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XXVI.
Un messo venne ad annunziare al brigadiere l’arrivo del procuratore del re. Perciò, lasciati due dei suoi a custodia dell’arrestato, egli mosse incontro al magistrato.
Discesi anch’io colla folla smaniosa di vedere il nuovo personaggio del dramma terribile che da dodici ore metteva sossopra Sulzena.
È impossibile dimorare per poco in un villaggio senza dividerne tutte le minuscole curiosità.
Il rappresentante della giustizia col suo cancelliere venivano modestamente cavalcando due magri e sfiancati ronzinucci da nolo, che trotterellando affannosamente, martellarono acutamente l’immane ciottolato.
Era un bellissimo giovane con una elegantissima barba nera.
Avevo cominciato appena ad ammirarlo che egli, balzato a terra, si buttò con una festevole esclamazione di sorpresa fra le mie braccia.
— Emilio, non mi conosci più?
E chi diamine avrebbe potuto ravvisare sotto quelle apparenze civili e in quel grave ufficio il mio Attilio, l’allegro amicone di tre anni prima, il mio complice in versificazione ed altre capestrerie?
— Che, domandai, sei diventato un uomo serio?
— Quasi.... tanto da farti ridere, brigante: e tu?
— Io so far di tutto fuorchè delle cose sensate.
— Taci, credi tu che le mie requisitorie lo siano?
Gli astanti ci guardavano a bocca spalancata strabiliando di sentire un avvocato fiscale parlare con tanta disinvoltura.
Attilio fu il primo ad accorgersene. Ricordò la la sua missione e chiese di vedere il ferito.
— Vieni, ti condurrò io, gli dissi.
Il cancelliere rimase indietro a levar da una grossa tasca che teneva in groppa la carta e le penne per stendere l’interrogatorio.
Noi lo precedemmo alla casa del Sindaco. Incontrammo per via don Sebastiano e lo speziale che a malincuore s’avviava ad aprir la sua bottega.
Seppi da lui che il signor Angelo era tornato in sè verso il far del giorno ma declinava rapidamente. Attilio incaricò l’inserviente comunale di avvertirlo del suo arrivo. Noi lo seguimmo su per l’incomoda scaletta di legno. Appena entrammo nella camera, prima ancora ch’egli avesse aperto bocca, il signor De Boni, a cui l’inserviente aveva fatto l’ambasciata, puntellandosi con uno sforzo supremo per alzarsi; volto ad Attilio, con voce soffocata ma abbastanza intelligibile ruggì:
— Fatemi giustizia: dicono che chi m’ha assassinato è il Beppe Rivella, — ma, ricordatevi, che l’ha mandato il curato. Egli m’ha imposto per diciotto anni un suo bastardo e per liberarmene l’ho minacciato di tutto rivelare ed egli.... guardate..... m’ha fatto finire... finire, prete assassino.... giustizia!
E cadde rovescio col capo penzoloni fuori dal letto, livido, convulso.
Era orribile: qualcosa di infernale.
Il medico osservò che la morte non poteva tardare.
Lo sciagurato aveva consunto gli estremi aneliti di vita in quell’ultima protesta di odio.
Appena potei riavermi dallo stupore, mi tornarono vive alla mente le terribili sue dichiarazioni. Secondato dal dottore, dissi ad Attilio che erano menzogne, gli fei elogio del curato e lo scongiurai in nome della nostra buona amicizia di non tener conto di quella accusa.
Attilio si lasciò smuovere a mezzo.
— Poichè, disse, egli ha fatto quelle dichiarazioni estragiudizialmente, se egli non potrà ripeterle in formale interrogatorio, farò di esaminare il curato privatamente. Capirai che non posso prometterti di più.
Lo ringraziai con una stretta di mano.
Sopraggiunse il cancelliere e, non potendosi oramai far altro, Attilio col concorso del signor De Emma eresse il verbale di perizia medica.
Mentre essi lavoravano in un angolo, il sindaco si dibatteva solo nel suo letto. Il suo rantolo intermittente e sempre più fioco accompagnava lugubremente le esplicazioni laconiche del medico e il formulario che Attilio dettava al cancelliere.
Prima che fosse terminato spirò.
Il medico si avvicinò, lo esaminò attentamente e disse: è finito.
Io non ebbi il coraggio di guardarlo.
Uscimmo.
Attilio si recò nel palazzo comunale e procedette quivi all’esame dei testimoni.
Io lo aspettai nella strada passeggiando.
Quando, dopo due ore, mi raggiunse, mi disse stringendomi la mano:
— Bene, bene, il tuo don Luigi pare al coperto.
Concorrevano nel ferito cause sufficientissime a delinquere. Però, a scarico di coscienza, conducimi teco dal curato, senza aver l’aria di nulla, così sotto colore di far una visita. Tu mi presenti, poi mi lasci solo con lui, ed io gli farò un paio d’interrogazioni. Son certo che tutto finirà lì.
Acconsentii di buon grado e gli fui guida al presbitero.
Don Luigi era in chiesa che celebrava l’ufficio funebre per il defunto.
Poco dopo ci venne a raggiungere nel salotto: era afflitto profondamente ma tranquillo.
