< Memorie del presbiterio
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XXVIII

XXIX.


Passarono parecchi anni; ed io pure alle volte dimenticai i miei amici di Sulzena e di Zugliano.

Un giorno che passavo da Varallo, mi prese ad un tratto un ardentissimo piacere di rivedere quei luoghi, di ricercarvi un po’ di quella gioventù che mi è fuggita tanto presto. Illusione da cui io mi lascio spesso sedurre, triste illusione, che senza darmi la gioia passata mi fa sempre sentire più grave il tedio presente.

M’inerpicai ancora per quelle care pendici; non mi accompagnava più il buono, il baldo angelo della speranza, ma il mesto rapsode del ricordo e del rammarico mi spingeva frettoloso ed impaziente alla meta. Non avevo più meco la cassetta dei colori; da molto tempo non guardavo più intorno a me, ma frugavo dentro di me, nel cuore, a ricercarvi alcune rime, alcune strofe dimenticate, feccia umana del generoso liquore che un dì in me traboccava.

Quando fui al guado dello Strona, un tristo pensiero mi colse.

Le case di Sulzena apparivano biancheggianti al sole meridiano — il campanile suonava l’Angelus del mattino, — ma quel paesaggio mi sembrò meno lieto di quando l’aveva contemplato al raggio del tramonto.

Dicevo fra me: — li troverò ancora? e in quella piena subitanea d’affetti io mi chiedevo sorpreso come avessi potuto passar dieci anni senza informarmi di quelle persone di cui nutrivo ora un così vivo desiderio. L’animo ha i suoi abissi come lo Strona che a quel punto si profonda nelle viscere del monte per riapparire più giù, passa anch’esso per delle gallerie sotterranee di tenebre, di frastuono, di tedio dove la luce degli affetti e delle memorie gentili non penetra mai.

Divorai l’erta come un soldato che corre alla carica, preparato a veder cadere ad una ad una le mie belle memorie.

Entrando in paese posi il piede in un motriglio che mutava buona parte delle straduccole in un rigagnolo. L’acqua discendeva dalla piazza, dalla fontana e, a giudicarne dal color verdastro di certi sassi, chissà da quanto tempo.

— Ohimè, gemetti, neanche Baccio non c’è più!

Difatti quando passai accanto alla vasca, vidi che l’acqua ne sgorgava da una grossa fenditura della pietra, Proseguii, attraversai per lungo il villaggio e sbucai sul sagrato; rividi il dolce pendio erboso, i sedili scavati nel masso, e le quercie fronzute li ombreggiavano come una volta. Ma la chiesetta aveva nascosto la sua venerabile facciata bruna sotto un orribile e volgare intonaco di calce su cui i monelli del paese tracciavano già sgorbi inverecondi.

V’entrai: un ponte ingombrava mezza la navata; ritto sovr’esso un imbianchino gettava colla sua scopa, delle grandi spalmate di gesso e latte sui vecchi affreschi e cantava a mezza voce una canzonaccia profana.

Ero capitato proprio in mal punto; pure non mi fu discaro di salutare ancora una volta una mirabile barba di padre eterno che mi aveva occupato moltissimo al tempo della mia prima visita. Quando fu scomparsa entrai nel Sancta sanctorum e di là girai intorno all’altare e passai nella sacrestia.

Non c’era nessuno.

Mi affacciai alla porticina che dava nel cortile del presbiterio; anche là c’era del nuovo: un grosso e tozzo pollaio ingombrava l’angolo fra la stalla e la cucina. Invece di quell’aspetto armonico di modestia, un non so che di gretta opulenza.

La porta del giardino stava spalancata, ma il giardino era scomparso. I cavoli e le patate occupavano le aiuole; appena qualche scarduffiato cespo di rose, mozzo dalla marra barbara dell’ortolano, le foglie rose dai bruchi, intisichiva sul terreno ove la sua razza aveva regnato.

Nel cortile passeggiava un prete leggendo il suo breviario: ravvisai tosto Don Sebastiano; la sua faccia non aveva mutato gran fatto; era diventato più scuro, più terreo. S’interrompeva per dar qualche ordine: ed accorreva una giovane tarchiata montanara dalle braccia e dal viso rossi come di terra cotta.

