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XI.
ROSSO DI SERA.
In treno ebbi agio di raccogliere le fila di tutto quell’intrigo di novità capitatemi a Roma. Verso Monterotondo cominciò a piovere così che dal finestrino non vedevo nemmeno i pali del telegrafo fuggire. Nel mio vagone, per caso, non pioveva, e s’era soltanto in tre: un ragazzo che s’addormentò subito, e un prete che si mise a leggere l’Uffizio, il Corriere d’Italia e un libriccino azzurro nuovo nuovo intitolato il Manuale dell’elettore: un boccone di uno, un boccone dell’altro; ma non capivo quale dei tre cibi gli sembrasse più saporito perchè egli era impassibile e, se interrompeva la lettura per meditare, alzava gli occhi al soffitto che gli nascondeva il cielo. Me, la pioggia mi rasserena. Forse è l’effetto della professione che esercito da trentacinque anni, dato che quando piove a dirotto pochi clienti vengono a disturbarmi. Forse è la mia stessa natura ottimista che, nel pieno d’un fastidio e magari d’un dolore, si slancia tutta a immaginare l’avvenire prossimo, appena fastidio e dolore saranno svaniti. Il fatto si è che, quando piove a dirotto e mi trovo al riparo, io mi sento tranquillo come un oggetto fragile nell’ovatta. E sentendomi tranquillo mi pare che tutto nel mondo debba finire a diventare tranquillo come me. Dunque: li sottosegretario agl’Interni, pur tra tante effusioni d’affetto, aveva finito per burlarsi del Pazzotti; la folla intorno all’onorevole Pazzotti s’era abbandonata senza paura al gusto di fischiarlo; era bastata una parola di donna per condurre l’onorevole Catini a baciare addirittura il piede d’un papa, sia pure di bronzo; erano bastati gli scoppii d’un motore d’automobile a far scivolare sotto i tavolini i rivoluzionarii più impavidi; infine, Cencina Pópoli s’era innamorata d’un colonnello dei bersaglieri. Che altro occorreva perchè io aprissi gli occhi? Mi pareva d’essere in quegli ultimi giorni di febbraio quando bastano dieci ore di sole a far apparire le gemme sui pruni delle siepi; ma bisogna ficcar gli occhi tra le spine con un po’ di coraggio e d’amore per scorgere le gemme sotto le squame nere, e il passante distratto non se ne avvede, e una brinata può intirizzirle e farle sparire. Pure non c’era dubbio. Cencina, sopra tutto, non poteva sbagliarsi. Stavano per sorgere giorni nuovi. Nuovi, ma come? L’acquazzone diventava furibondo. Il mondo esterno era abolito da quel diluvio. Mi pareva d’essere solo sulla terra inondata, dentro quella scatola di ferro ben chiusa e difesa, tratta innanzi da una forza sicura che s’infischiava delle furie dell’uragano. E le beghe lasciate a Roma e quelle che m’aspettavano a casa, ero sicuro che per quattro ore non avrebbero potuto raggiungermi. In quella beata pace mi colse il pensiero di Nestore. Che avrebbe fatto Nestore se si fosse, come si suol dire, scatenata la reazione? Per quanto bene io, dopo tutto, voglia al mio unico figliolo, quel pensiero non mi sconvolse. Se nemmeno la guerra aveva mutato il mondo, se nemmeno l’imminenza della rivoluzione, come a Roma avevo visto, l’aveva mutato, anche dopo l’imminente reazione il mondo sarebbe, alla fine, rimasto tale e quale. E le persone agili come Nestore o come Cencina vi avrebbero sempre ritrovato il loro nido. La colpa era stata mia se m’ero lasciato rapire in estasi dalle promesse diffuse quand’era scoppiata la guerra. Era tempo di tornare filosofi, e rassegnati spettatori. Non t’ho mai detto, lettor mio, che io da molti anni ho l’abitudine di trascrivere sopra un libriccino i pensieri ed i motti che più mi piacciono quando leggo od ascolto; che cioè più mi si confanno. Ormai di questi libriccini ne ho sei o sette, ed uno sempre su me. Lo trassi di tasca e vi cercai le righe che potevano confortarmi in quella mia riconquistata placidità. Furono, nientemeno di Niccolò Machiavelli: “Mi pare che tutti li tempi tornino e che noi siamo sempre quelli medesimi”. Caro filosofo senza paura. Io povero mediconzolo più umile