< Mio figlio ferroviere
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X. Personaggi autorevoli
IX XI

X.

PERSONAGGI AUTOREVOLI.

L’abitudine, dopo colazione o dopo pranzo, di non prendere il caffè nella stessa trattoria dove s’è mangiato, ma d’andarlo a sorbire proprio al bar o al caffè, è un’abitudine, lo so, provinciale. E almeno a Roma avrei dovuto abbandonarla. Ma proprio lì, all’ombra della storia e dell’infallibilità, sentendomi rassegnato alla mia inguaribile piccolezza, anzi godendomela sicuro che all’universale religione e virtù il peccato di gola d’un atomo come me non poteva recare nessun danno ponderabile, insieme al caffè, dopo quella colazione, desiderai d’assaporare anche due paste. Con questa mira m’incamminai giù per Borgo Nuovo, pure voltandomi di tanto in tanto a gittare un’ultima occhiata a San Pietro, rapida come un’istantanea da sviluppare poi a casa, di notte, con la memoria: la piazza nel sole e il porticato nell’ombra e lo scialo delle due fontane e gli statuoni lassù che continuavano a fare verso il paradiso gesti incomprensibili per me peccatore di provincia. E quando fui giunto a piazza Scossacavalli, entrai da un pasticcere e mi sedetti a un tavolino di freschissimo marmo. Di faccia a me una famiglia di popolani, beati, vestiti a festa, rotondi fiorosi e ingiojellati, padre, madre e tre figlioli, gustava alcune granite di limone intercalandole a cannoli colmi di crema e a risate tonanti appena la crema d’un cannolo al primo morso sprizzava via dall’altro capo: dolce immagine, se oso dire, della fuggevole felicità umana. Alla mamma, più che agli altri, per quel davanzale del petto, l’operazione riusciva difficile; ma non si scoraggiava, e divaricate le ginocchia e respinta con la destra tra loro la gonna, ormai s’era messa a mangiare a capo chino così che la crema sfuggendo cadesse sul pavimento. Tanto lesta era a voltare il cannolo dal capo traboccante e a ficcarselo in bocca che sposo e figli restavano sospesi ad ammirarla, scoppiando ad ogni boccone in nuove risa ed applausi. Ogni cannolo costava otto soldi. Anche io partecipavo ormai da qualche minuto alla gioja e alle ansie di quella famigliola, quando m’udii chiamare da una voce che mi parve severa: – Dottore.... Era il commendator Pópoli, come ho detto, allora sindaco della mia città. Aveva fatto colazione in quei paraggi da un suo parente canonico nel capitolo di San Pietro, ed era anch’egli capitato lì pel caffè. Ma lo sperpero d’allegria, di cibo e di danaro di quei cinque popolani offendeva in lui il pubblico amministratore, tanto che mi trascinò via appena ebbe vuotata la sua tazza di “nero” e il suo bicchiere d’acqua. E solo quando fu sulla piazza, lontano da quello spettacolo di spensieratezza, mi chiese: — Suo figlio dov’è? Ho già spiegato come e perchè il nostro sindaco non rida mai. Ma lì per lì la sua compassata austerità mi parve dare un che di tragico alla domanda. Rividi la mia soffitta, il letto, le chiome e le braccia di Cencina, e Nestore accanto a lei rimbambolato; e titubai per un attimo prima di rispondergli che Nestore era a Roma. Egli, per fortuna, continuava: — Se suo figlio potesse darci un deputato socialista, ci faremmo accompagnare agl’Interni e risolveremmo súbito la questione della chiesa dell’ospedale. A me ripugna, mi perdoni la parola, rivolgermi a deputati d’un partito che non è il mio. Ma qui a Roma chi non è rivoluzionario, non ottiene più niente dal Governo di Sua Maestà; sopra tutto le cose lecite. Bisogna rassegnarsi. Le basti questo: per ottenere l’exequatur a quel santo uomo di monsignor Gattamìa, è bastato che don Sturzo spedisse Mignoli dal Presidente del Consiglio. — Gattamìa, Gattamìa.... — Si ricorderà. I giornali lo avevano accusato d’aver spedito in America, durante la guerra, cinque dei suoi seminaristi chiamati sotto le armi. Non era vero. Ma adesso dopo aver amnistiato i disertori, non volevano che lui diventasse vescovo. Senza logica e senza giustizia. Torniamo all’ospedale. La questione della chiesa dell’ospedale è semplice. Per questo in due righe la racconto. Il nostro civico nosocomio è posto in un vecchio convento, e il convento ha una chiesina. Sin da prima della guerra, con l’accordo di tutti i partiti, s’era pensato di trasformarla in una sala per le malattie contagiose: e nessuno s’immaginava di vedere in questa trasformazione un epigramma contro la nostra religione. Ma con la guerra quella chiesina se la prese l’autorità militare e la ridusse a suo magazzino, di tutto, scarpe, brande, sacchi, cenci, anche medicinali. La guerra da due anni è finita. Ogni due mesi il Comando di Divisione assicura per lettera che la sgombrerà nei due mesi successivi; ma la chiesa è sempre colma e sbarrata. E il sindaco voleva prima delle elezioni riaverla e cominciare i lavori, pubblico documento delle cure che la sua amministrazione ha per la salute di tutti ma specialmente, s’intende, dei poveri. — Se l’avessi saputo due ore fa, lo dicevo all’onorevole Misilmeri, comunista. L’ho accompagnato a vedere San Pietro. — Prendiamo il tranvai e andiamo a cercarlo. Promisi al sindaco che o quello o un altro, purchè fosse rosso, proprio rosso, tutto falce e martello, glie lo avrei pescato nel pomeriggio, per quanto torbido fosse il maremagno di Roma. Il tranvai lo prendemmo lo stesso. Egli andava a ritrovare sua moglie, a ora fissa, presso un parrucchiere di via Condotti, e dovetti accompagnarlo. La signora s’era fatta, diceva, ondulare i capelli; e si sa quanto facilmente le onde cambino di colore. Quando giungemmo, stava discutendo col parrucchiere davanti ad alcune fiale e bottiglie lucenti, ciascuna con un nastrino al collo aggiustato come una cravatta. Non parve soddisfatta del nostro arrivo e più semplicemente, poichè l’arrivo del suo consorte legittimo se lo aspettava, dell’arrivo mio. Mi fece appena un segno con la testa e confesso che me ne offesi. Come? Io avevo, se posso dir così, il suo onore nelle mie mani; io m’ero, quel giorno in soffitta, condotto in maniera tanto cavalleresca da sembrarmi, là per là, sciocca addirittura; io avevo taciuto di quell’incontro perfino con mia moglie. E adesso ella mi salutava fredda come se io fossi un estraneo, anzi un importuno? Voltandomi per discrezione ad esaminare le vetrine del profumiere che dopo tutto assomigliavano a quelle d’un farmacista e perciò mi sembravano familiari, m’accingevo a meditare su quel problema e già lo venivo risolvendo contro me in favore di lei dicendomi che ero per la sua rinnovellata virtù il documento implacabile del peccato dimenticato, quando due apparizioni mi distrassero. Nè potevano essere più contradittorie. Dalla porta sulla strada entrò il colonnello del reggimento di bersaglieri che è di

stanza nella nostra città; e dalla porticina del retrobottega apparve Micáilof, il russo misterioso. Non mi vide? Fece finta di non vedermi? So che strinse la mano al parrucchiere ed uscì senza curarsi di me. Dalla stazione era uscito senza nemmeno un involto; ma dalla profumeria il russo usciva con un’elegante valigetta di cuojo.