Fè cordiale accoglienza all’amico mio e deplorava di dover fare la sua conoscenza in un giorno come quello.
Dopo alcuni minuti uscii e andai in cucina dove trovai il dottore.
Misurava la camera a passi ineguali: era vivamente preoccupato e pareva assai inquieto del colloquio che in quel mentre seguiva nel salotto. Sempre fisso nell’idea ch’egli fosse la causa prima di tutto il malanno, io attribuivo la sua agitazione al rimorso. Sedetti accanto al camino e tacqui.
La nostra attesa non fu lunga, Era scorso appena un quarto d’ora che Attilio comparve sull’uscio e mi disse:
— Vo a cercare il cavallo, mi accompagni? Aveva una ciera tanto buia che mi sgomentò. Fuori mi prese a braccetto.
— Dunque? domandai con viva ansietà.
— Cose gravi, caro mio; l’accusa del sindaco sarà falsa; però sussistono i motivi con cui ha voluto spiegarla.
E mi ripetè il colloquio con Don Luigi. Rimasti soli, Attilio, scusandosi con gli obblighi del proprio ufficio, gli avea rivolto questa domanda:
— Qualcuno pretende che sia corsa qualche relazione fra lei e una donna legata in qualche modo col defunto De Boni. È vero?
Don Luigi s’era turbato forte, e impallidendo subitamente, a capo basso, aveva risposto:
— È vero.
— Esiste un figlio di questa donna!
Legittimo?
No.
Sa lei.... che De Boni gliene attribuiva la paternità?
— Si.
— È vero che l’aveva minacciato di far delle rivelazioni in proposito?
— Sì.
— E.... queste rivelazioni lei le conosce?
— Sì.
— Sono esatte?
Don Luigi non aveva potuto rispondere altrimenti che con un cenno affermativo del capo: era tanto abbattuto che Attilio non aveva creduto di insistere.
Egli mi disse:
— Capirai che probabilmente sarò costretto ad assumere un suo formale interrogatorio. Ti ripeto che lo credo innocente, — ma intanto è necessario che ciò si chiarisca nella procedura.
L’impreveduta confidenza mi aveva tanto sbalordito che non potei profferire parola.
Seguii come trasognato il mio amico fino alla stalla dell’inserviente, dove avevano condotti i cavalli.
Quivi sopraggiunse poco dopo il signor De Emma.
Ci prese in disparte e disse ad Attilio:
— Signor avvocato, don Luigi si è candidamente accusato e non ha pensato a difendersi. Egli le ha detto la verità ma non tutta la verità. Le sue confessioni possono far sospettare di lui; ma io le posso assicurare che il dabben uomo non ebbe mai verso il De Boni l’ombra di una colpa. La scongiuro a mani giunte di non tenerne conto: un atto di procedura fondato sovra esse non gioverebbe alla giustizia ma ucciderebbe senza riparo la riputazione e forse anco la vita di un innocente.
Attilio esitava a rispondere.
Il dottore soggiunse:
— Il suo amico le può dire che fior di galantuomo sia don Luigi.
— Però v’è contro di lui un indizio grave, — osservò Attilio. — risulterebbe che egli abbia imposto il peso di un suo figlio naturale al signor De Boni.... si può indurre che egli aveva interesse a temerne e ad evitarne le rivelazioni....
— Ma egli non ha imposto nulla, non sapeva nulla. Senta. Lei, tornando passerà da Zugliano; favorisca in casa mia; mi lusingo di riuscire a convincerla.
E rivolto a me:
— Venite anche voi; potrete confermare buona parte del mio racconto.
— E don Luigi? — osservai riconciliato interamente col dottore. Sarà meglio lasciarlo tranquillo. Inoltre bisogna bene che ci occupiamo senza indugio del povero Beppe.
Andai con lui al presbiterio a congedarmi.
Don Luigi non cercò di trattenermi: prese la la mano ch’io gli porsi rispettosamente, mi tirò a sè, mi abbracciò con effusione senza far motto.
Il segretario fu tanto buono da cedermi la sua cavalcatura e partimmo col dottore.
Allo svolto dove la strada passa ancora sotto Sulzena prima di seguir la vallata mi volsi e diedi un’ultima volta uno sguardo di tenerezza al presbiterio che stendeva modestamente al sole cadente i suoi muri bianchi e le ultime foglie rosse del suo pergolato.
Dal muricciuolo dell’orto la Mansueta mi salutava scuotendo il suo grembiale con ambe le mani.
Nella confusione della partenza m’ero dimenticato di lei. Eppure dopo tanti anni ho ancora vivissima in me la sua immagine! Povera vecchia, santa donna: quanto mi sono rimproverato di non essere tornato indietro a stringer la sua mano aggrinzita dal lavoro!
Allora non credevo di non averla a riveder più.
Addio! con un cenno di mano si piglia commiato per tutta l’eternità!
Si faceva tardi; mettemmo i cavalli al galoppo.
A qualche miglia da Sulzena passammo innanzi ai carabinieri che menavano il Beppe.
Lo chiamai per nome.
Non intese.
Camminava colle braccia ammanettate in croce sul petto, colla testa china, col fare stralunato di un uomo che ha l’animo fuori di questo mondo.