ed ignoto d’un filo d’erba, avrei osato baciarti su quelle tue gote tutt’ossa e mal rase, se mi ti fossi trovato in quel punto davanti. Ma sì, gli uomini, guerra o pace, rivoluzione o reazione, sono sempre quelli medesimi. Il progresso? Il progresso è soltanto l’aspirazione o il desiderio che ciascuno di noi ha di diventare più felice e magari migliore. Ma, vedendo che occorrerebbe troppo sforzo a raggiungere con la nostra volontà questi miglioramenti, affidiamo per comodo al mito Umanità, anzi addirittura all’ignoto Avvenire il soddisfacimento del nostro personale desiderio di diventare migliori e più felici: e questo chiamiamo Progresso. Il ricordo, così, d’aver creduto nei miracoli della guerra m’infastidiva. Ai più la guerra aveva recato, lo riconoscevo, poco o nessun giovamento, e a molti danno e miseria, e a parecchi vanità e follia. Pure alla nazione, se i governanti fossero stati altri, un bel vantaggio di serietà, di considerazione, di compattezza, e finalmente d’unità, l’avrebbe arrecato. Se i governanti fossero stati altri.... Di quelli che una volta si chiamavano neutralisti, tutti gli argomenti m’erano sembrati pietosi perchè essi dimenticavano sempre di mettere, tra gli argomenti contrarii alla guerra, l’esistenza appunto di loro neutralisti. Voglio dire che se domani i bacilli della tubercolosi si mettessero a predicare la salute, sarebbero più onesti, scommetto, e comincerebbero la predica dicendo male anche dei bacilli della tubercolosi. Per contro un argomento di quei signori m’aveva sempre fatto impressione: che noi italiani si doveva ormai per lunga esperienza sapere che cosa valgono, l’un per l’altro, i nostri governanti. Se poi vogliamo giudicare la guerra solo dai patimenti e stragi che dà, diciamone pure male: è un facilissimo dire, da Omero in qua. E chi l’ha veduta, può dirne più male di chi l’ha sentita raccontare; e chi l’ha fatta, più di chi l’ha veduta. Ma anche qui mi rifiuto d’andare fino in fondo, e confesso che della guerra in genere, della guerra che non dovessimo ricombattere noi, non arrivo nemmeno oggi a dir male: uno, perchè è inutile dirne male, e con tutto il male che se n’è detto e visto e sofferto nei secoli, non se n’è impedita nessuna, altro che da chi, nazione o individuo, al momento buono s’è dato a scappare, e allora sarebbe stato meglio che combattesse e combattendo morisse; due, perchè le guerre altrui, in fondo, non mi dispiacciono. Delle guerre lontane che danno varietà ai giornali e una pennellata di rosso all’orizzonte; che t’insegnano la geografia politica e fisica senza fatica, sera per sera, con un telegramma Stefani e una corrispondenza Barzini; che sono il romanzo alla Verne o alla Dumas per noi adulti, il teatro per chi la sera resta a casa e dopo pranzo si mette in pantofole e si sdraja in poltrona; che a tutti gli scavezzacollo danno un’occasione d’andarsi a sfogare o a riabilitare, lontano, senza che alla fine si sappia bene se sono stati dei truffaldini o degli eroi; che ai pescicagnòli neonati permettono il commercio delle armi vecchie, dei muli zoppi e dei viveri avariati, ma a distanza, con un guadagno ben rischioso ed incerto e con una certa fama di pirati e negrieri che resta loro incollata addosso, losca e romantica; la guerra insomma del Messico o del Marocco, dei boeri o dei boxers, dei giapponesi e dei russi: queste guerre, non mi dite che sono da condannare e da abolire. Distraggono l’umanità e giovano alla sua salute. E speriamo che non finiscano mai. Anzi, sono contento di sapere che non finiranno mai. Ragionamenti questi, lo so, buoni per uomini mediocri come sono io, come sarebbe bene che nemmeno io fossi, come purtroppo sono tanti italiani, come sarebbe bene che tanti italiani non fossero, e come di certo non saranno più appena il Progresso finalmente comincerà ad agire. E tu, lettor mio, tra mezzo secolo ne potrai giudicare meglio di me: almeno, cioè, con un’esperienza di mezzo secolo più lunga della mia. Intanto il cielo s’era