< Memorie del presbiterio
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XXVII XXIX

XXVIII.


A questo passo il mio amico ed io ci guardammo l’un l’altro ad un tempo e un sentimento di incredulità e di sorpresa dovette trasparire dai muti volti, poichè il dottore soggiunse con maggior calore:

— È strano; ma è così. Vorrei trasfondere in voi la metà della convinzione profonda che il racconto di Rosilde mi ha dato. Vorrei riprodurre un’ombra di quella sua eloquenza che un affetto senza limiti le ispirava. Ella, la poveretta, sapeva confessare la sua colpa e giustificare nello stesso tempo Don Luigi. Dimenticava il proprio pudore per difendere il suo e ci riusciva. Mi narrava minutamente tutte le soavi e tristi scene del suo amore per farne risaltare la innocenza, la purezza sopraffatta ma non vinta di lui. Ella aveva avvertito gli ostacoli che le condizioni, i pregiudizi del mondo, gli anatemi della religione metteva fra loro due: ella s’era tolto il compito di spezzarli da sola; di sfidare ella sola il biasimo, le convenzioni, di commettere da sola il sacrilegio, se sacrilegio c’era: — insomma poichè l’amore doveva costare una colpa — ella volle prendere su sè stessa la colpa — dargli l’amore, — prevenendo la sua coscienza, aveva creduto evitargliene i rimorsi. — Io vi dico che quello era un gran cuore, e che il suo era un errore sublime.

Il signor De Emma pronunziò queste parole con forza e ci guardava colla sicurezza di chi intende d’essere creduto— e noi due chinammo assenzienti la fronte.

Il dottore ripigliò:

— Il suo era l’amore meno l’egoismo — L’idillio progrediva rapidamente. Tuttavia finchè non usci dalla cornice di austera realtà del presbiterio, esso rimase sempre così sereno ed innocente. Don Luigi non sarebbe mai venuto meno alla severa illibatezza del suo costume là all’ombra del suo campanile, accanto al suo altare, dove tutto gli rammentava i doveri che la sua coscienza gli rappresentava inviolabili.

Del resto egli non desiderava o non sapeva di desiderare; le gravi occupazioni che venivano ad interromperlo lo premunivano contro gli eccessivi abbandoni.

Ma egli usava passare qualche ora del pomeriggio nella solitudine tanto cara della Carbonaia che forse voi conoscete. E Rosilde cominciò a seguirlo colassù. Egli non fu sorpreso di trovarla in quel soave rifugio dove egli dava da quindici anni convegno ai sogni della sua gioventù; e si abbandonava alle vaghe carezze della fantasia. La fantasia fu la galeotta. Egli non seppe mai bene ciò che gli accadesse colà. La realtà si perdette nei limbi profondi di un misticismo inebbriante. Il pietoso inganno per cui la povera Rosilde fe’ sagrificio di tutta sè stessa, non sarebbe mai svanito se non erano gli sciagurati avvenimenti di questi giorni.

I loro ritrovi, liberi di ogni estraneo ritegno, presero una intonazione assai più ardente. Quando Rosilde arrivava per sentieri remoti e veniva a sedersi presso di lui, spesso chinava il bel capo sulle sue ginocchia e passavano delle ore in silenzio, oppure ella narrava del teatro, gli raccontava le favole da lei eseguite. Una fra l’altre aveva la preferenza. Quella del poema di Guarini, che era stata la sorgente del suo primo successo a Venezia. Ella si godeva di ripeterne le scene gentili: di fingersi Silvia e chiamare Aminta il suo compagno.

La funesta fantasia la sedusse al punto che un giorno tirato fuori dal suo baule il costume in cui aveva sostenuta la parte della ninfa— ella lo teneva sempre come ricordo— lo recò alla Carbonaia prima dell’ora del ritrovo, e indossatolo quando Luigi venne a sedersi sotto le querele centenarie, ella sfilò in mezzo alle macchie, e gli si presentò in quella foggia, col gonnellino azzurro, i biondi capelli intrecciati di rose bianche e coperti di un lungo velo sottilissimo, bella, affascinante, smagliante di amore.

Al povero uomo parve una visione, egli cadde sbalordito, delirante ai suoi piedi.

Da quel giorno essi non vissero più su questa terra.

