Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Sacratissimo latte |
XIV
SOFONISBA A MASSINISSA
Mentre gli occhi a le lagrime discioglio,
scriva la man col sangue, e quel rossore
che manca al tuo sembiante abbia il mio foglio.
Sdegno spiri il pensier vie piú che amore,
e la mia fé schernita altrui dimostri
svenato il braccio e lacerato il core.
In questi amari miei vermigli inchiostri,
s’altri gli guarda mai, spero ch’almeno
si tinga di pietá, se non s’inostri.
Sí dunque, o Massinissa, il bel sereno
de l’amor che la destra e ’l cor mi giura,
qual baleno svanisce in un baleno?
Qual rigido destin, qual ria sventura
miete in erba i miei fasti, anzi la vita?
chi su l’alba il mio dí smorza ed oscura?
Misera Sofonisba! oimè, tradita
l’hai tu, crudel, con feritá latina,
pria da te vinta e poi d’amor ferita.
De la nobil Numidia alta reina
e del regno d’Amor trïonfo altera,
il mio volto, il mio scettro ogn’alma inchina.
Gemina maestá placida impera
ne la mia fama, oltre l’Idaspe e ’l Moro,
a qual gente è piú barbara e piú fiera.
Piú che di gemme orïental tesoro,
m’orna aspetto reale; ho su la fronte
corona di beltá vie piú che d’oro.
E ’l romano campion passa ogni monte,
varca ogni fiume e ’l mio reame assale
e desta a mie bellezze oltraggi ed onte;
mentre tu, seco unito al mio gran male,
vinci invitto il mio regno e m’incateni,
a me negli anni ed in bellezza eguale.
Allor, preso d’amor, che teco io meni
in nodo marital le notti e i giorni
brami, e le nebbie mie squarci e sereni.
Quinci, lassa (oh mie gravi ingiurie e scorni,
oh servili e durissimi legami
di cui vien che me stessa onori ed orni!)
fia ch’amante io ti segua e sposo io t’ami,
mentre leghi il mio sposo, il gran Siface,
e sconfitta mi vòi, vinta mi brami.
E lá dove il mio trono a terra giace,
l’alma al tuo amor sollevo e, fra gli ardori
di Bellona, d’Amor tratto la face;
e poss’io tra le morti e tra i furori,
con disprezzata man, fredda qual ghiaccio,
destar le Grazie e suscitar gli Amori;
anzi, mentre i miei fidi in stranio laccio
languiscon di dolor, d’amor poss’io
languirti in seno e tramortirti in braccio!
Ma che troppo il tuo volto è vago e pio;
piú che ’l valor, la tua beltá guerreggia
e vince i miei guerrieri e piú ’l cor mio.
Miro e piango i miei fasti e la mia reggia
e, di pianto amoroso ancor stillante,
la tua grazia in amor l’occhio vagheggia.
Erro, ma non ho schermo, egra e tremante;
donna tenera e molle or che far deve
giá preda e serva a vincitor amante?
Erro, e in amore il mio contrasto è breve;
ma pur pietá non che perdono io merto,
ché se ’l fallo è d’amore, il fallo è lieve.
Cosí, vinto il mio regno e ’l core aperto,
trïonfando ne vai di me, de’ miei,
o di Marte, o d’Amor guerriero esperto;
e fra soavi lagrime ed omei
passi (oh vergogne mie!) dal campo al letto,
via piú fabro d’amor che di trofei.
Quivi il bel fianco ignudo, ignudo il petto
t’offro; ne’ lacci tuoi forti e tenaci
godon l’anima avvinta, il sen ristretto;
e quivi or fra le risse or fra le paci,
giungi a molli sospir dolce lusinga,
a le lusinghe i vezzi, ai vezzi i baci.
Sai ben, la ’ve a la pugna Amor s’accinga,
come labro con labro in un s’accoppi,
come core con core in un si stringa;
anzi, mentre al desio l’ardor raddoppi,
doppian per te, solo a’ diletti inteso,
le catene le braccia e l’alma i groppi.
S’è di mia pudicizia il pregio offeso,
in me provo il rossor, dal labro impuro
di lascivia assai piú che d’ostro acceso.
E poi (ben di mia stella orrido e scuro
tenor!) fra tenerissime dolcezze
mostri il cor di diamante assai piú duro.
Empio e crudo che sei, di mie bellezze
sazio, or torci da me le luci amate,
che fûro in prima a vagheggiarmi avvezze.
E le leggi d’amor rotte e sprezzate,
se de l’armi il furor l’alma non pave,
mi dái colme di fel coppe gemmate;
mentr’è ancor la tua bocca umida e grave
de’ miei baci, il veleno a me presenti
in difetto del nettare soave.
Dunque, in ora sí breve in te fian spenti
tutti i sensi d’amore? in te s’annida,
in te spirito uman, dunque, pur senti?
Dunque, fia ch’a te il Sol splenda ed arrida,
s’ei, che su l’alba giá sposo ti vide,
ti vede anco su l’alba empio omicida?
Perché il cor con la man, con voglie infide,
se promette la fé, la fé schernisce,
se mi giura l’amor, l’amor deride?