rischiarato, l’orizzonte allargato e, non sentendomi più solo, ricominciavo a provare, per fortuna, il pudore del mio angusto egoismo. Ma s’era arrivati e sul marciapiede della mia stazione vidi una bandiera rossa sopra un gruppo di giovanotti vestiti di scuro i quali, appena il treno si fermò, scoppiarono in applausi. Scesi e mi ricordai che tra quindici giorni vi sarebbero state le elezioni amministrative. A casa, un biglietto del sottoprefetto mi pregava di passare da lui appena tornato. Mi proposi d’andarvi la mattina dopo, ma la sera l’incontrai al Circolo. Il nuovo sottoprefetto era lungo, magro, vecchio, con un nobile nome piemontese, anzi con tre nomi: conte Negri Tibò di Valséssera. Devo dire che quando arrivò, a vederlo così vecchio, così nobile, e con tanti cognomi, i più s’affrettarono a sentenziare che era un imbecille. Non lo era: doveva esserlo stato. Cogli anni che erano anche più dei miei, coi traslochi e con le rinunzie, egli infatti s’era combinato un frasario, una piccola collezione di gesti e di giudizii, un manuale insomma del perfetto prefetto che gli si addiceva a pennello e che incuteva ormai una certa reverenza. Si sentiva che egli aveva catalogato gli uomini in tante classi (poche, per non confondersi) come fanno i militari coi gradi, a forza di stellette e galloni, tanto da poter súbito misurare, guardandoti una manica, senza lo sforzo di guardarti in faccia, quanto tu sia intelligente, obbediente, rispettabile. La prima classe, per lui, era di quelli che avevano dirette conoscenze a Roma, nei ministeri; la seconda, di quelli che qualche conoscenza forse ve l’avevano, ma indiretta, tanto da lasciargli insinuare tempestivamente un telegramma o un rapporto ai superiori prima che ad essi giungesse la protesta dei cittadini di seconda classe; la terza, di quelli che per parlare al Governo dovevano fatalmente passare pel tramite di lui sottoprefetto. Nella prima classe erano i senatori, i deputati, i grandi avvocati; nella seconda i pochi milionari del suo circondario, tutti i così detti sovversivi, e le donne che a lui sembravano belle ed eleganti. Si sbagliava qualche volta come può sbagliarsi un generale il quale parlando con un tenente non sappia che egli è figlio d’un deputato influente. E quando si sbagliava, aveva uno smarrimento nello sguardo e un arresto di respiro che, a me almeno, facevano pena. Ma poi la macchinetta tornava in azione e, salvo un po’ di ruggine, camminava abbastanza spedita. Ora questa prudenza ed esperienza doveva essergli costata molti anni di fatica; e da giovane, agl’inizii della carriera, dovevano essere stati dolori. Ma il ministero lo aveva prudentemente lasciato per lunghi anni in sottordine, consigliere di prefettura sotto prefetti più lesti e sfacciati di lui. Quella era soltanto la sua seconda sottoprefettura; e a un consigliere provinciale che aveva parlato di lui col prefetto, questi aveva detto: — Povero Negri, l’hanno mandato al macello. Ma è carne dura. Si difenderà. Io, certamente, senza Nestore sarei stato da lui iscritto súbito nella terza categoria. Ma egli sapeva che Nestore era a Roma presso la presidenza del Sindacato Lavoratori Trasporti; e m’aveva fin dai primi giorni promosso alla categoria seconda, gentilmente. — Cavaliere – mi disse sottovoce quella sera, dopo avermi fatto sedere sopra un divano in un angolo della sala di lettura, – io ho bisogno d’un gran favore da lei. Si tratta del pubblico bene. Questo del favore e del pubblico bene era il principio obbligatorio di tutti i suoi discorsi puramente politici. Mi bastò perchè capissi che si trattava delle imminenti elezioni. — Ella era fuori di città, – continuò tenendo tra il pollice e l’indice della destra gli occhiali pel loro cordoncino e facendoli oscillare a pendolo, – ed io aspettavo con ansia il suo ritorno. — Ero a Roma, veramente. Si fermò chè la parola Roma gli era ostica. Ma considerandomi della seconda categoria, riprese con fiducia il suo dire. — .... aspettavo il suo ritorno