< Memorie del presbiterio
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XXVI XXVIII

XXVII.


Il dottore era tanto impaziente di raccontarci la sua storia quanto noi di ascoltarla.

La strada c’era sembrata lunga. Perciò non appena arrivammo a casa sua, ci chiudemmo nel suo studio e di tacito accordo si venne subito all’argomento.

Egli parlò per più di tre ore col linguaggio sobrio e al tempo stesso colorito di un uomo di mondo che discorre di cose serie.

A parte la speciale gravità delle circostanze, il suo racconto era per sè stesso molto interessante. E tal sembrerebbe così anche ai miei lettori, se potessi ripeterlo com’egli lo espose. Ma sono costretto a riassumere alla meglio


IL ROMANZO DEL DOTTORE.


Il signor De Emma aveva avuto una gioventù burrascosa. Travolto, fin dai primi anni nelle fortunose vicende del 1821 aveva visto il padre, antico e venerando patriota morire in una delle terribili fortezze dell’Austria ed egli stesso aveva dovuto al nome di quella vittima illustre di poter sfuggire quasi miracolosamente alle prigioni di Mantova da cui, a istruttoria finita era destinato per seguir la sorte paterna, allo Spielberg.

Troncati gli studi, confiscati i beni, non si perdette d’animo tuttavia. Natura temprata alla lotta, maschio carattere, salute a tutta prova, giurò non solo di affrontare, ma di vincere la battaglia che gli si offriva.

Passò in Inghilterra, le terra eternamente ospitale a tutte le sventure. Si rannicchiò in una cameretta, la più a buon mercato che potè trovare nel labirinto di Londra; contò il poco peculio rimastogli dal naufragio della sua fortuna, e, fatto il calcolo che ne aveva ancora abbastanza per non temere, per un anno almeno, la fame, riunì in un pacco le molte lettere di raccomandazione che gli amici della sua famiglia gli avevano procurato in gran numero e le pose in fondo al baule. Voleva tentare, almeno tentare, di poter dire un giorno di dover tutto a sè stesso. L’orgoglio a volte, è la più nobile e la più feconda delle virtù.

L’anno in cui era stato avvolto nel movimento rivoluzionario, doveva essere quello della sua laurea in medicina; in esso aveva visto invece aprirsi al padre la tomba, a sè la prigione e l’esiglio. Ora bisognava riprendere i corsi; ma l’infortunio che lo aveva così spietatamente trafitto d’un tratto nel suo cuore di figlio e di patriota, aveva ripercosso i suoi colpi nel cervello dello studente.

Le lagrime versate, le bestemmie espresse, le diuturne lotte dello spirito in quegli eterni interrogatorii di cui parla Silvio Pellico con tanta amarezza, tutto ciò aveva portato nelle sue idee una confusione che confinava quasi colla dimenticanza.

Ma ciò non sconfortava il giovane De Emma: la calma, la solitudine, la prepotente idea del dovere, avrebbero ben presto rimesso a sesto ogni cosa. Una nuova barriera, e questa più alta assai, gli si presentò davanti come appena ebbe frequentate le aule della Università e avuto modo di scambiar parola con condiscepoli e professori. Spirito avanzato quanti altri mai, e dell’avanzare innamoratissimo, non si sbigottì ma fremette quando s’accorse che, se volea degnamente percorrere la carriera intrapresa e percorrerla nella via del progresso, gli era forza tornar indietro fino a metà del cammino percorso ed ivi, dimenticata la strada rifatta piena d’ombra e di polvere, incamminarsi per opposti sentieri, fino a quel giorno appena intraveduti, e che adesso gli apparivano sfolgoranti di luce e di verità.

Mentre in Italia la medicina, per opera specialmente del grande Morgagni, cominciava ma appena ad abbandonar l’antico spirito di sistema per un illuminato eclettismo, e ove pochi ingegni preclari si sprofondavano nello studio dell’anatomia patologica, e da pochissimi o da nessuno determinavasi ancora la sede delle malattie nè descrivevansi le alterazioni che producono, ed erano trascurate quand’anche non derise le ricerche microscopiche e l’analisi dei liquidi, — in Inghilterra, le dottrine di Mesmer, spuntate al tramonto dell’ultimo secolo, già preoccupavano tutti gli spiriti più elevati e già avevano aperti nuovi orizzonti al pensiero; Hanhemann contava ogni giorno più numerosi i suoi satelliti; e le scoperte e le indagini di Jenner, di Corvisart, di Avenbrugger, di Loenner e di Pinnel, il redentore degli alienati, avevano rivoltata come un guanto la scienza.

È questa l’imagine abbastanza comune, ma giusta, che si affacciò al giovane studente di medicina, davanti all’inesorabile evidenza dei fatti. Si ingolfò dunque nelle nuove dottrine, benedicendo quasi a quel tempo di miserie perdute, che provvidenzialmente lo aveva scosso nelle false o men rette convinzioni acquistate con tanta perseveranza in Italia. Chiamò la fatica a duello, e fece e si mantenne la promessa di lavorare dieciotto ore sulle ventiquattro. Diminuì il budget delle spese quotidiane, diggià abbastanza mingherlino nell’antecedente preventivo, si fece trappista e cenobita, e rinfrancandosi nel pensiero della patria lontana e nell’esempio nobilissimo del padre, trovò la vigoria e la pertinacia per condurre per quasi un anno una vita che, senza quel ricordo e quello stimolo forse avrebbe spezzato anche una natura più robusta della robustissima sua. Ma i libri in Inghilterra, e quelli in ispecie di cui egli doveva riempire la sua cameretta costavano, a que’ tempi, un enorme denaro; non contento di quelle della clinica egli voleva fare esperienze per conto proprio, e queste costavano ancor più dei libri. Ogni nuova riduzione di spesa sarebbe stata l’inedia!