In quel punto il sindaco mi presentò al colonnello, un bell’uomo, tutto lustro e tutto nuovo che pareva fabbricato allora: baffi neri a punta scintillanti di brillantina, pelle abbronzata e ben rasa, fiamme amaranto al colletto, trofeo di galloni d’oro al berretto, stelle e galloni d’oro alle maniche, gambali e scarpe di cuojo giallo, nastrini d’ogni colore, azzurri, verdi, rossi, bianchi, viola, in tre file sul petto marziale, cuciti sopra tre liste di panno amaranto e tanto freschi di colore che assomigliavano a una scatola di colori all’acquarello, un dado accanto all’altro. Anzi così nuovo, lustro e multicolore, egli sembrava tutto dai piedi gialli alla chioma corvina, un campionario di bei colori, affascinante. Cencina lo guardò e sorrise tutta, quasi che guardando lui si fosse rimirata in uno specchio e trovata bella. Ma più m’importava il russo e m’accingevo ad iniziare, magari con l’ajuto legale del sindaco e del colonnello, un’inchiesta, quando lo stesso parrucchiere parlò, sottovoce, sporgendo verso noi, di là dal suo banco di vetro, la testa tonda, rosea e calva che pareva una palla di profumato sapone: — Hanno veduto quel signore lungo che è uscito adesso? È un russo. Un mese fa era in Russia. Già tre volte è venuto in un anno. Sanno che viene a vendere? Capelli. Sì, signori, capelli. Capelli bellissimi, d’uomo e di donna, che in Russia anche i contadini hanno i capelli tanto lunghi da poterli vendere. Ma questi devono essere capelli di signori: io me ne intendo. E devo dire la verità: non sono cari. In confronto ai capelli di Cina che si trattavano una volta, questi, ai prezzi d’oggi, costano meno e valgono molto di più. Il commendator Pópoli, uomo pratico, chiese quanto poteva valere una libbra di capelli biondi alla moneta d’oggi. Il colonnello, uomo morale, chiese come si chiamasse il russo, con l’evidente intenzione di farlo espellere. Il parrucchiere si schermì giurando che non lo sapeva, e la signora Cencina mise con grazia una mano sul braccio del colonnello e lo ammonì sorridendo: — Lei non vorrà compromettermi il signor Emanuele, – che doveva essere il nome del parrucchiere. Io stesso che conoscevo nome e indirizzo del venditore di capelli russi, tacqui, per non compromettere Nestore, e anche (a dire tutta la verità) per gratitudine a Micáilof che m’aveva usato la gentilezza di non salutarmi. Trovai Nestore alla sede del suo Sindacato. Doveva occuparvi un posto davvero autorevole perchè, fattasi dare da un usciere una chiave, m’aprì la stanza stessa della presidenza e m’invitò ad accomodarmi sopra un soffice divano, come se stanza, divano e presidenza fossero state sue proprietà alla borghese. Anzi dal cassetto d’una scrivania di mogano trasse un mazzo di sigari toscani così chiari, affusolati e crocchianti che nemmeno il ministro delle Finanze deve, se fuma, fumarne di simili; e me ne offrì due, e un altro se ne accese per sè, e solo quando si fu assicurato che il sigaro mio e il sigaro suo facevano, almeno loro, il loro dovere, mi chiese gentilmente: — Che desideravi? Io, al solito, ero distratto. Provinciale come sono e abituato ad obbedire, mi ritrovo sempre stupefatto anzi confuso davanti a chi esercita con disinvoltura l’autorità, specie quando l’investitura è fresca, perchè io, fossi in lui, mi c’invischierei ad ogni gesto come fosse vernice. Per questo, a chi non crede ai miracoli perchè afferma di non averne mai veduti coi propri occhi, soglio rispondere: – Vuoi vedere un miracolo? Guarda un deputato un minuto prima dell’elezione e guardalo un minuto dopo. – E lì si trattava di Nestore, di mio figlio, ferroviere per giunta. Egli dunque si muoveva in quella bella stanza comoda e ariosa e luminosa a suo agio come fosse stata sempre sua. — Dove avete trovato questi bei mobili? — Ce li ha ceduti a un prezzo di favore il Ministero della Guerra. Erano del Comando Supremo. Non erano cioè nemmeno del Comando Supremo perchè li aveva requisiti durante la guerra, non so dove. Un compagno ci avvertì quando furono caricati per essere portati a Roma, alla nuova sede del Comando Supremo in via Venti Settembre; e noi li chiedemmo, nelle dovute forme, al ministro degl’Interni. Le pratiche furono lunghe, t’assicuro. Ma nel frattempo