per chiederle di lasciare includere il suo nome nella lista del blocco per le elezioni amministrative. Balzai in piedi. Egli restò seduto. Non l’avevo mai veduto dall’alto. Sulla nuda volta del suo cranio, sotto la pelle rosea e sottile che pareva seta, la sutura sagittaria si distingueva dente per dente, così nitida che pareva una lisca di pesce. E due pensieri per qualche istante m’occuparono: che il nostro sottoprefetto aveva in testa una lisca di pesce e niente altro; che a non respingere súbito, d’un colpo, la proposta di lui io perdevo per sempre la mia pace, in casa e fuori di casa. I pensieri convergevano meglio di quel che possa, o lettore, sembrarti alla prima perchè il primo finiva di togliere ogni autorità al rappresentante del Governo nel punto stesso in cui io dovevo opporgli un rifiuto. Egli continuava dolcemente: — Si tratta del pubblico bene..., – quando mi balenò l’idea che doveva salvarmi. — L’altro jeri a Roma, – gli risposi solenne, scandendo le sillabe, – parlavo con Sua Eccellenza il Sottosegretario di Stato agl’Interni.... Non ebbi bisogno di dire altro che vidi un’ondata di sangue irrorare il cranio del funzionario atterrito, e tutta la sua testa diventar paonazza. Anch’egli balzò in piedi; — Ella era da Sua Eccellenza.... — Il Sottosegretario di Stato agl’Interni, appunto. — Conosce Sua Eccellenza? — Un poco.... — Parlarono di me? — Non ricordo. Mi sembra di no. — Io purtroppo non ho l’onore di conoscere personalmente Sua Eccellenza. — Capisco.... Il sottoprefetto faceva tutto quel che poteva per calmarsi. Tentò, per ritrovare l’equilibrio, di ricacciarmi nella seconda categoria: — Certo ella è andato agl’Interni insieme a suo figlio. — Le pare, conte! Ma questo non c’entra: l’importante si è che io non posso accettare d’essere candidato nelle prossime elezioni amministrative. Anzi prego lei d’ajutarmi a convincere súbito di questo mio necessario rifiuto gli amici che hanno pensato a me. — Certo, certo, caro cavaliere. Ella lo sa: se le posso essere utile in qualche cosa.... — Poichè ella è così buono, mi ajuti anche in un’altra faccenda. Quando parlerà col sindaco d’oggi o col sindaco di domani, lo preghi di sollecitare il mio collocamento in pensione. Da due anni ho diritto alla pensione. — Stia tranquillo. Me ne occuperò súbito. Immagino quanto dolga al Comune privarsi d’un medico come lei, d’un uomo autorevole come lei.... Sentivo che egli si veniva rimettendo dal colpo che gli avevo assestato quando avevo evocato in quella penombra il fantasma del suo padrone romano. Anche io già ne provavo un leggero rimorso. Era meglio che ci separassimo. Guardai l’orologio, protestai una visita urgente ad un agonizzante, ed uscii. La mattina dopo, spicciate le visite, me ne andai addirittura a Poreta. Lassù non si parlava di elezioni, o almeno nessuno me ne parlava. Margherita teneva con sè per coltivare il mio poderuccio, un figlio e un fratello: il figlio Achille, sui sedici anni, sempliciotto e rubicondo; il fratello Matteo sui quaranta, smunto, sdentato e traffichino che non parlava mai, ma pensava sempre al miglior modo di far quattrini. In guerra, con la fortuna di non aver più che due o tre denti e con l’ingegno naturale, era riuscito a far di tutto, l’attendente, l’infermiere, il piantone, il cameriere, il magazziniere, l’usciere di tribunale, da Padova in qua, senza mai toccare un fucile. Dopo Caporetto aveva scoperto una professione anche più utile: quella del sensale di balie, che dai nostri monti partono, credo, da secoli balie per tutta l’Italia centrale, da Bologna a Roma. La prima l’aveva trovata per la moglie d’un giovane generale dell’Intendenza, che s’era sgravata a Bologna. Era stato il principio della fortuna di Matteo. Con l’arricchirsi dei contadini le balie si sono fatte rare, e le poche che si trovano costano più d’un ministro. Magari anzi restassero come i ministri attaccate al loro posto. Matteo aveva risolto il problema così: un terzo della mediazione che gli spettava