< Mio figlio ferroviere
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XIII. La teoria d’Ippocrate
XII XIV

XIII.

LA TEORIA D’IPPOCRATE.

Ma quella notte era dal destino consacrata a grandi eventi. E il primo fu per me la vista del commendator Pópoli appena reduce dal volontario esilio, trionfante, seduto in piena luce fuori del Caffè del Corso; e accanto a lui sua moglie, fresca, felice, scollata, che vestita d’un bell’abito color mattone pareva un boccio di rosa in un vaso di terra; e accanto a lei, il colonnello dei bersaglieri sempre così lucido e multicolore che lampade e specchi sembravano messi lì per illuminarlo e riflettere solo lui. Attorno a loro un andirivieni d’ufficiali e di borghesi che commentavano i fatti del giorno. E poichè il resto del Corso coi suoi lumi deboli e rari era bujo al paragone, quei venti metri di folla e di luminaria erano come un’apparizione nella notte o, se il paragone non è irriverente, l’altare fiammeggiante in fondo alla chiesa oscura. Mi fermai anche io per santificarmi in tanta compagnia. Tutti, al Caffè, parlavano di Bologna, Bologna, Bologna. I giornali di Roma giunti nel pomeriggio ancóra tacevano. Ma le prime notizie erano giunte al sottoprefetto. I comunisti di Bologna avevano ucciso a revolverate un consigliere comunale nella sala stessa del Consiglio, un consigliere comunale mutilato di guerra, decorato, padre di famiglia, amato da tutti, dicevano. Dentro e fuori del caffè, i racconti, i commenti, le maledizioni, le profezie si moltiplicavano. Chi s’allontanava, camminava lesto per portare a casa la notizia, per cercare ancóra un crocchio d’amici al Circolo, o in un altro caffè, o in un altro ritrovo, cui comunicare súbito il racconto del delitto e la propria indignazione. Il dottor Gorini lo telefonò all’ospedale, al medico di guardia che era un bolognese. A udire il campanello del telefono, altri pensarono di chiedere particolari alle città vicine, magari a Roma. E una voce circolava da un tavolino all’altro: – Domani, fuori le bandiere, a mezz’asta, pel lutto di Bologna. – Anche il capitano Tocci era lì con la moglie. Oramai i nobili suoceri s’erano riconciliati con lui e con quei benedetti concimi che fabbricava suo padre. Si diceva perfino che il vecchio conte Zatti-Cantelli interrogasse gli avvocati sul miglior modo di lasciare morendo il suo titolo al genero. Intanto era lì al caffè con sua figlia e col Tocci e, le due mani sul pomo della mazza, lanciava al cielo sguardi e sospiri udendo le notizie dell’eccidio; e descriveva Bologna a chi non la conosceva, ed anche a chi la conosceva. Delle bastonate al sindaco nessuno parlava. Tocci aveva raccontato degli applausi che avevano condotto Pascone alla finestra, e poi dei fischi, e ridendo lo raffigurava agli ascoltatori con un gran berretto da notte bianco e rotondo che invece erano le mie garze. All’improvviso giunse anche quella notizia: i comunisti avevano bastonato il loro sindaco perchè era scappato in campagna e non s’era lasciato per tutto il giorno vedere. – Dovrà dimettersi, dovrà dimettersi, – ma il commendator Pópoli, col sussiego del giudice che, letta la sentenza capitale, non s’occupa della bassa bisogna degli aguzzini e del boja, fingeva di non udire. Intorno a lui, però, l’orgoglio di non essere stati sopraffatti come a Bologna ma d’aver prevenuto il nemico e d’averlo battuto e scornato, dava baldanza anche ai più prudenti. Insomma la notte era fonda e la città nel sonno, che vi saranno stati, sì e no, cento cittadini desti a quell’ora. Ma io sentivo che gli animi ormai s’erano voltati davvero e che il regno di Pascone e dei suoi era tramontato, perchè, se anche Pascone, con quel solo occhio che per quei giorni gli era rimasto, non avesse veduto la necessità di dimettersi, pure ad ogni suo arbitrio, anzi ad ogni sua parola si sarebbe ormai risposto con vigore. Ma di Pascone m’importava meno che di Nestore. Era colpa della notte la quale suole moltiplicare tutte le paure! Era la certezza anzi l’urgenza oramai del pericolo? Certo v’entrava anche un poco d’egoismo perchè il Tocci, il Pópoli, il colonnello