe ci sedemmo a quel desolato capezzale. Lo spettacolo di quella triste esistenza, che si spegneva in così profondo abbandono, in così cupa solitudine di affetti, era cosa da stringere il cuore.

E nella lugubre solennità di quel momento mi ripugnava la calma del dottore: non potevo levarmi dalla testa, che, unico al mondo, egli avesse dei torti verso quello sciagurato.

Il farmacista non poteva rimaner silenzioso un pezzo: la sua cinica loquacità era ributtante. Egli discorreva delle cose più indifferenti, narrava storielle come fossimo a veglia dinanzi a un tavolo d’osteria: — e, se volgeva la sua attenzione al moribondo, era per biasimarne la condotta, il carattere e sopratutto la caparbietà nel non dar ascolto ai suoi vantati consigli.

La sua voce ineguale, garrula era accompagnata dal rantolo cupo del morente e dal lontano rambazzo dello Strona.

M’ero messo accanto alla finestra e guardavo giù nella valle, contemplavo la sublime, schiacciante indifferenza della natura. Il sentiero che avevo percorso poche ore prima allacciava il monte dirimpetto come una cintura biancastra.

Mi vennero a mente le strane immagini che avevano preconizzato alla mia fantasia il dramma terribile alla cui catastrofe in quel punto assistevo.

L’agonia del signor De Boni fu più lunga e più travagliosa di quel che il dottore avesse previsto. La vitalità tenace di quella tempra eccezionale tentò un ultimo sforzo disperato.

Verso la mezzanotte si dichiarò la riazione con una febbre violenta. Il respiro si fe’ più forte e più frequente; un tremito convulso squassò le membra del moribondo.

Poco dopo cominciò il delirio.

La ferita del collo e la tumidezza da essa prodotta rendeva quasi inintelligibile quel ch’egli diceva.

Erano, per quel che ho potuto comprendere, bestemmie, imprecazioni, a cui si mescolava di frequente il nome spregiativo di «chierica».

Senza dubbio voleva designare il curato. L’infelice minacciava il suo avversario come se possedesse ancora tutte le forze della sua salute e della sua influenza.

La crisi durò tutta la notte. In quel mezzo capitò don Luigi.

Per lui le persecuzioni sofferte non erano un motivo sufficiente per credersi dispensato dal prestare i suoi caritatevoli uffici verso un suo parrocchiano.

Il sant’uomo entrò nella camera senz’ombra di ostentazione, dimessamente, col contegno di chi compie un doloroso dovere.

Il dottore non gli permise di accostarsi al letto.

Senza dar retta alle obbiezioni insipide dello speziale che annusava con ingorda ansietà lo spettacolo di uno scandalo, gli fe’ capire che la sua visita non era opportuna.

Il sindaco continuava nei suoi farnetici.

Don Luigi potè intendere alcune delle sue parole: una crucciosa, una sincera afflizione si dipinse sul suo volto. S’arrese alle rimostranze del dottore ed uscì piangendo.

Furono queste le sole lagrime che vidi intorno a quel letto.

Venne in vece sua don Sebastiano.

Amministrò all’inferno l’estrema unzione, brontolando frettoloso fra i denti le preghiere rituali.

Poi spogliò il rocchetto, la stola e chiese al dottore se sarebbe stato possibile il confessare il moribondo.

Il signor De Emma disse che non poteva dir nulla con certezza: se voleva aspettare, verso l’alba, la febbre sarebbe scemata oppure....

A questa reticenza il prete soggiunse duramente:

— Va bene.

E sedette. Era un’indifferenza di più.

Tutto ciò era brutto, mi irritava.

Uscii. Cominciava il crepuscolo, l’ora preferita dell’angelo della morte.

Rompevano il silenzio dei belati che sembravano lamenti. Gli alberi si agitavano alla brezza mattinale come rabbrividissero e gocciolavano lagrime di rugiada. Un gallo cantava colla sicumera crudele di un diacono che intona le esequie.

Baccio suonava l’angelus, e insieme l’agonia del sindaco.