e che egli riscuoteva súbito andava al marito se c’era o, se no, alla stessa donna, col patto che questa non disertasse prima di due o tre mesi. Dopo i tre mesi, la balia o fingeva d’ammalarsi, o chiedeva il triplo del salario, o addirittura fuggiva. Così con una sola balia Matteo poteva successivamente accontentare tre o quattro clienti e guadagnarsi molte centinaia di lire. Smobilitato non s’occupava più di bimbi di militari chè i militari ormai sono poveri, per lo più; e la sua clientela era ormai tutta di ricchi. Un poco questa clientela la conoscevo anche io perchè spesso, nei casi più fortunati, Matteo mi portava a casa la balia perchè la visitassi e le rilasciassi il certificato medico. Io glielo davo gratis, perchè Matteo, quando non viaggiava pel suo traffico, lavorava nel mio casale, e bene e con ordine e con rispetto, se non della mia proprietà, della mia persona: me lo dovevo cioè tenere da conto. Nel presentare e vantare il suo soggetto era stupendo. La ajutava a spogliarsi, con una destrezza materna; ne lodava la salute, il colore, i capelli, i denti, le forme, la copia del latte, le parentele sanissime, risalendo anche al nonno o alla nonna. Nè davanti alla sua faccia ossuta e vizza con due fosse al posto delle gote, si poteva pensar male quando si dava a maneggiare così bravamente quelle carni giovani e sode. Tanto si sentiva insospettabile che non si peritava d’afferrare con le due mani gialle e nodose la mammella più turgida e di fartene sprizzare il latte addosso per provarti la bontà della merce. Dopo traeva súbito di tasca una pezzuola pulita e asciugava egli stesso il seno della sua protetta, e se la rivestiva alla lesta continuandone l’elogio, chè in quei momenti sapeva anche essere loquace. Aveva imparato molti termini, diremo, tecnici sulla composizione e l’età del latte, sulla forma e le parti e i malanni delle mammelle, intercalandoli a consigli che pronunciava con sicumera, sul modo migliore di cibare e di trattare le nutrici, tra il rispetto degli ansiosi clienti e il soddisfatto orgoglio della donna ammaliziata. Si diceva che dopo la guerra ne avesse collocate anche a mille lire il mese. Dai suoi tanti viaggi a Roma aveva tratto una frase: – Questa donna, credano a me, è come la lupa che allattava due gemelli e rideva. – Le balie se le cercava magari nove mesi prima chè conosceva giù per tutta la piana e su per tutti i colli le vicende delle zitelle e delle maritate, e la sua propaganda e le sue offerte le cominciava per tempo quando nemmeno la donna era sicura della sua maternità. Si diceva anzi che qualcuna a questa prima maternità si fosse avviata per le sollecitazioni di Matteo, con la speranza di farsi da balia un gruzzolo di dote e assicurarsi così un marito ragionevole. Dicerie o verità, Matteo era ormai un uomo autorevole; e Margherita era orgogliosa d’aver un siffatto fratello al suo fianco. Ora quella mattina io ero appena giunto col biroccino sull’aja e lanciavo le redini a Margherita quando questa m’annunciò che da due ore era arrivato anche Nestore e se n’era andato con Matteo verso l’oliveto del sindaco. L’oliveto Pópoli si stende in declivio cinquecento metri più su dei miei campi. Dalle nostre parti gli ulivi non vegetano bene che in collina; e i più ricchi poderi della piana hanno ciascuno un oliveto o due sulle coste dei monti. Questo dei Pópoli era bellissimo e vasto, di cupa foglia, ogni tronco potato e scavato e lustrato, pareva, da un ebanista, ogni pianta sostenuta da un suo murello come in un vaso; infine, tutto solatìo come un giardino. Ma Nestore, cittadino, socialista e ferroviere che lassù a Poreta non era venuto, credo, da prima della guerra, che andava a cercare tra gli ulivi? E che aveva da chiedere a Matteo? Balie anche lui? Lo vidi tornar giù per lo stradello dell’orto insieme a lui, ragionando fitto, anzi scrivendo, a un certo punto, qualcosa sopra un foglietto e poi rileggendo lo scritto a Matteo. Quando entrò nella mia stanza, era felice e padrone