m’avevano al Caffè salutato con una certa freddezza, ora che dei miei buoni offici d’intermediario nessuno credeva d’aver più bisogno. Ma il fatto si è che quella sera, tornandomene solo a casa, io non avevo più la sicurezza di quando ero tornato da Roma, e nel treno avevo pensato all’avvenire di mio figlio. Mi risalì alla memoria anche la compera dell’oliveto; perchè, se Nestore s’era impicciato in quelli affari e per distrigarsene non aveva denari, avrei pur dovuto procurargliene io, con la mia mezza miseria, proprio adesso che ero vecchio e capace soltanto di restare chiuso nel mio studio a sporcare la carta coi miei ricordi. Quello aveva voluto l’oliveto dei Pópoli; ma oramai per l’oliveto io avrei, chi sa, dovuto perdere o ipotecare Poreta mentre Nestore si sarebbe salvato facendosi traslocare lontano.... Arrivato davanti a casa mia, alzai gli occhi e vidi la mia stanza da letto illuminata. Non so più che immaginai; so che vi salii di corsa. E nel mio letto trovai mia moglie in camicia, coi suoi diavolini di carta e capelli, ritti intorno alla fronte come i serpentelli di Medusa. — Giacinta, tu qui? — Sono arrivata col treno delle nove. Nestore verrà domani. Vuole parlarti. T’aspetterà a Poreta verso le tre. — Che è accaduto? — Niente. Che vuoi che sia accaduto? Nestore è stanco della politica attiva. — Da quando? E perchè? — Non lo so. M’ha detto jersera che vuole lasciare le Ferrovie. E io sono tornata súbito a casa per essere in un momento simile accanto a te. Era il mio dovere. — Lo sai qui che è accaduto? — Teta m’ha detto che hanno bastonato il sindaco. — Se Nestore che è consigliere provinciale, domani si lascia vedere in città, bastonano anche lui. Ma lo bastonano i suoi, prima degli avversarii. — Nestore, t’ho detto, andrà a Poreta, non verrà in città. Cominciai a spogliarmi rassegnato. Ma non trattenevo i sospiri: — Giacinta, Giacinta, avevo ragione io, quando dicevo che Nestore aveva preso una cantonata! E tu eri beata.... — Nestore sa sempre quello che si fa, non avere paura. Vieni a dormire, – e si voltò tutta verso il muro traendosi il lenzuolo fin sulle orecchie. Ma, mentre io mettevo sul letto il primo ginocchio, o ch’ella troppo pesasse sul suo lato e ch’io dal mio troppo premessi, il letto s’ingobbò e il cuscino di Giacinta sollevò le orecchie e sotto vi scorsi un pacco di carte azzurrine dure e lisce che sgusciavano via. — Che tieni sotto il guanciale? — Sotto il guanciale? – E si voltò d’un balzo e con una manata si rificcò quelle carte sotto la testa: – Sono carte che Nestore m’ha confidate. — Ancóra lettere di donna? — No, per fortuna. — Segreti politici? Lascia vedere. — Non posso. — Insomma, qui almeno nel mio letto, sarò il padrone. — Dalla tua parte, sì. Dalla parte mia la padrona sono io, – e con un gesto repentino fece scivolare il pacco misterioso dentro il letto e ci si adagiò sopra sicura, ripetendo: – Spegni, che voglio dormire. Ma i tanti ricordi di quella gran giornata, dal fantoccio di Pascone all’inatteso ritorno della mia consorte, pareva che in quel momento mi ballassero attorno per farmi impazzire. A che mai può condurre la politica, lettor mio, che forse avrai la ventura di vivere in tempi più tranquilli e morigerati di questi affannatissimi miei! Dopo tanti e tanti anni, eccomi dalla curiosità e dall’ira sospinto ad un gesto che adesso, a scriverlo, un poco mi umilia, lo confesso, e un poco mi fa ridere. Scoprii cioè d’un colpo le grandi e venerabili membra della mia antica consorte, e con una spinta le feci rotolare verso il muro, e di sotto a loro trassi il pacco che già s’era fatto caldo e lo svolsi, mentre quella, le mani sul volto, pel pudore tempestava e pel dispetto piangeva. E che vidi mai? Un ritratto dell’Italia con la corona turrita. Proprio: il ritratto dell’Italia liscio e minuto, stampato in filigrana. Erano dodici certificati di pubblica rendita consolidata al cinque per cento, con la loro scaletta di tagliandi: dodici certificati di cinquemila lire ciascuno: totale lire sessantamila. — Di chi sono? — Tuoi, tuoi, – quella gemeva. — Miei? — Tuoi, miei, di