Allora... allora chinò la testa un momento, ma per rialzarla più fiera e più convinta di prima. Scelse fra le lettere di raccomandazione, deposte in fondo al baule, dieci mesi prima con tanta balda illusione, quelle in cui non era precisamente indicato il genere di occupazione che egli si era prefisso ricoverandosi a Londra, e per un mattino di novembre dei più nebbiosi e freddi, uscì per andarsene in cerca di lezioni di lingue e di letteratura. Conosceva, oltre la sua, perfettamente il francese, il tedesco e l’inglese, era coi classici famigliarissimo, e la innata attrazione per tutto che è nuovo ed ardito lo aveva fino dall’adolescenza portato quasi all’adorazione degli autori romantici, allora sconosciuti ai più, da molti rinnegati, compresi o portati alle stelle da pochissimi giovani ingegni, per ciò appunto bersagliati a loro volta e presi a celia.

Aggiungete a queste impareggiabili doti acquisite, quelle di cui gli era stata prodiga la natura: un’alta statura, un portamento che rivelava l’aristocrazia della razza, gli occhi splendidissimi, la chioma corvina, una mano bianca e affilata; tutto un insieme di linee armoniose e robuste nel tempo stesso. An italian gentleman, susurravano intorno a lui, appena vedendolo passare.

Perchè a queste notevoli raccomandazioni non voleva egli aggiungere quella che pochi o nessuno fra gli innumeri aspiranti al posto di maestro di lingua, ecc. ecc., che correvano, corrono e correranno le vie di Londra, avrebbero potuto dividere con lui? Perchè con tanta cura tentava di nascondere il neo-laureato in medicina dietro il postulante pedagogo? Per un sentimento in cui non so se entrasse in dose maggiore l’orgoglio oppure l’egoismo. Entrando nell’onorato ma modesto sentiero in cui lo spingeva il bisogno, egli sentiva di abbassarsi, non in faccia agli altri ma in faccia a sè stesso; non voleva abbassar con sè l’altissimo ideale, la scienza; per Lei, per l’amor suo, pel suo culto ogni maggior sacrificio; ma ambiva di farle la carità delle sue veglie senza ch’Ella sapesse che cosa costassero al suo sacerdote. Come aveva diviso in due parti il proprio tempo, così aveva diviso in due parti sè stesso. Rientrando dopo le sue lezioni per riaprire i dotti volumi, egli spogliavasi per così dire la pelle del maestro e ridiventava il pensatore; se sotto quella pelle alcuno sguardo indiscreto avesse potuto scoprire quest’ultimo, egli se ne sarebbe sentito abbandonato completamente; gli pareva che l’Idolo lo avrebbe guardato con faccia meno benevola, gli pareva che lo avrebbe profanato.

La fortuna gli arrise. Non era scorso un anno e la sua fama di professore aveva già fatto il giro delle sale più aristocratiche di Londra, sicchè egli aveva ormai abbandonato l’uggioso e gretto insegnamento delle lingue per non dar che lezioni di lettere e di estetica, lezioni che gli venivano largamente retribuite e che, introducendolo, intermediarii l’ingegno e la coltura, nelle più cospicue famiglie, dovevano trovar preparata al medico futuro una vasta e invidiabile clientela.

Gli agi non lo tolsero alla sua vita di privazioni; anzi affilarono, per così dire, l’aculeo che lo spingeva allo studio, talchè in due anni egli fece ciò a cui altri non sarebbe riuscito di fare, in doppio spazio di tempo.

Pochi mesi mancavano al giorno in cui sarebbe stato in possesso di tutte le patenti volute dalla legge per professare la scienza salutare, quando un avvenimento sopraggiunse che doveva decidere di tutta la sua vita.

Una delle famiglie con cui per mezzo delle lezioni egli era entrato in più intimi rapporti, — rapporti direi quasi di dimestichezza se dimestichezza fosse possibile fra inglesi e stranieri, — era la famiglia di Riccardo Hutley, antico capitano della Grande Compagnia. Arricchitosi di molto nelle Indie, il vecchio viaggiatore terminava in una quiete ben meritata la laboriosissima vita, in uno dei più begli appartamenti della City, educando principescamente insieme colla sua signora, l’unica figlia, miss Jenny, una fanciulla di dieciotto anni, un miracolo di virtù e di bellezza.

Oltre le ore dedicate alla lettura e ai commenti dei nostri poeti a fianco di miss Jenny, erano molte quelle che il giovane De Emma passava nelle sale da pranzo e di conversazione e in quella del bigliardo, invitato con sempre maggiore frequenza dal capitano che aveva preso stranamente ad amarlo. Il vecchio scorridore dell’Oceano prendeva un gusto da non dire udendo il professore leggere le terzine di Dante; mai, egli andava dicendo a chi voleva o a chi non voleva sentire, mai egli aveva meglio provato l’influenza dei versi... e notate che non capiva una sillaba di italiano! Bizzarria britanna!

Frequentando così assiduamente quella famiglia, obbediva egli ad un sentimento di cordialità, di gratitudine?

Tutti i colleghi che conoscevano quel giovane sempre pensieroso, sempre accigliato, il quale, — finite le ore dello studio non divideva cogli altri le lietissime dell’andarsene a zonzo, — che adocchiava, dalle vetrine dei librai, — le nuove edizioni, — nella attitudine di Adamo davanti al frutto proibito. — Tutti quei giovani inglesi lo guardarono, lo contemplarono, e finirono per ammirarlo.

L’idolo è custodito: ecco perchè i passi di De Emma furono seguiti da altri passi.

Quella frequenza contraria alle parche abitudini del giovane italiano, nella casa del vecchio capitano fece dire, dopo poco tempo, ad un primo.

— È innamorato di miss Jenny!

— È il suo amante, — ripetè il secondo.

— Quel vecchio babbeo!... osservò il terzo.

E così di seguito.

Che c’era di vero in tutto ciò?

Eccolo detto in poche parole:

De Emma non era l’amante di Jenny, il padre di Jenny non era un babbeo; ma il primo interlocutore aveva ragione. — De Emma era innamorato. E il padre di Jenny se ne accorgeva.