In casa non si incontravano quasi più: Rosilde, per convenienza non erasi mai seduta alla mensa del presbiterio. Ella evitava con cura di lasciarsi trovare in giardino: temeva i confronti, voleva che la sua gioia fosse fuori della vita, lontana dal reale, immensa, senza limiti. E tal fu per due mesi, in cui il povero Luigi spesse volte si sentì venire meno dinanzi all’altare e visse come rapito in un sogno. Egli non viveva più veramente che alla Carbonaia, dove dimenticava la vita, dove obblioso del suo cielo muto, impassibile egli trova un paradiso di delizie ardenti.

La povera Rosilde fu la prima a risvegliarsi — e pur troppo toccò a me il tristo ufficio di richiamarla alla triste realtà.

Un giorno ch’io mi recavo al Fontanile la incontrai per istrada: dapprima parve volesse cansarmi, — ma poi mi venne incontro ella stessa e mi accompagnò per un buon tratto. Le chiesi della sua salute con premura.

— Benissimo, rispose, ma impallidì un poco.

L’esaminai attentamente, le feci qualche altra interrogazione.

Sembrava avesse a dirmi qualcosa e non ardisse.

Allora presi il suo polso fra le mie mani, la costrinsi con delle violenze a levare la fronte, le fissai uno sguardo penetrante negli occhi. Una febbriciuola le serpeggiava per le vene: le sue palpebre avevano dei toni lividi.

Il mio sospetto si mutò in certezza.

— Povera amica mia, sclamai con accento di dolore e di sorpresa.

Ella capì, diventò smorta come fosse di cera e mormorò:

— Lo sapevo...

Mi parve intravvedere nel tono della sua voce subitamente risoluta, una così profonda disperazione che mi sgomentai e per un pezzo non seppi trovar parola.

Ma quando ella mi porse la mano per congedarsi le dissi con tutto il calor dell’amicizia ch’io avevo per lei:

— Rosilde, badate ad avervi cura... promettetemi di aver confidenza in me. Qualunque cosa vi occorra — ricordatevi del vostro amico. — Io ripasserò a prender vostre nuove.

Chinò il capo distrattamente e ritornò indietro frettolosa.

Due giorni dopo ripassai da Sulzena e chiesi di lei: era sparita.

Ma prima che la settimana finisse una sera per un caso stranissimo, fui dal sospetto di un tentativo funesto condotto in una casupola del sobborgo qui di Zugliano e vi ritrovai Rosilde.

Ella s’era posta nelle mani di un’empirica per troncare le conseguenze del suo fallo.

La rampognai vivamente. Ella per un po’ stette chiusa, negò, ma le vedevo la triste risoluzione negli occhi.

Mi incollerii e mi lasciai sfuggire qualche parola contro Don Luigi.

Allora, vedendo che io conosceva il suo segreto, mi si buttò piangendo ai piedi, e mi scongiurò di non tradirla, di rispettare la pace dell’uomo per cui ella stava morendo.

— Egli non sa nulla, mi disse torcendosi le mani, non sa nulla..... io sola..... io sola.....

E la piena della emozione le mozzava le parole.

Era angosciata; le chiesi perdono, la levai da terra, cercai di calmarla, di dissipare i suoi timori, di farle coraggio, di prendere con leggerezza la cosa.

— Giuratemi, disse, ch’egli nè altri non saprà mai nulla.

La guardavo sorpreso.

— Ella mi afferrò le mani e mi guardò supplichevole in modo ch’io mi affrettai a prometterle tutto quel che voleva.

Sedette, chinò la testa stanca sul petto ansante e pianse lungamente, angosciosamente.

Mi alzai.

Ella si riscosse, e mi pregò di rimanere.

— Debbo dirvi, soggiunse, com’è stato, voi non dovete sospettare che di me.....

Allora ella mi narrò le deplorevoli vicende che erano seguite dopo il nostro ultimo colloquio sulla strada del Fontanile.

Già da alcuni giorni ella aveva avuto presentimento della disgrazia. Le mie parole le avevano tolto le ultime illusioni.

La buona creatura, al primo affacciarsi della terribile certezza, aveva subito pensato: — che si dirà di lui?

Ella non si inquietava di sè, della sua vita, della sua salute, ma della riputazione di lui — povera martire!