Nestore, nostri. — Dove li ha presi? — Dove li ha presi? Osi anche accusare tuo figlio d’un delitto? Discese furente, afferrò la sua veste da camera che era di raso viola, se ne ammantò, e a piedi nudi, a gravi passi, alta la testa, uscì. Era il tocco. Non ne potevo più. M’addormentai. Sognai, mi ricordo, il Re. Ma dove eravamo? A Poreta, proprio sull’aja del mio casaluccio di Poreta coi due pagliai; a destra e a sinistra, la tettoja col carretto rosso, con l’aratro e con le pannocchie di granturco appese alle travi. Proprio il Re, là sotto, col suo sorriso tra affettuoso e scanzonato, come l’avevo veduto quel giorno in piazza per l’inaugurazione del monumento a suo nonno, quando mi chiese quanti metri cubi d’acqua portava al minuto il nostro piccolo acquedotto ed io, bestia, non seppi che rispondergli, e ne rimasi accorato per un mese. Verso la casa e verso la tettoja c’erano degli ufficiali, e anche dei cavalli lustri come fossero verniciati. Adesso, scrivendo, mi viene in mente che quello era, su per giù, lo sfondo dell’incontro tra Vittorio Emanuele secondo e Radetzky dopo Novara a Vignale, nella litografia che sta appesa qui nel mio studio, da quarant’anni. Basta: il Re stava sul davanti della scena solo con me, e mi regalava un ritratto dell’Italia, con la sua corona di torri, liscio e minuto, stampato in filigrana, d’un color tenero di cielo, che pareva una miniatura. E poi un altro me ne regalava, e poi un altro, e mi diceva: – Questo è per suo figlio, e anche questo, e anche questo. È socialista, ma sì, lo so. Non fa niente. Sarà contento lo stesso, vedrà. – E i ritratti di quella bella e cara signora, mentre egli li sfogliava e sorridendo me li passava, diventavano sempre più grandi, grandi come una cartella di rendita consolidata. Ed egli mi mostrava i tagliandi, di semestre in semestre. E s’avvicinava un generale alto alto, magro magro, serio serio, con un pajo di forbici lunghe lunghe appese per una catenella d’oro al suo cinturone di cuojo, e cominciava a tagliarne uno, due, tre. E io mi sbigottivo a vedere che il vento se li portava via, e per la reverenza, non osavo parlare, anzi non osavo nemmeno voltarmi a vedere dove andavano a posarsi. E quello, sotto ogni Italia, faceva con quei tagli come una scaletta. E il Re buono buono mi diceva: – Vede, cavaliere, l’Italia sta quassù e l’Italia sarei io. Su per questa scaletta s’arriva a me. È la scala che prendono tutti. Basta che mettano il piede sul primo gradino: non smettono più di salire. E io, e l’Italia, li aspettiamo tranquilli lassù. – Il generale tagliava tagliava. Io morivo dalla voglia di supplicarlo di smettere. E non riuscivo a schiudere le labbra, per la reverenza. Mi svegliai, e aprii la bocca. Giacinta era tornata accanto a me; mi voltava le spalle, e placata dormiva. Saranno state le sei. Scesi dal letto in punta di piedi. E verso le sette, al solito, uscii. Era giorno di mercato, per l’ottavario di Sant’Andrea patrono della nostra città; e i contadini delle leghe rosse e di quelle bianche eran venuti con buoi, vacche, tori, vitelli, asini, porci, pecore, oche, polli e tacchini sul campo della fiera che è un prataccio rognoso tra le mura e il torrente, a destra dello stradale per la stazione, e che solo sotto le mura riceve il refrigerio d’un po’ d’ombra, anche per merito d’una dozzina d’olmi ruvidi e bitorzoluti, proprietà del Comune e perciò scapitozzati, da chi cápita prima, fino al tronco, con poche fogliacee polverose. Dovendo visitare un vecchio sopra un’osteria in fondo al Borgo, andai prima a fare un giro per la fiera, in cerca di Matteo che pel suo mestiere soleva frequentare le processioni e i mercati, specie dal lato delle donne le quali nei mercati se ne restano accovacciate all’ombra, se non c’è altro, dei carri, presso il loro pollame. Matteo non lo trovai, ma udii molta gente parlare dei casi del giorno avanti; e i bianchi biasimare i rossi perchè volevano in Consiglio comunale crescere i dazii e le imposte come se gli elettori loro non fossero stati contadini dei quali molti pagano le imposte e tutti pagano i dazii; e i rossi disprezzare