Innamorato senza volerlo, quasi senza saperlo; come si è innamorati per la prima volta; innamorato non tanto della creatura come della poesia che ella espandeva; assorto in questa come in una visione; infelicissimo quasi sempre e più che mille volte felice in un giorno.

Venne l’ora in cui constatò la propria malattia, e se ne atterrì come mai forse non si era atterrito al capezzale di nessun infermo.

Due soli rimedii potevano salvarlo: uno d’ambrosia, l’altro di tossico; al primo non poteva, non doveva nemmeno pensarci; quanto al secondo, c’erano novantacinque probabilità su cento che invece di guarirlo lo avrebbe ucciso. De Emma scelse quest’ultimo.

Il giorno stesso in cui si era convinto della dolce e crudele verità, egli ricevette un invito come al solito dettato nei termini della più squisita gentilezza, in cui lo si invitava in campagna ad Hutley House, per l’indomani; era sottoscritto «Jenny».

Il povero giovane rispose immediatamente di non poter aderire all’invito attestando occupazioni che gli avrebbero reso necessario per assai tempo il soggiorno alla capitale. È vero che lacerò per ben tre volte il biglietto prima di poterlo scrivere in modo che la sua disperazione non trasparisse dalla sconnessione delle frasi e dei caratteri.

Quel giorno errò come un pazzo per le strade e pei parchi preceduto da un fantasima di fanciulla dagli occhi azzurri e dai lunghi, disciolti capelli biondi, che ora pareva sorridergli con ingenua famigliarità, quasi facendogli coraggio a seguirla, ora sembrava comporre a corrucciata espressione l’angelica faccia, come chi vorrebbe rimproverare e non osa, e tiene il broncio di fuori e di dentro ha il rovello. Quella notte la visione sedette davanti a lui, insonne e febbricitante, nè lo abbandonò che coll’alba, quando l’orologio della torre lo richiamò dalle plaghe della inesorabile fantasia ai solchi della crudele realtà. Ma i libri su cui si gettò come si precipita sulla fontana il pellegrino assetato non erano più quelli del giorno prima: che insipida presa, che gelata selva di formule, che arida landa di dubbii, di supposizioni, di errori! Come mai tutto ciò aveva potuto, per tanto tempo, formare la sua delizia, il suo orgoglio, l’esistenza sua tutta intiera?

Egli si vide allora spalancato un abisso in cui si sentiva irresistibilmente trascinato; come un ragno a cui la verga di uno spensierato fanciullo abbia infrante tutte le fila cui era sospesa la pensile dimora.

Fu dapprima uno sgomento inenarrabile, una perturbazione spasmodica, se così è lecito esprimersi, di tutte le fibre dell’animo suo; uno stupore, una meraviglia, di sè, degli altri, di tutto, come sarebbe quella di un uomo che addormentatosi tranquillamente nel proprio letto, si risvegliasse d’improvviso sull’ultima vetta dell’Imalaia, o all’estremo confine delle sabbie del Sahara. Questi dolori sogliono condurre per mano la pazzia a destra, a manca l’abbrutimento: la rassegnazione sta in mezzo talvolta..... ma è una rassegnazione forse meno invidiabile dell’abbrutimento e della pazzia.

Guardata faccia a faccia la via del dovere, l’angusta via del dovere, come la chiama il poeta, quella che lo separava per sempre da Jenny, il giovane De Emma non trovò il coraggio di batterla che esagerandone le scabrosità, moltiplicandone le spine, tenendo a bella posta aperte e sanguinolenti le piaghe che gli rallentavano il cammino.

Il suo dolore a poco a poco andava trasformandosi in voluttà. Come il viaggiatore del deserto, sorpreso dalla notte, poichè ha acceso un gran fuoco onde tener lontane le bestie feroci, per paura di addormentarsi si abbrucia un dito, e come appena lo spasimo è cessato, lo riabbruccia, e così continua finchè l’alba tropicale non spunti in suo aiuto; così il signor De Emma cercava la propria salvezza, e, povero illuso, credeva trovarla, martirizzandosi nella fiamma fatale di quell’amore; nè si accorgeva che in tal modo, lungi dall’allontanarli si riscaldava e rinvigoriva ogni sorta di mostri nel cuore.

Ragionava, sillogizzava sulla sua passione; ciò che è terribile. Si arrestava, avvolto in certi pensieri che, se altri avesse potuto leggergli dentro all’involucro cerebrale avrebbero fatto dubitare della sua ragione.

Continuava, ma macchinalmente, gli studi di medicina; il resto del tempo impiegava (oh dov’era l’uomo serio d’una volta!) rileggendo e meditando le istorie innumeri degli amori e degli amanti infelici.

Con esse cominciò ad insinuarsegli nell’animo il veleno che dalle pagine sublimi del Werther e dell’Ortis si era versato in tutta la letteratura dell’epoca.

La sirena del suicidio venne a cantargli nell’animo le sue terribili ed affascinanti canzoni. Accade in questi rabbuiamenti del senso morale come nell’orgie: il ritornello vi trascina.

E il giovine De Emma si trovò una brutta notte a ripeterlo colla passiva incoscienza dell’uomo soggiogato da una fissazione sopra il parapetto del Tamigi.

Pioveva una belletta negra, figlia dei nembi e della caligine delle officine. L’acqua del fiume correva densa, scura, con dei vaghi riflessi plumbei. Scena atta veramente a disgustare del mondo.

Egli diceva fra sè, con tutta calma, che non c’era ragione di rimanervi.

Ma s’ingannava: per sua buona sorte, la ragione ci fu e tale da riconciliarlo perfettamente con la vita.

A sua destra, lontano una cinquantina di passi, le finestre illuminate di una palazzina gettavano sulla superficie liscia, oleosa del Tamigi i suoi riflessi simili a pezzi di tela sudicia.