di sè e del mondo, come quando l’avevo a Roma trovato nella soffice sede del suo Sindacato. E le prime parole che mi disse, furono queste: — Quanto può valere, secondo te, l’oliveto del sindaco? — L’oliveto? — Già, l’oliveto. Il sindaco vuol vendere l’oliveto, vuole vendere i suoi casali, vuole vendere tutto, a fuoco e fiamme. Ha paura. È stato a Roma per questo; ma a Roma nessuno compra e tutti gli hanno consigliato di vendere sul posto, a lotti, se proprio vuol vendere. — Queste cose chi te le ha dette? E che te ne importa a te di queste cose? Si sedette sulla mia poltrona. È una poltrona vecchia e dura, la sola che ho portata lassù in campagna. Se non era una poltrona dura e vecchia, non l’avrei portata in campagna. Ma io mi ci seggo di fianco, e così mi ci accomodo; e alla fine so anche schiacciarci un sonno. Nestore invece appena sentì la difficoltà di adattarvi il suo giovane corpo, s’alzò dandole un calcio in una gamba, e si sedette sul letto. — Un affare è sempre un affare, – mi rispose quando si sentì sul soffice: – E se è un buon affare, è inutile abbandonarlo agli uomini d’affari col preconcetto che, pure essendo buono, resta sempre un affare. Tu fammi il piacere di dirmi quanto, secondo te, l’oliveto può valere. Ha mille piante, tutte di frutto e giovani. — Diciamo sessantamila lire. — Io gliene faccio offrire trentamila. — Le hai? — Basta firmare un compromesso e dargli cinquemila lire. Le ho. Se non le avessi, le troverei. Cinquemila lire, oggi.... — A trentamila non te lo dà. Ma se te lo dà, un giorno dovrai pur pagargli le altre venticinquemila. — A quell’ora l’avrò rivenduto. — Lui non trova a vendere e tu troverai a rivendere? — Forse ho già trovato. Non stava fermo un minuto tutto preso dalla sua idea; e l’idea gli doveva piacere perchè rideva e rideva. — Insomma per trentamila, sarebbe secondo te un buon affare. — Ottimo. Ma non l’avrai. S’avvicinò a me, affettuoso; mi mise una mano sulla spalla, mi sussurrò da vicino: — La mia intenzione è d’averlo per niente. Quella letizia di Nestore era contagiosa. Gli affari, gli affari.... Non ero mai stato buono di farne, e nemmeno i miei libri vecchi ero mai riuscito a rivenderli altro che a peso di carta. Quante volte Giacinta me lo aveva rimproverato.... — Tua madre lo sa? — Si capisce. — E i tuoi compagni che diranno? — Il compromesso non lo firmo io. — Ma al momento della spartizione.... anzi dell’incameramento di tutte le terre da parte dello Stato? — La spartizione la faremo noi. — Sono un imbecille. Nestore mi sorrise affettuosamente. E d’un tratto scorsi la verità. Nestore ritornava borghese, Nestore amava la proprietà, Nestore voleva essere proprietario. Che cosa è un borghese? Tante volte me l’ero domandato dalla guerra in qua, senza più riuscire a trovare una risposta. Ebbene: il borghese non è chi possiede, ma solo chi desidera di mantenere ad ogni costo quel che possiede; e più borghese è chi non possedendo desidera ad ogni costo di possedere. Che socialista, dopo tutto, significasse soltanto uno che desidera di diventare borghese, che cioè non possedendo desidera di possedere? In altri termini, se invece d’essere un povero medico condotto, proprietario d’una casuccia di dieci stanze in città e d’un casaluccio di dieci ettari in montagna, io fossi stato un grosso proprietario e un ricco borghese, forse Nestore non sarebbe mai stato nè socialista nè ferroviere.... Quando io, cercando la soluzione d’un problema, riesco a trovare che la colpa è mia, m’acquieto súbito. La colpa del socialismo di Nestore era mia. — Ma come sei riuscito a conoscere le intenzioni del sindaco? — Da Matteo che cerca una balia pel fratello del sindaco: voglio dire pel figlio del fratello del sindaco. E per ingraziarselo gli fanno tutte le confidenze e le carezze che vuole. — Il mondo è piccolo. — Ti pare? Forse è piccolo per te che non guardi mai all’avvenire. Volevo fargli notare che egli mescolava l’idea di tempo all’idea di spazio. Ma avrei fatto deviare il discorso: — Matteo come ha pensato di venire a raccontare queste faccende a te? — È venuto a Roma jeri per le elezioni. Matteo è nostro candidato nelle elezioni amministrative. — Matteo è socialista? — Si capisce. Volevo francamente ripetere a mio figlio che suo padre era un imbecille poichè non conosceva nemmeno il partito politico dei suoi due contadini. Ma in quel punto entrava Margherita col vassojo della limonata. Nessuno sa fare la limonata come Margherita; fresca ghiacciata, agro e zucchero dosati come dovrebbero essere dosati nella vita. Ed è sua l’invenzione di spruzzarvi dentro due o tre goccie d’acqua d’anici per renderla anche più abboccata e dissetante. — Margherita, non m’hai detto mai che Matteo era socialista. — Socialista? Matteo? Oh Vergine santa! Non lo sapeva nemmeno Margherita: eravamo imbecilli in due. Nestore s’era tracannato il suo bicchiere d’un fiato. Io sorseggiavo il mio: — E credi che riuscirete? — È certo. — E chi farete sindaco? — Te, se vuoi. Rividi la lisca di pesce sul cranio del conte Tibò di Valsessera. Che sarebbe avvenuto della mia pace domestica se avessi dovuto in quel punto confessare a Nestore che avevo accettato d’essere candidato nella lista avversaria? No di qua, no di là: la saggezza è fatta di rifiuti come la virtù. E la virtù non è forse soltanto un nome della saggezza? In ogni modo il blocco borghese m’aveva solo chiesto d’essere consigliere; Nestore m’offriva addirittura d’essere sindaco. Confesso che la differenza non mi dispiacque perchè tra il sottoprefetto e Nestore ero contento di riconoscere che Nestore era più intelligente: o, almeno, più cortese. Rifiutai, s’intende, anche l’offerta di Nestore; ma gli offrii il cavallo per andare alla stazione. — Se sai di altri buoni oliveti in vendita, avvertirmi. — Solo oliveti? — Solo oliveti. Poi ti dirò perchè. — Ma siete proprio sicuri di riuscire? — Sicurissimi. — Non dico solo nelle elezioni. — Capisco: parli degli oliveti. Certezza matematica in tutte e due le faccende. Io credo che la forza dei socialisti e comunisti è la loro certezza in tutto. Questo almeno l’hanno imparato dalla Chiesa. Non dubitano mai. Affermano sempre. La fede è cieca: proprio la fede che muove la Montagna. Noi borghesi, sì e no, no e sì, forse, chi sa, ricordiamo, ponderiamo, confrontiamo, speriamo, ascoltiamo.... Alla fine si resta nudi. Mi ricordavo lo spavento che agl’inizii della mia carriera di medico mi coglieva ad ogni scampanellata. Un nuovo malato.... Capirò il male che ha? Lo guarirò? Mi sbaglierò? Lo ucciderò? E quando m’accostavo all’infermo, avevo più paura io di lui che lui di me. Nestore invece e i suoi compagni, pur d’avere ragione, lo avrebbero ucciso o almeno lasciato morire, sereni. Il fatto si è che alle elezioni vinsero i rossi e fu eletto sindaco l’avvocato Pascone comunista e, per mettere a balia la società futura, Matteo Schiantelli, il mio Matteo, fu nominato assessore all’igiene; che Nestore fu eletto consigliere provinciale; che l’indomani il commendator Pópoli, spogliato dopo dodici anni della sua sciarpa ed autorità sindacale e così esterreffatto che per un giorno non si rase e per due giorni non uscì di casa, mandò suo fratello a chiedere a Matteo se l’ignoto compratore avrebbe accettato di firmare il compromesso per trentacinquemila. Matteo ripetè trentamila. Avanti, popolo, alla riscossa! Bandiera rossa, bandiera rossa, Bandiera rossa trionferà! Andarono a cantarglielo sotto casa all’una dopo mezzanotte, punteggiando la strofa con tre sassate ai vetri, così ch’egli pensò di partire per Roma. Ma prima consegnò una procura a suo fratello e questi firmò il compromesso di vendita dell’oliveto, esattamente per lire trentamila. Quod erat demonstrandum. Ma a questo punto, non avendo personali ragioni per condividere il terrore dei miei concittadini, una domanda sopra tutto m’assillava: Cencina, Cencina, già tradita da un capitano, s’era dunque sbagliata volgendosi dopo Nestore socialista a un colonnello di bersaglieri?