Ella che aveva voluto dargli la gioia, si trovava repentinamente di fronte alla probabilità di nuocergli.

Questo pensiero la disperava. Ella fargli del male? ella rovinarlo? — lo vide colpito dalle dicerie dei malevoli, dallo scandalo, dalle condanne della disciplina ecclesiastica, che si immaginava crudele, implacabile, e disse a sè stessa: — orsù, tu hai fatto il male, e tu devi scontarlo: ma come? Il come si affacciò con una orribile limpidezza alla sua mente: sparire colle prove che accusavano il suo Don Luigi.

— Ella non arretrò: — ebbene, disse colla calma della disperazione, sparirò.

Ma per lei, senza mezzi, in quello stato, sola al mondo, senz’altri parenti che la Mansueta, la quale non doveva saper nulla, lo sparire, equivale a morire. Vide la necessaria conseguenza della risoluzione e l’accettò tutta quanta. Riunì le sue robe migliori e venne a Zugliano, si pose in casa di una lavandaia che aveva conosciuto quando stava qui con noi.

Ella era risoluta di morire— ma non poteva andare lontano, eppoi temette che il suicidio non facesse rumore, e questo ella non voleva per niun conto. Così si apprese al mezzo che mi condusse a scoprire il suo rifugio.

Io cercai di confortarla dicendo che si sarebbe potuto riparar tutto, evitare i sospetti. Ella non vi pensava; ma mi ringraziava e mi scongiurava: — fatelo per lui — egli è innocente... io sola... io sola...

Venni da lei qualche volta nei giorni seguenti, — ma dovevo usare molte precauzioni per non suscitar le ciarle così micidiali della provincia.

E una sera non la trovai più. La donna che l’aveva ospitata mi disse che era andata con un uomo di cui non mi volle dire il nome.

Seppi poco dopo ch’ella viveva quasi matrimonialmente col De Boni in una cascina poco lontana di qui e che non faceva mistero alcuno della sua sciagurata condizione.

A tutta prima questa notizia mi rivoltò contro di lei, e mi ispirò dei giudizi che poveretta non meritava davvero... ma il cuore mi diceva che Rosilde non era la donna volgare che allora sembrava a tutti, che nella sua repentina arrendevolezza ci doveva essere un perchè non ordinario, — mi diceva il cuore che doveva essere qualche nuovo sagrifizio. Diffatti!.....

Io non potevo per diverse ragioni approfondire la cosa: fra l’altre il timore di adombrare il De Boni, così permaloso. Ma circa sette mesi dopo venne egli stesso a cercarmi e mi condusse nella stamberga dove aveva nascosto, come un lupo la sua preda, la povera Rosilde e dov’ella era agonizzante.

Egli mi fe’ visitare la donna e s’informò da me minutamente del suo stato e delle origini di esso. Mi tenni sulle generali — uno sguardo supplice dell’inferma mi aveva messo sull’avviso.

Tornai da solo l’indomani.

Appena mi vide mi trasse vicino e mi disse sommessamente:

— Son sicura che voi non avete detto nulla al De Boni: ma perdonatemi, ho bisogno che me lo promettiate solennemente... egli deve credere quello che voglio io.....

Mi ritrassi vivamente e la guardai con isgomento. Avevo intravveduto il suo disegno. Frode orribile ed ammirabile! La sua abnegazione mi schiacciava; non sapevo se doveva rimproverarla o benedirla. Era una cosa enorme.

Ella aveva trovato sette mesi prima, mentre dimorava dalla lavandaia, il De Boni un giorno che errava forsennata per la campagna cercando con continua e disperata cura una morte certa e completa. L’omaccio l’aveva perseguitata altra volta e qui, quando stava con noi e a Sulzena dove si recava tutte le settimane. Egli aveva per lei una di quelle sue feroci concupiscenze che sapete per il caso della povera Gina. Il luogo era solitario.

Quella bestiaccia si lanciò su lei, le attenagliò il braccio e le disse balbettando:

— Bella ragazza, lasciate ch’io vi faccia un bacio.

Rosilde alzò di terra il suo occhio smarrito e rispose con un’occhiata— un’occhiata aguzza di lince alla sua d’orso furioso.