Subitamente gli colpì l’occhio di sbieco qualcosa di bianco che scendeva tuffarsi là dentro. E, fra lo scroscio sordo e pigro dell’onda e il rombo cupo delle macchine che rantolavano la loro veglia, distinse un tonfo leggiero.

Non ci avrebbe posto mente (aveva ben altro per il capo) se non ne fosse seguito una specie di tumulto nella casa vicina. Si gridava aiuto, accorreva gente con delle lanterne, si staccavano delle barche.

Si mosse istintivamente e discese anch’egli alla riva.

Sul fiume era cominciata la ricerca; tre barche in crocchio scendevano la corrente e, in mezzo ad esse, qualcuno gettavasi a nuoto e tuffavasi: a brevi intervalli, quando veniva a galla, i barcaiuoli gli gettavano dei monosillabi di consiglio, di avvertimento.— Si trattava certo di qualcuno caduto nel fiume.

De Emma, in mezzo alla folla raccolta sulla sponda, guardava, aspettava con grande ansietà: avrebbe voluto essere dalla partita di salvataggio.

Cosa strana; il sentimento della vita spento dal tedio della propria esistenza, rinasceva in lui dalla compassione per quell’infelice.

Finalmente una esclamazione venne dal fiume ad annunziare il successo dell’impresa.

Una barca si staccò innanzi alle altre e si avvicinò rapidamente alla riva. Recava il corpo inanimato di una donna.

I barcaiuoli la portarono in una casupola vicina. e chiusero i battenti dell’uscio in faccia alla curiosità invadente della folla.

Dopo qualche minuto, un finestrello s’aperse; una voce gridò:

— Un medico!...

— Eccolo, rispose De Emma, che era rimasto là in mezzo.

L’uscio si riaperse e fu introdotto nella camera.

La donna distesa sopra un mucchio di reti non s’era punto riavuta. Egli si assicurò che il cuore le batteva fievolmente.

Era giovane e bellissima: indossava una splendida veste di raso bianco e aveva un stupendo monile di brillanti al collo.

Quella brava gente aveva esaurito senza frutto tutti i soliti mezzi empirici per richiamarla alla vita.

De Emma si curvò e, posate le proprie labbra sulle sue, con quanta forza aveva nei polmoni inspirò a più riprese nel petto della giovane.

Dopo un quarto d’ora un debol soffio indicò che le funzioni respiratorie si rianimavano.

Due o tre curiosi erano riusciti a penetrare in casa col dottore; mentre egli era curvo intento all’operazione sporgevano il capo sopra le sue spalle per vedere.

Uno di essi, un vetturale della vicina stazione, sclamò:

— Tò la ballerina della palazzina verde. Qualcun altro confermò le sue parole. De Emma domandò:

— Sta qui vicino?

— A due passi.

Il luogo non era adatto alle cure necessarie nella crisi che stava per dichiararsi. Per suo ordine i barcaiuoli la presero e la trasportarono in casa sua.

Colà nessuno s’era accorto della sua assenza; un servitore che dormiva in anticamera si alzò in soprassalto e, tutto sbalordito, li guidò nella camera della signora.

Attraversando l’appartamento la triste comitiva si imbattè nel finale di un banchetto d’uomini. Nella sala da pranzo dormicchiavano distesi nella posa di volgari ubbriaconi lords e gentlemens dei più noti del gran mondo.

I meno cotti, all’inatteso spettacolo, pensando si trattasse di una burletta di quella matta di Rosilde, che quella sera li aveva invitati, come diceva il biglietto «all’ultima cena» levarono alte risa e batterono le mani; e afferrato un candeliere fecero scorta recitando le preci dei defunti.

Figuratevi come rimanessero quando si accorsero che la cosa era pur troppo seria.

Due, che giocavano in un salotto attiguo, assorti nella loro partita non intesero e non videro nulla: nel silenzioso stupore di quel momento si sentivano distintamente le loro irose osservazioni.

Un reporter di un giornale del mattino scarabocchiava in un boudoir il suo cenno descrittivo. Fu il solo ad afferrar subito il vero: ma, avvezzo per professione a non meravigliarsi di nulla, seguì colla matita sulle labbra il convoglio, ne osservò i particolari, assunse a bassa voce minute osservazioni e tornò tranquillamente a terminare l’articolo, felice di potere nella chiusa impreveduta di esso regalare ai suoi lettori una ghiotta primizia.

Il dottore riuscì non senza stento a congedare tutta quella marmaglia in giubba nera e non permise di rimanere che al barcaiuolo che avea pescata la giovinetta, Dopo un’ora di sforzi Rosilde cominciò davvero a riaversi. Aprì gli occhi, e al ritrovarsi nella sua camera, fe’ una smorfia di disgusto.

Volle sapere come c’era tornata e bisognò contentarla.

Quando il signor De Emma ebbe terminata la sua breve relazione, lei si tolse dal collo il monile di brillanti e porgendolo al barcaiuolo:

— Prendi, spetta a te; io l’avevo portato per chi avesse ripescato il mio cadavere. Tu mi hai servita un po’ troppo sollecitamente, — ma non importa, la colpa è dello stupido mio destino.

— Quanto a voi, disse poi al dottore, non vi date troppo fastidio, il miglior servizio è lasciarmi finir presto.

De Emma, nella sua passione di medico, non si sgomentò per questo.

Non vide in lei che un organismo da conservare a dispetto della sua volontà e prese a cuore il suo compito.

Per parecchie settimane fu una guerra continua fra il medico e l’inferma. Egli faceva valorosamente il suo assedio, ed ella, benchè soggiogata da quel fermo proposito, si schermiva con delle segrete astuzie, con delle resistenze dissimulate.

Però la crisi fu più lunga di quello che il dottore si riprometteva: quando credeva d’averla vinta scoprì d’aver di fronte un nemico formidabile. La Rosilde era affetta da un serio male di cuore che il suo tentativo di suicidio aveva aggravato. Era questa la causa della sua disperata risoluzione; la disperazione di guarire l’aveva buttata nelle braccia della morte per finirla colle ansie, colle terribili delusioni di una lenta consunzione, che pareva inevitabile.