noi vigilammo perchè i mobili non fossero abusivamente scaricati. Capirai, per noi si trattava anche d’un simbolo: dal Comando Supremo al Sindacato. — La storia d’Italia. Nestore ebbe la bontà di sorridere e di chiudere una tendina perchè un raggio di sole veniva a ferirmi proprio negli occhi. Poi mi ripetè: — Che desideravi? Gli domandai in prestito un deputato dei suoi, con le parole stesse del sindaco Pópoli. A quel nome non battè ciglio. Se Pópoli fosse stato scapolo, la faccia del mio Nestore non sarebbe stata più indifferente. Calcolò, guardandosi l’orologio sul polso, chi dei suoi deputati poteva a quell’ora trovarsi alla Camera; pronunciò due o tre nomi potenti; mi pregò d’aspettare finchè egli avesse telefonato; mi offrì intanto la distrazione della lettura indicandomi con un gesto una tavola coperta da riviste e da giornali: — Sono quasi tutti giornali e riviste borghesi. Ce le mandano in omaggio, – ed uscì. Presi la Nuova Antologia, mi riaccomodai sul divano e mi sprofondai nella lettura d’un articolo del professore Ugo Ancona che ha lo stile amichevole e la cifra facile. Non era passata mezz’ora quando Nestore riapparve. — Alle diciassette l’onorevole Pazzotti vi aspetta al caffè Guardabassi davanti al Parlamento. Vi condurrà lui dal sottosegretario agl’Interni. — L’ha avvertito? — Non ce n’è bisogno. Entra quando vuole. Io corsi dal sindaco che m’aspettava all’albergo, e prima delle diciassette eravamo al caffè Guardabassi in attesa. M’ero dimenticato di chiedere a Nestore i connotati del suo compagno onorevole, e preoccupato volli che ci sedessimo fuori della porta così da vedere tutti quelli che uscivano da Montecitorio. I deputati lì avrei riconosciuti al saluto del guardaportone; e quello che fosse venuto difilato al caffè, sarebbe stato il nostro deputato. Uscirono due fattorini telegrafici, un prete con un ragazzo, una signora con un cane, un ufficiale con una signora. Un altro ufficiale si fermò a discorrere col guardaportone. In quella apparve un omaccione e si fermò sull’alto della gradinata a due passi da loro: era il deputato che la sera prima sedeva dalla signora Geltrude a capotavola e bestemmiava in bolognese. Ma lo avevo appena da quella distanza ravvisato, quando lo vidi dimenar le braccia contro quei due. Attraverso la piazza deserta giungevano fino a noi le sue grida. Accorsi. Egli rimproverava acerbamente l’ufficiale di picchetto e il guardaportone perchè non lo avevano salutato. Era congestionato e feroce: — Vi farò punire. Il vostro dovere è di salutarmi. Io sono l’onorevole Pazzotti e devo essere salutato. Il guardaportone s’era levato il cappello. L’ufficiale s’era pazientemente messo sull’attenti e taceva. — Si levi il cappello, lei! Impari l’educazione! Si levi il cappello! S’era raccolta gente. Fuori dalle garitte le sentinelle guardavano l’ufficiale. Questi sillabò: — Io non ho cappello, signor deputato. — Come non ha il cappello? Lei si prende gioco di me. Ma è finita la guerra e i padroni non siete più voi altri. (Oltre che con quel tenente egli se la prendeva anche, in rapide interiezioni, con la madre del Redentore, ma è inutile qui trascrivere ciò che diceva di lei.) — No, signor deputato.... – cominciò il tenente. — Dica onorevole! — No, onorevole signor deputato, io non ho cappello. Io ho un berretto. L’altro rimase interdetto e tornò a scagliarsi contro l’invisibile Divinità. Ne approfittai per mettergli una mano sulla spalla e sussurrargli: — Noi la aspettiamo al caffè Guardabassi. Capii che m’era grato della diversione che gli offrivo. Infatti s’erano raccolte a quelle grida una ventina di persone, e cominciavano ad interloquire con poco rispetto per lui e a stringerglisi attorno troppo da vicino. L’onorevole Pazzotti ficcò un braccio sotto il mio e si diresse rapido verso un fiacchere. — Al Ministero degl’Interni, – dissi io al vetturino. Ma il cavallo s’era appena mosso che quelle venti o trenta persone cominciarono a fischiare. Fischi, fischi, fischi. Non avrei mai creduto che la piazza di Montecitorio fosse così risonante. Pareva che lo stesso obelisco si fosse tramutato in un gran fischio per l’insù. Eravamo in piazza Capranica e l’aria dietro a noi era ancóra lacerata dai sibili, tanto