Poi la scena mutava rapidamente: al funereo barlume sottentrava l’incarnato dell’aurora, il paesaggio usciva dal grigio lenzuolo, salendo a poco a poco la gamma dei suoi colori: il giorno usciva dai limbi misteriosi dell’alba.

Io aspiravo con voluttà l’aria vivace; assaporavo con delizioso egoismo le pulsazioni possenti della vita.

Un rumore misurato di passi mi riscosse dalla estatica contemplazione.

Sbucavano di dietro il muro della chiesa quattro carabinieri condotti da un brigadiere, un’atletica figura di savoiardo. Un montanaro di Sulzena li accompagnava.

Il signor Bazzetta aveva colta con premura l’occasione di esercitare le sue funzioni di assessore. Egli aveva mandato avviso alla stazione di Mirasco.

I cinque soldati sostarono un minuto sulla piazzetta. Poi il brigadiere mi si accostò e mi chiese se sapevo notizie del feritore.

Risposi in buona fede che credevo avesse lasciato il paese.

— È probabile, soggiunse, però bisogna compiere le formalità, E volto alla guida che l’aveva accompagnato:

— Alla casa di Giuseppe Rivella, andiamo.

Mi salutò e s’avviò coi suoi uomini.

Tenni loro dietro.

Eravamo tutti convinti che la ricerca intrapresa dal brigadiere fosse una pura formalità.

Tuttavia egli per quella puntualità allobroga che nelle faccende quotidiane rado fallisce, essendo il mondo routinier più di quanto lo si creda, dispose le cose come se avesse a far una cosa seria; e seria era perchè doverosa.

Per ordine suo, due uscirono dalla strada e vennero ad appostarsi dalla parte degli orti. Egli cogli altri due si avanzò per la strada del villaggio e si presentò alla porta della casa. Era socchiusa.

Il brigadiere lasciò ancora uno di guardia alla soglia e vi entrò.

Io osservavo dalla strada questa manovra e s’era fatto un crocchio di gente intorno a me; tutti erano del mio avviso.

Chissà dove poteva essere a quell’ora il povero Beppe!

Ma era appena entrato il brigadiere, che intendemmo il comando ed un alterco. Accorremmo.

Beppe era in casa! Ritto in capo alla scala, coll’aria sconvolta, l’occhio smarrito e minaccioso, spianava una carabina di custode in faccia agli agenti della forza publica gridando:

— Indietro, indietro.

Il brigadiere s’era fermato al primo gradino e, senza punto sgomentarsi, coll’aria di chi ha da far con un ragazzo, dicevo risoluto:

— Giovinetto, giudizio! Abbassate quell’arma e venite con noi.

— Vengo, ma ad un patto.

— Ma che patto!

— Vo’ sapere se colui è morto e vo’ vedere il cadavere.

— Andiamo, andiamo, sclamò seccato il brigadiere e si moveva.

Poteva nascere disgrazia.

Mi lanciai e lo trattenni.

— Lasciate ch’io gli parli, dissi.

E fattomi innanzi:

— Beppe, volete darmi retta a me?

Mi ravvisò, e togliendosi con moto istintivo la berretta:

— Sì, signor pittore.

— Ebbene, obbedite al brigadiere, sarà pel vostro meglio, — e la giustizia terrà conto dei vostri dolori.

— Signor pittore, ditemi che il sindaco è morto ed io vengo dove vogliono.

Ci teneva alla sua vendetta.

— Il sindaco non è morto ma non tarderà ad esserlo.

— Sicuro?

— Come son sicuro che stassera tramonterà il sole.

Il suo volto balenò di una gioia selvaggia.

Il brigadiere, che in questo momento era salito, lo disarmò e lo consegnò a’ suoi uomini, che gli misero le manette.

Egli li lasciò fare; pareva istupidito.

Prima che lo menassero io gli presi una delle sue mani legate e gliela strinsi senza ripugnanza per l’atto di cui s’era macchiata.

— Coraggio, gli dissi, i vostri amici si ricorderanno di voi.

Egli mi fe’ un sorriso ebete e chinò il capo.

Lo trassero alla casa comunale, dove fu per il momento rinchiuso.


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