Quel giorno Rosilde gli gettò come una sfida queste dure parole:

— Per far tanto armeggio bisognerebbe almeno sapermi rifare questo ordigno guasto. E picchiava coll’indice sul suo seno ansimante per l’asma, eh! che ne dite, patria?

— Lo spero, rispose gravemente il De Emma con una sicurezza che non era punto una simulazione.

— Davvero? ebbene proviamo.

Da quel giorno fu di una docilità assoluta. Ella amava la vita.

Il romanzo della ballerina del Covent-Garden, rivestito di tutte le grazie letterarie dei giornali, corredata delle ipotesi e delle spiegazioni con cui si fabbrica il mistero, menò grandissimo rumore. Tutti gli amici vennero a trovarla; molte notabilità vollero esserle presentate: ella fu per due mesi grandemente alla moda. Malgrado il divieto del medico, per due ore il giorno si teneva nella stanza di lei una sceltissima conversazione.

Un po’ la nuova speranza, un po’ la cura del De Emma cominciavano a trionfare del male. La giovinetta rifioriva. Quelli che sapevano della sua malattia dichiarata incurabile da due celebrità mediche del paese ne facevano le meraviglie.

Quando essi la complimentavano della sua guarigione, essa rispondeva:

— Non so nulla io, è tutto merito del mio genio taciturno.

Voleva dire il De Emma.

Nessuno l’aveva mai veduto.

Qualche volta egli veniva mentre c’era gente; e la Rosilde s’alzava per ricevere il «genio»; di solito rientrando congedava seria seria la compagnia.

Si cominciò a scherzare del misterioso personaggio: poi ad esserne curiosi.

Il baronetto Mac Snagley aveva un fratello che soffriva di cuore: pregò Rosilde di presentargli il suo medico.

De Emma ebbe la sorte di guarire il giovinetto Arturo Snagley, idolo della famiglia.

La sua riputazione si estese nella alta società di Londra.

Parecchie altre cure felici finirono per metterlo in voga.

La sua non era soltanto fortuna. Per il primo aveva indovinato, allora al tempo delle cliniche dirette e operative, l’importanza dell’igiene nella cura delle lente alterazioni organiche: non violentava il male, aiutava indirettamente la natura a correggerlo, a sopprimerlo.

La novità del suo metodo, la gradevole facilità di eseguirlo aggiungevano attrattiva alla sua assistenza.

Quando venne la primavera Rosilde per suo consiglio affittò un grazioso villino dalle parti di Brighton.

L’aria aperta, la quiete della vita campestre compierono la sua guarigione.

De Emma le rare volte che fu colà a visitarla si confermò nella certezza di avere rimosso definitivamente ogni minaccia del male. Gli istinti della sua prima giovinezza avevano ripreso il dominio della sua vita, Ella ritornava la gaia fanciulla di Castelletto. Aveva stretto relazione con la moglie del ministro e l’accompagnava nelle sue visite di beneficenza per le capanne dei contadini. Qualche volta ne invidiava ad alta voce gli uffici. I suoi sentimenti di donna e di campagnuola vi avrebbero trovato intera soddisfazione.

Ella e De Emma si dovevano scambievolmente la vita. In lui i tristi fantasimi del suicidio eransi dissipati dinnanzi all’amore rinato della scienza e alla fiducia in sè stesso, — a ciò venne dopo qualche mese ad aggiungersi un alleato anche più poderoso.

Una mattina di estate, all’ora in cui il dottore era solito ricevere in casa, il servo introdusse un signore nel quale il dottore ravvisò non senza meraviglia il signor Hutley, il padre di Jenny.

Costui gli tenne questo strano discorso:

— Voi siete un orgoglioso: avete lasciata la mia casa dove tutti vi volevano bene; ora io vengo umilmente a pregarvi di ritornare. Zitto, non ricusate, vi scongiuro; mia figlia è malata; voi siete medico, guaritela.

Nessuno seppe mai bene come terminasse questo colloquio; pare che i due si trovassero nelle braccia l’un dell’altro. La stessa scena dovette ripetersi la sera in casa del signor Hutley e c’era presente una giovanetta un po’ pallida che singhiozzava di gioia.

Il dottore De Emma sposò poco dopo la sua Jenny; e partì con essa per un viaggio sul continente.

Ma, come dicono i contadini, il Signore non vuole nessuno contento. Furono richiamati tosto a Londra dalla triste notizia che Hutley era stato colpito da una apoplessia. Gli sposi tornarono appena in tempo di ricevere la sua benedizione.

Dopo la morte del padre, Jenny fu colta da una così profonda malinconia che il marito pensò a levarla dai luoghi che le rammentavano troppo vivamente la disgrazia. E Jenny accettò con viva riconoscenza la proposta di venire in Italia.

Il dottore aveva ereditato in Lomellina da un lontano parente una vistosa tenuta: e poichè egli poco ambizioso, tutto assorto negli studi scientifici poco ci teneva alla sua clientela risolvettero di fissare la loro dimora a Zugliano, dove avevano passati i momenti più lieti del loro viaggio di nozze.

Frattanto De Emma aveva, se non dimenticata, almeno perduta di vista la Rosilde.

Solo aveva risaputo ch’ell’era tornata verso il fine dell’estate a Londra ed era risalita sul palcoscenico.

Egli si proponeva di recarsi a salutarla prima di lasciar l’Inghilterra ma preoccupato dei preparativi della partenza rimandava di giorno in giorno la visita.

Una mattina, era pressapoco l’anno da quella sera lugubre del loro primo incontro, ricevette l’invito dì passare da lei.

La poveretta era ricaduta malata: l’aria pesante di Londra e gli strapazzi del palcoscenico avevano risvegliate le sue sofferenze di cuore.