che da ogni parte passanti e guardie accorrevano verso Montecitorio. Uno chiese addirittura a noi: – Che è successo? – Ma gentilmente non aspettò la risposta e volò via rapito dalla curiosità. Quando giungemmo in piazza della Rotonda, io ripensai al mio sindaco. Dov’era finito? Cercai di spiegare la mia inquietudine al deputato, ma era distratto. Un bar lì all’angolo attirò la sua attenzione. Fece fermare di colpo la carrozzella: — Prendiamo un cognac. Ci rimetterà in equilibrio. Parlava in prima persona plurale come parlano i re. Io gli chiesi il permesso di fare una corsa all’indietro fino al caffè Guardabassi per cercare il sindaco. Ma non volle: — Non sarebbe prudente, le assicuro. Prendiamo un cognac. Ne prese due, risalimmo in vettura, arrivammo al palazzo Braschi. Là era più conosciuto che sul portone di Montecitorio. Il portiere e le guardie lo salutarono con simpatica familiarità. — L’ascensore, – egli ordinò, e in un attimo ci trovammo al primo ripiano d’uno scalone papale tutto lucido di marmi. Passammo rapidamente da un usciere all’altro: – Onorevole.... Onorevole.... Sua Eccellenza.... Ma sì, subito.... S’accomodi qui. I due cognac e quelli ossequi l’avevano ormai calmato. Camminava sui tappeti, di sala in sala, a testa alta, senza levarsi il cappello. Aspettammo dieci minuti in un’anticamera coi divani di velluto rosso difesi da bianchi crocè come in un vagone di prima classe. Due volte in quei dieci minuti un usciere in redingote venne a parlarci: – Due minuti, e Sua Eccellenza è da loro. – Se fossimo stati due ricchi agonizzanti in attesa d’essere salvati da un medico principe, non ci avrebbero usate maggiori premure. Io cercavo intanto di spiegare al mio mentore l’annosa questione della cappella dell’ospedale. Ma egli non ne voleva sapere. — Parli lei, parli lei. È affare suo. Vedrà che dirà súbito di sì. E finalmente entrammo. — Caro Pazzotti, perdonami se t’ho fatto aspettare. C’era uno della Real Casa: una noja.... In che posso servirti, caro? Fumi? Lei è dottore? Ah benissimo, caro dottore.... Mi dica. S’accomodi intanto. Lei fuma? Prendete un caffè? È buono, t’assicuro. Fuma dolce lei? Sigarette? Io non fumo, purtroppo: ordine del medico. In compenso masticava uno stuzzicadenti di legno e ad ogni due o tre periodi se lo cambiava di posto, da un dente all’altro. Suonò un campanello e all’usciere ordinò: — Non ci disturbare finchè non ti chiamo. Se telefonano, sono alla Camera. A proposito, caro Pazzotti, per la cooperativa di Sant’Angelo il prestito è accordato. Cinque per cento. Troppo? Non lo dire. Il tasso corrente è del sette. Cinque netto, bada, senza altre noje. Il tre? Impossibile, ti giuro. Non mi mettere in quest’imbarazzo. Il tre, il tre.... Ma nemmeno prima della guerra, se ti ricordi.... Del resto, la somma sarà versata intera, senza trattenere gl’interessi anticipati. E alla prima scadenza, vedremo. Non ci sarò più lo? Se non ci sarò io, ci sarai tu al posto mio. No, non lo dico per ridere. Tu saresti un uomo di governo, perfetto. Certo, molto migliore di me. Quel sigaro non tira. Prendine un altro. E adesso, caro dottore, mi dica. M’ascoltò per mezzo minuto, in piedi davanti a noi. E súbito ricominciò a parlare lui: — Ma è semplicissimo. Si metta là a quella scrivania. Formuli lei stesso il telegramma da fare al prefetto. Parli chiaro, parli chiaro. Quel che lei chiede fa parte del nostro programma (l’amico Pazzotti lo sa), del nostro preciso programma di governo: smobilitare, smobilitare, smobilitare. I signori militari non vogliono? Peggio per loro. I signori militari sono dei funzionarii: devono obbedire. E presto. Formuli lei, formuli lei, senza cerimonie. Pazzotti lo interruppe: — Dove si sputa? — Dove si sputa? Ma dove vuoi, caro. Pazzotti si guardò attorno. Io seguivo ansioso il suo sguardo che percorse tutto il basso delle pareti, il caminetto di marmo, le poltrone di velluto, uno scaffale di libri, i tappeti. Poi, signorile, andò alla finestra, la aprì e sputò in strada. Mentre io scrivevo il telegramma, i due restarono nel vano della finestra a parlare. Quando li raggiunsi col foglio in mano, m’avvidi che Pazzotti spiegava a Sua Eccellenza l’offesa fattagli dal guardaportone e dal tenente. Sua