Un pensiero, tutto un progetto le si era affacciato alla mente ad un tratto. Per sopprimere i sospetti sul fatto di Don Luigi, ella meditava di uccidere sè stessa; ora aveva trovato un mezzo più sicuro; uccidere la sua riputazione. La maldicenza che avrebbe cercato i motivi del sagrifizio, sarebbe indotta nell’inganno dalla finta dissolutezza.

Per questo ella aveva quasi ostentata la sua relazione col De Boni. Chi può sapere quel che l’infelice abbia sofferto in quei mesi! Fissa nel suo divisamento essa non tentennò un minuto: i maltrattamenti dello sciagurato non valsero a smuoverla; anzi servivano di scusa alla sua frode, a darle un acre sapore di vendetta. Ella persistette sino alla fine, fino alla morte... Era riuscita ad acquistare una certa influenza su quella belva; a dominarlo ad intervalli col desiderio. E se ne giovò per strappargli delle confessioni scritte di una paternità supposta. Quando egli andava a Sulzena, gli scriveva fingendo una subita disperazione del suo stato ed esprimendo l’intenzione di sottrarsi alla vergogna di cui mostrava grande paura. Egli, imprudente, che non poteva rassegnarsi a perdere quest’insperata avventura, le rispondeva qualche volta ed ella conservava le lettere.

S’era informata e sapeva che potevano servire come principio di prova legale.

Quando ebbe finito il suo racconto, il sentimento del giusto si sollevò in me.

— Rosilde, amica mia, le dissi con una certa severità, quel che fate non istà bene, e io non posso in coscienza farmi complice vostro.

Il suo viso si contrasse paurosamente, — il pensiero ch’io potessi distruggere l’edifizio con tante pene innalzato, la mise alla disperazione.

Mi guardò cupamente e disse:

— Ebbene io mi ammazzerò e finirò ogni cosa... E alzatasi repentinamente con una vivacità di cui non l’avrei creduta capace, sbattè il capo nel muro due o tre volte prima ch’io potessi trattenerla.

Riuscii, con stento, a calmarla. È inutile dire che le giurai di tacere.

Però qualche ora dopo, cercai d’intenerirla con altre ragioni: le parlai della creatura che stava per nascere: le feci presentire ciò che avrebbe avuto a soffrir dal De Boni a cui ella lo imponeva.

Strano! ella non aveva mai pensato al frutto delle sue viscere!

Fu tocca dalle mie osservazioni: — si raccolse dolorosamente; lagrime cocenti le sgorgarono dagli occhi.

Ma subitamente si rasserenò e mi disse:

— Ebbene voi siete buono, ci penserete un po’ voi a difenderlo.

Fu la prima volta, credo, che parlasse di suo figlio che nacque quella sera stessa. Ma in quegli ultimi giorni della sua vita se ne occupò assiduamente e lo raccomandò a me ed alla Mansueta che le avevo condotta.

La vigilia della morte, disse a Mansueta di porgli nome Aminta, nell’agonia essa pensava ancora alla Carbonaia!

Volle rivedere Don Luigi: il suo occhio moribondo si spense in uno sguardo di amore per lui!...

Il dottore fu ancora lui a rompere il silenzio e disse ad Attilio:

Signor avvocato, se avesse veduto la Rosilde in quei tali momenti avrebbe promesso come me di non funestare la vita dell’uomo ch’ella ha tanto amato. Quanto a Don Luigi è superfluo dirle che egli, appena sospettò i vincoli che lo legavano ad Aminta mise a repentaglio la sua pace, per sottrarlo alle torture del De Boni.

Attilio era commosso quanto me. Egli disse che era persuaso e che non avrebbe tenuto conto della calunnia del Sindaco.

Io partii quella stessa sera per Milano e l’indomani cercai un avvocato per il povero Beppe.

Il dibattimento si fece due mesi dopo alle Assise di Novara, ed io assisteva.

Beppe fu assolto.

Quando lo rilasciarono in libertà, gli andai incontro gli chiesi:

— Non siete contento?

— Non so cosa mi faccia, rispose, non ho più nessuno... e si guardava attorno smarrito, come un uomo che non sa raccapezzarsi a vivere.

Partì quella stessa primavera per l’America e non seppi altro di lui.

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