Il dottor De Emma ebbe rimorso di abbandonare così colei che era la causa di ogni sua fortuna, e si trattenne tutto quell’inverno.

Anche allora egli riuscì a scongiurare la crisi minacciata.

Le sue cure vinsero la violenza del male. Verso il fine di febbraio Rosilde tornò a stare meglio, ma era tanto debole stavolta, tanto sfinita che la convalescenza progrediva molto stentatamente.

La rigidezza dei clima la teneva in continue oscillazioni. Il dottore pensava con viva inquietudine ai venti e alle pioggie del marzo imminente. Una settimana di tempesta poteva uccidere l’Inferma.

Allora egli suggerì il ritorno in Italia. Rosilde non disse nè sì nè no, ma non si decideva mai.

Il dottore indovinò il segreto motivo della sua esitanza, Ella non aveva più parenti all’infuori di Mansueta che stava a servire dal curato di Sulzena: la malattia aveva esauriti quasi interamente i suoi risparmi. In Italia come e dove avrebbe vissuto?

Il dottore ne parlò a Jenny, le ricordò le obbligazioni ch’egli aveva alla Rosilde, gli confidò il suo stato e la pregò di trovar modo di aiutarla.

La giovine sposa, buonissimo cuore, interpretò rettamente e liberalmente il suo desiderio. Si recò essa stessa dall’inferma e tanto fece e tanto disse che l’indusse a seguirli in Italia.

Per qualche mese le cose andarono a meraviglia, l’accordo delle due giovani pareva perfetto; quando Rosilde parlava di partire i signori De Emma le davano sulla voce, ed ella messi da parte i pensieri dell’avvenire accettava con gioia la generosa ospitalità.

Ma, dicono i montanari, due galli in un pollaio, due donne in una casa non fanno il paio.

Il sereno non tardò ad intorbidarsi.

Colla salute rinverdiva la mirabile bellezza di Rosilde; la sua fisionomia vivace, espressiva, gareggiava vittoriosamente colla figura forse un po’ tranquilla di Jenny. Tutti ne parlavano in Zugliano e nei dintorni; facevano dei confronti, aggiungevano delle supposizioni che appunto per il loro carattere di maldicenza trovavano larga e pronta accoglienza.

Qualche ciarla cominciò a salire fino all’orecchio della signora De Emma. Ella cominciò a dubitare, poi a sospettare.

Il sospetto è un miraggio che ha l’aria di una rivelazione. Tutte le cose pigliano attraverso a quello un’apparenza menzognera che, per disgrazia, è più verosimile del vero, s’incontrano in una logica più stretta perchè più artifiziale della realtà.

La effusione tutta italiana con cui Rosilde manifestava al dottore la propria riconoscenza, parve a Jenny, più contegnosa, l’espressione di un sentimento più caldo e meno lodevole.

Essa vide in lei non già una rivale, ma una minaccia al suo avvenire, alla tranquillità della casa; e la sua amicizia per Rosilde al soffio gelato della gelosia inaridì.

Tuttavia non trascese in volgari ostilità: dissimulò nobilmente il suo sospetto, il suo timore, tutto, fuorchè una cosa, la sua freddezza. Ma questa bastò a Rosilde per indovinare tutto il resto.

La triste scoverta la fe’ pensare ai suoi casi, alla precaria sua condizione, all’incerto avvenire, ma sovr’ogni altra cosa all’umiliazione di essere a carico de’ suoi ospiti. A tutta prima ella, come poi confessò al dottore, ebbe un accesso di odio per colei che coi suoi sospetti veniva a turbar la sua quiete: ma si persuase poi che la signora De Emma aveva ragione. Rosilde era innocente: aveva invidiata la felicità della casa in cui era stata raccolta ma l’aveva rispettata: non mai il suo cuore erasi aperto a delittuosi desideri. Voleva bene al dottore come ad un amico, ad un fratello maggiore com’egli si mostrava con lei: i loro caratteri entrambi risoluti, franchi, fieri non eran fatti per amarsi diversamente. L’amicizia si contenta spesso della somiglianza, l’amore esige quasi sempre l’antitesi dei caratteri; cerca l’armonia nelle differenze. Per invaghire un’indole così vivace e quasi virile come quella di Rosilde ci voleva un animo più tenero, più pieghevole, direi quasi più femmineo.

Ella deliberò di lasciare senz’indugio la casa De Emma e annunzio a tavola il suo divisamento senza preamboli, senza mezze confidenze, senza misteriose titubanze a tutti due i suoi ospiti insieme: disse che Mansueta l’aveva invitata a passare qualche tempo con lei e che intendeva recarsi a Sulzena l’indomani,— così senz’altro. Poi, con singolare tristezza, sorridendo, mutò discorso risparmiando al dottore l’imprudente ingenuità di farle delle preghiore e alla signora l’impaccio di nascondere la sua soddisfazione. Con lei si mostrò gentilissima, serena, volendo dissipare in lei persino l’ombra del dubbio. Questa fu la sua vendetta. Jenny ne fu commossa, Nel congedarla il giorno dopo non potè esimersi dal dirle: — tornerete?

Rosilde le rispose: — A salutarvi. Molto probabilmente io lascierò di nuovo l’Italia. E le strinse la mano perfettamente tranquilla.

Il dottore s’era accorto all’ultimo delle inquietudini della moglie e, contentissimo di essere liberato da una posizione molesta, si guardò bene dal rattizzarla con delle imprudenze. Riconoscente di tutto cuore a Rosilde della sua discrezione, finchè ella rimase a Sulzena, non cercò una volta sola di vederla.

La ritrovò una sera per caso in quelle circostanze strane descrittemi dallo speziale.

La povera giovine sorpresa nel proprio segreto gli contò allora la sua vita degli ultimi mesi, un romanzo di trista e funesta dolcezza. L’infelice s’era lusingata di tradurre in pratica il suo sogno di Brighton.