Eccellenza era preoccupatissimo e masticava lo stuzzicadenti con tanta ansia che tra le sue labbra violacee riuscivo ormai a vederne roteare solo la punta gialla. Da un momento all’altro l’avrebbe ingoiato. L’ingojò. Corse alla scrivania per prenderne un altro nuovo, e come se da quella novità gli fosse balenata un’idea, l’idea che doveva salvarlo, si rasserenò tutto e con l’aspetto d’un confessore che dimostri al penitente la miglior via del paradiso, consigliò: — Caro Pazzotti, perchè io possa procedere tanto verso il Comando della Divisione pel tenente quanto verso la Questura della Camera pel guardaportone, tu devi avere la bontà di mettermi in iscritto tutto disteso il tuo racconto, dirò meglio la tua denuncia, la tua giusta denuncia. Il caso è grave. Si tratta della dignità di tutti noi, di tutta la libera rappresentanza della Nazione, voglio dire, del popolo. Tu scrivi, e io procedo. Fulmineamente. Stasera stessa. Mi conosci, e basta. Ma a Pazzotti non bastava. Disse seccato: — Va bene. Ci penserò. — Ma no, non devi pensarci, non devi tardare. Scrivi qui da me, alla mia scrivania. Se preferisci, ti chiamo il mio segretario, e detti a lui. — So scrivere. — Sai scrivere? Ma che ti salta in mente? Che io volessi dirti che non sapevi scrivere? Io aspettavo col foglio in mano. Sua Eccellenza che cercava un altro argomento, prese il foglio e si dette a leggerlo. Ma metteva tanto tempo a scorrere le mie poche righe sulla cappella dell’ospedale ecc., che facilmente capii quella lettura essere solo un pretesto. Egli meditava sul guardaportone. Infatti concluse la finta lettura con questa domanda: — Quando tu hai giustamente redarguito quei due, v’era gente sul portone? — Qualcuno è venuto dopo, alla fine. — Vedrai che i giornali stasera ne parleranno. — Non credo, – affermò Pazzotti ma così debolmente da mostrar che invece ci credeva e che il timore della pubblica stampa lo sconvolgeva. — In ogni modo restiamo intesi: tu mi fai un rapportino e io me ne occupo súbito. Le pause ormai si facevano lunghe e la conversazione era caduta in un tono minore di ite missa est. — Quanto al sussidio per l’ospedale..., – riprese con vigore il sottosegretario. — Alla cappella dell’ospedale, – corressi io. — Al sussidio per la cappella dell’ospedale, – continuò Sua Eccellenza, – il telegramma partirà subito, – allora soltanto lo lesse: – Ma non si tratta del tuo collegio, eh Pazzotti? Pazzotti si scosse dal letargo: — No, questa faccenda sta a cuore ad un mio amico e compagno carissimo, – ma parlava come in sogno. — Basta. A me basta che stia cuore a te. Eravamo sulla soglia. — A rivederla, ingegnere, – mi disse Sua Eccellenza stringendomi con effusione la destra tra le sue mani. — Dottore, – corressi, ma non mi badava più perchè Pazzotti era uscito e la porta si richiudeva sul mio naso. Pazzotti fece pochi passi, rannuvolato. Poi di scatto tornò indietro frettoloso, riaprì la porta e rientrò nel sacrario. Passarono pochi minuti. I due riapparvero trasfigurati, e Sua Eccellenza, tenendo tra le mani la destra di Pazzotti come aveva tenuto poco prima la mia e, dandole di gran colpi e di gran strette come se volesse rimpastarla a nuovo, diceva: — Nobilissimo, nobilissimo. Generoso e nobilissimo. Pochi, dopo una simile offesa, la avrebbero dimenticata così presto, con parole tanto generose e tanto nobili. S’era affezionato a quei due aggettivi e se li portò con sè attraverso tutta l’anticamera. — Le raccomando quel telegramma, – osai ripetere lasciandolo. — Parte súbito, le ho detto. E capii che non sarebbe partito più. La chiesina dell’ospedale è ancóra occupata dall’autorità militare la quale l’ha empita di fieno e di paglia tanto soffice che adesso i soldati magazzinieri vi invitano, dicesi, delle ragazze. E monsignor Satolli, del capitolo del Duomo, sostiene che la chiesina presto cambierà titolo e sarà chiamata della Natività. La sera tutti i giornali di Roma si burlavano dell’onorevole Pazzotti comunista autoritario e, avendo un giornale proposto che al tenente di picchetto fossero mandati dei fiori, il giorno dopo alla sua caserma tutta la sala degli ufficiali si colmò di rose. Ma io ripartii nel pomeriggio.

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