Avevo visto abbastanza e capito anche troppo.

Scappai di là e poi ridiscesi nel villaggio.

Passando innanzi alla farmacia vidi l’amico Bazzetta al suo banco. Il desiderio di trovare almeno una delle vecchie conoscenze mi spinse da lui.

Stentò a riconoscermi.

Ma poi, appena fatti i convenevoli, appiccò discorso come se ci fossimo lasciati il giorno prima.

Gli chiesi:

— Quanto è che Don Luigi?...

— Cinque anni, e fu un gran danno per Sulzena: invece della tolleranza, della carità di quel brav’uomo...

Non s’accorse dell’ironico sorriso che a quest’elogio postumo mi contrasse le labbra.

— ..... Abbiamo l’ultramontanismo spilorcio e fanatico di Don Sebastiano.

E senz’altro s’avviò a narrarmi le lotte intestine di Sulzena, in cui egli solo teneva testa al presbiterio e al sindaco alleati.

Io non gli credevo gran fatto; domandai di Mansueta.

— Ah, la serva... morta.— Ma domenica ventura...

— Morta quando?

— L’anno passato al suo paese... Ma domenica ventura prenderò le mie rivincitine... le elezioni riusciranno a modo mio: sono quattro anni che lavoro per questo...

— Ve lo auguro, dissi io con un’aria annoiata e mi alzai.

— Sor Emilio, disse con una certa premura, — non accetterebbe un bocconcino, un pezzettino di manzo.....

In quella si affacciarono due visi di vecchierella, due profili scarni, gialli, appiattiti. Erano la moglie e la figlia dello speziale: quei dieci anni avevano quasi cancellate le differenze. Erano due figure senza età precisa, due fossili veri... — Il signor Bazzetta insistè per trattenermi, egli era schietto; non gli pareva vero di smerciare le sue ciarle, — ma mi seccava troppo.

Debbo dire che Sulzena era ingrandita: notai qualche casa nuova, la capanna di Beppe era stata restaurata e vi notai la frasca e l’insegna turchina dell’osteria che quella sera memoranda del mio arrivo aveva cercato invano.

Si capirà da quel nuovo movimento di commercio che le usanze ospitali del Presbiterio erano scomparse. Feci, solo, un po’ di colazione di malavoglia: il rimorso di aver voluto profanare colla curiosità inopportuna i miei cari ricordi, mi levava l’appetito.

Passai la sera a Zugliano, dove il dottor De Emma mi fe’ cortese accoglienza, — e mi parlò lungamente di Don Luigi, e riparò un poco colle sue affettuose parole ai disappunti della giornata.




E Aminta?

L’estate scorsa ero in ferrovia: tra Milano e Pavia e non so bene a quale stazione salirono due giovani sposi. Appena il convoglio si mosse — m’ero sdraiato lungo sui cuscini, facevo le viste di dormire — lo sposo senza tanti scrupoli allacciò la vita della signora e cominciò a sussurarle certe parole... che parevano baci. — E lei ci stava.....

Non c’è per me spettacolo più avvilente di questo.

Alla prima fermata, m’alzai risoluto e feci per discendere.

— Buon viaggio e buon divertimento, signori, dissi nel passar dinanzi alle due tortorelle.

La signora arrossì, ma lo sposo fe’ un oh lungo un miglio e s’alzò tanto rapidamente che i nostri visi si toccarono.

— Tant’è, disse, e mi baciò. Ero stupito.

— Non mi conosce? io lei l’ho sentito alla voce... Aminta.

— Oh Aminta!

— È questa la mia sposa.

— Ho visto — dissi.

E ridemmo tutti e tre.....

Aminta mi disse che andava a Roma dove aveva un impiego al ministero della publica istruzione. Era sposo, era felice, era allegro.

Eppure quella sua gioia tanto naturale mi faceva pena perchè mi pareva una irriverenza verso le tristi memorie che il suo incontro mi suscitava nell’animo.


Fine.


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