Ben piú che l’alma, in te l’amor languisce;
brina in neve sí tosto o neve in spuma
come la fiamma tua giá non svanisce.
Dura piú nebbia a sole e fiore a bruma;
giá piú di te volubile e leggiero
non ha volo l’augel, augel la piuma.
Quindi, tanto infedel quanto guerriero
(amante io non dirò, s’amor gentile
sprezzi, vie piú che uman, spietato e fèro),
porgi in vece d’anello e di monile
ai solenni imenei lacci e catene,
con servaggio sí barbaro e sí vile;
e ’l tesoro che in don da te mi viene,
è vascello che tòsco a me sol porta
e col dono primier l’ultime pene.
Deh, non tronchi mia vita, a pena attorta,
altro che ’l ferro tuo; so che mi vuoi
al tuo trïonfo e catenata e morta.
Ben riede il fato in me degli avi eroi,
del forte genitor, del gran campione,
d’Asdrubale, ch’illustre è sí fra noi;
di lui che coltivò l’armi e l’agone
col sudore e col sangue, e talor, doma
l’oste, intrecciossi al crine auree corone;
di lui, che in un d’allòr cinse la chioma,
e con lume d’onor che non s’imbruna,
fe’ superbe cozzar Cartago e Roma.
Ma giace vinto al fin; ned altri aduna
l’ossa famose e ’l glorïoso busto,
com’io d’amor trastullo, ei di fortuna;
proviam ambi il destino e ’l cielo ingiusto,
fatto giá spettator de’ nostri scherni
orgoglioso il Metauro, il Tebro augusto.
Lassa, ma pria che in me rigido verni
di morte il gelo, io spegnerò l’indegno
foco e del foco i sensi e i moti interni.
Sí, sí, perdasi amor, se persi il regno;
m’abbian morte ed amor tra le lor prede;
siasi, tradito amor, giusto lo sdegno.
Ben cieco è chi tue frodi oggi non vede:
ecco priva d’amor, d’amante, io giaccio;
ecco rompo l’amor, qual tu la fede.
Giá fui tutta di foco, or son di ghiaccio,
serva no, ma nemica; a’ tuoi trïonfi
mi vedrai morta, pria che serva al laccio.
Invano, invan di mia beltá trïonfi,
di Numidia e d’amor barbaro infido;
invano, invan del tuo valor ti gonfi.
Cerca omai che del Tebro al patrio lido,
de le tue glorie illustri e pellegrine,
pria che tu quivi aggiunga, aggiunga il grido;
ché giá le vaghe vergini latine
mostran, perché ’l lor bello ami ed ammiri,
latteo sen, rosea guancia, aurato crine;
giá giá nel grembo tuo le abbracci e miri:
vie piú dolci de’ miei so che saranno
misti i lor baci a languidi sospiri.
Ma so pur ch’amarissime godranno
le dolcezze d’amor: fian mie rivali
sí nel provar l’amor come l’inganno;
non mancheran giá loro urne regali,
dove ondeggi il velen ch’immerga e chiuda
in caligine eterna i dí vitali.
Certo è pietá far che vulgare e cruda
man col laccio o col ferro in me non privi
del suo corporeo vel l’anima ignuda!
Regio e degno pensier ch’altri l’avvivi
con lode ognor, rubarmi il regno e il trono,
tormi la fama e me ritorre ai vivi!
E sí vil, sí schernita ancor ragiono?
vivo ancor, spiro ancor? L’uomo sí pio
pur la vita m’invola, e viva io sono?
Moro, ma pria vuo’ spento il fuoco mio;
il velen beverò, pur che ne’ miei
scorni beva ogni etá l’acque d’oblio.
A l’incendio mio spento or sí che dèi
scaldar l’alma col gel, mentre al mio foco
breve punto scaldarti non potei.
Non sarò piú di te favola e gioco,
chiuderò gli occhi ove al tuo amor gli apersi,
avrá in vece d’amor l’odio in me loco.
In preda ai venti poi parte si versi
di quel foco la cenere gelata,
parte asciughi il mio sangue in questi versi.
Ma de la vita mia da te sprezzata,
reliquia miserabile e funesta
siasi la polve al tuo gran danno armata.
Quasi turbo sonante ed ombra infesta
io, io, rivolta in polve, ovunque andrai
t’apparirò crudel non che molesta;
sdegnerò, t’odierò quanto t’amai;
e di larve e d’orrori avvolta, intorno
turbando ove tu sia la luce e i rai,
l’ombre sol mi fian grate, in odio il giorno 1.
- ↑ Allegoria. — L’innamoramento di Massinissa con Sofonisba in mezzo dell’armi accenna quanto sia piú potente degli eserciti armati una bellezza, benché ignuda. L’aver ella nella perdita del regno, e fra le proprie catene e fra quelle di suo marito, dato luogo agli amori acconsentendo al volere altrui, significa la leggerezza e fragilitá delle donne in affetti somiglianti. Il passar poi in un subito dal letto di nozze alla bara di morte, avendo per mezzo del veleno provato il nuovo sposo ed amante omicida e nemico, ci dichiara esser vero in piú guise ciò che degli effetti d’amore testificò il greco Focilide: Amor hominum sanguine ridendo gaudet.