La quiete del Presbitero l’aveva sedotta, ammaliata il carattere timido, pensieroso e malinconico di Don Luigi, allora giovane di aspetto e di forze malgrado i suoi quarant’anni sonati.

Per certe donne l’amore non è che una forma più squisita della compassione: danno il loro cuore per un sentimento affine a quello per cui si farebbero suore di carità.

Rosilde era di questi caratteri che pensano sempre agli altri e mai a sè stessi, che si guardano ansiosi intorno per trovare se c’è persona da soccorrere, da consolare e si feriscono spesso a morte per risanare il primo capitato da una scalfittura.

La triste solitudine di quest’uomo così buono, così degno d’affetto la commosse.

Ella non dava per sè stessa una grande importanza alle passioni amorose, ma come la madama Warens di Rousseau, e come la maggior parte delle donne, credeva che gli uomini non potessero farne senza, e veramente gli uomini che ella aveva incontrati, il mondo corrotto in cui aveva vissuto non potevano darle una più retta opinione.

Perciò le pareva di scorgere nella vita di don Luigi un vuoto doloroso.

Ella, così pronta a sacrificarsi senza chiedere ricambio, non capiva che si potesse fare di un’idea, di un sentimento soprannaturale l’interesse massimo della vita. Gli è che il suo cuore arrivava molto più in alto della sua mente incolta.

Quando ella, nascosta dietro le stecche delle persiane o fra i cespugli del giardino, vedeva don Luigi appoggiarsi meditabondo al muricciuolo dell’orto, e là rimanere immobile per dell’ore colla fronte corrugata, gli occhi fissi alle cascatelle del torrente: poi levarsi repentinamente e passeggiare e poi fermarsi di botto e riprendere a camminare a passi ineguali, — ella s’immaginava che fossero le torture di un’indole passionata costretta a ripiegarsi dentro di sè.

Ella non aveva torto interamente. La gioventù, ingagliardita dal lungo ritegno, tentava allora l’ultima e più formidabile ribellione contro le rigidezze del povero prete, mascherando i suoi assalti con quel misticismo, — potente e fuorviata sensualità delle indoli caste, — il quale penetra l’umana natura nelle sue più intime fibre, e la colpisce nell’arcano principio onde si congiunge l’elemento morale colla materia.

Don Luigi attraversava quella crisi in cui il senso aggredisce la volontà violentemente, all’improvviso senza più avvertirla colle tentazioni, — e riesce spesso a sopraffarla.

Egli andava inconsciamente contro il pericolo, dissimulato dai sintomi più diversi e più lontani.

Sentiva un grande distacco dalle cose terrene, una stanchezza scevra di desideri, — eppure egli non era mai stato così debole di fronte ai piaceri mondani: non li temeva, perciò non stava in guardia.

Così è, quando il vapore aderge troppo alto si scioglie e precipita nel rigagnolo.

Qualche volta Rosilde sbucava fuori dal suo nascondiglio e andava raccogliendo fiori, camminando dall’una all’altra aiuola queta e silenziosa, come le premesse di non frastornar le sue meditazioni.

Egli non tardava a scorgerla. Non l’evitava punto; la seguiva placidamente cogli occhi; guardava la sua manina bianca passar coll’agilità di una farfalla dall’uno all’altro cespo fiorito a farvi la sua preda, senza neppur farne cadere una stilla della rugiada che ne imperlava le fronde.

Di solito se le accostava lentamente, e, mentre essa componeva ghirlande e mazzolini per l’altare, avviava con lei, senza sforzo, la conversazione.

Parlavano dei fiori, del paese, ma nei discorsi più indifferenti trapelava l’alto pensiero di lui, il sentimento vivace di lei.

Così poco alla volta, quel loro mattutino colloquio divenne una necessità della loro vita. Rosilde non mancò più di farsi trovare in giardino; e Don Luigi ci si recava dopo la messa inconsciamente per una abitudine che non gli costava nulla e gli era molto più cara che non credesse.

Rosilde era uno di quegli eccezionali temperamenti di donna che, per la loro ventura, il poeta e il filosofo, — questi ossessi dell’idea e dell’immagine, — dovrebbero trovare sempre sull’aspro cammino della loro vita cogitabonda. Indoli fatte per riconoscerne, per ammirarne più che per capirne la superiorità. per tollerarne con pietosa e quasi inconscia abnegazione le debolezze, vigilanti alla felicità dell’uomo distratto dalle alte cure, pazienti ad attenderlo, sollecite ad aggiungere olio alla lampada della loro devozione come le vergini dell’evangelo.

Nei primi giorni che ella passò al presbiterio malata, sfinita di cuore e di forze ella non vedeva Don Luigi che molto raramente; ma sentiva intorno a sè, in tutte le cose, la carità benefica delle sue premure, la sua pietà nobile, generosa, schiva di mostrarsi.

Ad ogni momento Mansueta le usava qualche riguardo, qualche nuova cortesia, — e sempre ne attribuiva il merito al padrone: — don Luigi così ha detto, don Luigi ha pensato, don Luigi ti manda questo e quest’altro.

Ell’erasi così bene avvezza alle dolcezze di quella casa che il pensiero d’uscirne la sgomentava tutta. Però quando, convalescente, ella venne a ringraziar don Luigi, comprendendo che per discrezione dovea prendere finalmente congedo, tremava e i suoi occhi erano assai più fecondi di lagrime che le sue labbra di parole. Ma il buon prete alle prime parole di riconoscenza la interruppe; il suo viso pallido arrossì subitamente dalla commozione, e scotendole la mano:

— Che dite mai, che dite mai.... un piacere, un dovere....

Rosilde ebbe la soave, intima certezza che la sua presenza colà non era molesta, e non finì il discorsetto preparato e incominciato.

Don Luigi aveva soggiunto:

— Che volete, siete capitata in un eremo, e in un brutto mese; ma ora viene la bella stagione e vi ci troverete molto meglio: non manca in questa solitudine una certa selvaggia bellezza: vedrete dei luoghi di una singolare amenità.

La giovinetta accolse queste parole con un sorriso di gratitudine, come la più cortese maniera d’invitarla a rimanere. Ma forse il sentimento che le inspirava era ancora più nobile.

Ho dovuto convincermi per esperienza che don Luigi non pensava mai alla partenza dei suoi ospiti. La loro domanda di congedo era sempre per lui una sorpresa che, secondo i casi, combatteva con una viva e affettuosa resistenza, o, come nel caso mio, subiva come una triste necessità.

Ella rimase dunque. Ispirata dalla calda sua riconoscenza, dalla indipendenza del suo carattere e della sua educazione bizzarra, si convinse che non solo era di troppo, ma poteva recare qualche conforto a quella malinconica vita di anacoreta, Ed aveva istintivamente abbracciato, prima che compresa la sua missione: — umile e sublime missione!

Il suo mestiere l’aveva avvezza a riguardare sè stessa come un giocattolo: come uno svago, — ed ora, dopo aver rallegrato colle sue danze le noie di tanti oziosi e buoni a nulla, le pareva di nobilitarsi col fare omaggio di sè stessa a un uomo di merito e di cuore, ad uno che l’aveva ospitata, che le aveva usato riguardo senza esservi spinto nè dalla concupiscenza nè dalla vanità.

Però fu con viva gioia ch’ella si accorse d’essergli cara.

Ciò bastava al suo orgoglio e non aveva la pretesa nè di dare, nè di ottenerne amore. Era troppo modesta per questo.

Certo ella non scandagliava troppo in fondo i proprii sentimenti, non notomizzava con analisi soverchiamente rigorosa l’effetto che produceva nel suo cuore lo sguardo affettuosamente grave di don Luigi, il suo viso allora giovanile e incorniciato da ricche ciocche ricciute di capelli nerissimi.

Ella ci teneva a non farsi illusioni, — e forse questa sua modesta smania di realtà era la più grande, la più generosa delle illusioni.

Però ella non la smentì mai neppure con sè stessa; se i desideri, i timidi suggerimenti del suo cuore si levarono alla fine contro di essa per dissiparla, — ella seppe vincerli, frenarli, farli tacere.

Ella non pensò mai a calcolar sull’avvenire di lui e del presente non prese mai che le ore di riposo: e quando si avvide che ella poteva influire sul suo destino, nuocergli, ebbe il coraggio di....

Ma non precipitiamo gli avvenimenti.

Rosilde e don Luigi si vedevano dunque regolarmente tutte le mattine.

A quell’ora, dopo la messa prima, si faceva nel Presbiterio e nel villaggio una gran pace. Il campanile dopo aver confidato agli echi della montagna i suoi squilli di benedizione taceva. Baccio, svestito, coll’abito di sacrestia, il sacro carattere delle sue funzioni, usciva in campagna con tutta la sua famiglia. Mansueta attendeva al governo del suo pollaio: governo assoluto, personale, faccenda di colossale importanza.

Essi rimanevano soli in mezzo alla vasta e gioconda quiete mattinale. Era giunta la primavera. L’aria olezzava di primolette e di viole. Nei campicelli scaglionati sui clivi, una verzura pallida annunziava colla lirica verginale delle sue tinte delicate l’epopea splendida delle spighe d’oro.

In tanta gloria di cielo, in tanta serenità di paesaggio, i loro colloqui erano tutti tranquilli e lieti.

Quantunque Rosilde avesse per don Luigi un grande rispetto, l’umiltà vera di lui, la sua repugnanza per ogni apparato. per ogni posa anche la più legittima della sua dignità, davano alla conversazione un tono perfetto di uguaglianza. Schivo di tutte le affettazioni, egli non la chiamava mai figliola e, neppure sorella, diceva senz’altro Rosilde.

Egli, come io stesso ne feci la prova molti anni di poi, era anzi istintivamente disposto a riconoscere una certa superiorità nella gente che avesse vissuto nella città. L’attrattiva del mondo era allora anche più possente sulla fantasia dell’anacoreta. Riguardava con uno sgomento d’ammirazione quella debole giovinetta che aveva da sola attraversata quella vita che gli ascetici suoi maestri gli avevano paurosamente descritta come un vortice divoratore.

Era una delizia inenarrabile il sentirla parlare dei suoi viaggi e Rosilde, vedendo che ciò lo divertiva, gliene parlava sovente.

Poco alla volta il racconto della sua vita teatrale venne a frammischiarsi ai discorsi placidi dei primi giorni, e ad interromperli sovente.

Don Luigi, affascinato, si dimenticava; si avvezzava senza volerlo, senza accorgersene, a carezzare col pensiero, sulla fronte bianca, sulle treccie bionde, sulle labbra rosee della bella narratrice, le malie, gl’incanti ch’ella gli suscitava colle sue parole dinanzi alla mente. Se qualche volta, sopraffatto dalle immagini lusinghiere, chiudeva gli occhi, riaprendoli trovava dinanzi a sè il sorriso sereno, soave di Rosilde. E, infine, sorrideva egli stesso, — e, in quel momento di debolezza, egli era vinto; il suo cuore, colto alla sprovveduta, cedeva al fascino di quella bontà e di quella bellezza, Nè l’uno nè l’altro aveva pronunziato mai la parola fatale; eppure l’idillio era incominciato:— e la passione per un sentiero sparso di fiori, molle di muschi trascinava la loro innocenza nei suoi abissi profondi.

Oh se i loro cuori avessero conosciuto le cose per il loro vero nome: se l’amore non si fosse celato per lei sotto le sembianze della devozione, e per lui sotto quelle più candide dell’amicizia, nulla sarebbe accaduto.

Se don Luigi avesse dovuto lottare, o anche solo formulare un’aspirazione, un desiderio... egli avrebbe arretrato impaurito; la sua volontà allarmata avrebbe vinto. Ma nulla di tutto questo. Ella offriva. egli non aveva che a chinarsi per accettare.


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