i bianchi perchè erano secondo loro tutte lepri che al primo calpestìo si rintanano, e narravano d’averne fatto il dì innanzi l’esperimento a Pieve San Bruno, che era un altro comunello comunista, dove in Consiglio s’era deciso, se i fascisti arrivavano, di suonare a distesa la campana del Municipio per far accorrere con forche e falci i contadini dai dintorni; ma il povero sindaco rosso, non fidandosi, aveva suonata la campana tanto per provare, e di contadini non se n’era veduto nemmeno uno, chè anzi tutti, a quell’avviso, s’erano chiusi in cantina o fuggiti nei boschi; e adesso all’ira sua, invece di scusarsi con lui, se ne beffavano e gli davano del matto. Ma per la bastonatura di Pascone, rossi e bianchi tornavano d’accordo nell’accusare i fascisti e nel giurare che erano stati loro ad inventare maligni la voce che i suoi stessi compagni l’avevano percosso. Aggiungevano che altri fascisti dovevano in quel giorno di mercato giungere in autocarro, e anche in treno, da altri due o tre paesi della pianura a fornire l’opera e a malmenare, dopo il sindaco, gli assessori, i consiglieri e, a caso, i loro elettori. Di tante dispute e ciarle restò solo questa che era la più minacciosa. E sul campo i contraenti erano svogliati, le orecchie tese più ad udire in tempo il rombo d’un motore o le prime grida d’una zuffa, che le piane proposte di chi voleva vendere o comprare. E la parola bastone tornava tanto spesso in tutti i toni sulle labbra di tutti, che, se vi fosse stata minaccia di peste invece che di bastonate, tanto non ne avrebbero parlato. E questo, secondo me, avveniva perchè il bastone ha da secoli, sotto i varii nomi di randello, mazza, verga, bacchetta e via dicendo, un valor politico che sale fino al simbolo e al mito come, ad esempio, nel bastone del maresciallo e nella bacchetta del penitenziere; poi, perchè ogni altra arma, dall’arco al fucile, può sbagliar mèta e ti lascia la speranza di vederne, in vece tua, colpito il tuo prossimo, la quale speranza è anche in guerra uno dei primi fattori del coraggio; infine, perchè il bastone, dovendo essere adoperato da vicino, presuppone in chi se ne serve un odio deliberato, preciso e personale che è fastidioso solo a pensarlo. Bastone, bastonate, bastonare, bastonati, bastonature: parole da medioevo che a me vecchio conservatore piaceva vedere sempre vive ed attuali, nonostante il gran Progresso; prova inattesa ma sicura che l’umanità, non avendo mutato di spalle, non aveva mutato d’animo. Ora avvenne che, mentre io m’avviavo a tornare tra quella calca in città, passai accanto a un toro biondo e superbo che aveva un sol ciuffo nero tra le corna, e pareva un monumento. Tutt’attorno, una calca di villani e di sensali lo ammirava; e chi ne lodava la forma e la forza, e chi il collo, e chi il pelame, e chi le corna, e chi altre parti che sono pel toro quel che è la lingua per un avvocato. Lo reggevano in due, con due corde, una alla morsa delle froge, una alle corna; e un ragazzo con una frasca d’ornello allontanava da lui le mosche e i tafani. – Fai piano, – aveva ammonito uno dei due padroni, – fai piano quando gli passi con la frasca sotto la pancia. – Ma il ragazzo un po’ era orgoglioso di sventagliare quella divinità, un po’ ne aveva timore, così che a un punto, credo, dimenticò la raccomandazione perchè il toro gli sferrò un calcio che lo mandò in un urlo tre metri più in là, e insieme dette, scagliandosi avanti, uno strattone violento che uno dei due domatori perdettesi la corda mentre l’altro, tenendola a due mani e gridando e bestemmiando, non era buono più che a seguirlo, strisciando e pontando e rotolando nella polvere. Quelli attorno, e io pel primo, ci salvammo a gambe levate, ma eravamo appena al riparo dietro gli olmi che udimmo le donne sorprese da quelli urli e da quel trambusto gridare: – I fascisti! I fascisti! –, e l’urlo, dalle file delle donne, dei polli e delle oche, giunse ai vecchi con le pecore e agli uomini coi buoi. E fu in un baleno tutt’una fuga, i più abbandonando bestie e parenti, alcuni cercando di spingersi avanti a randellate i quadrupedi. Avevo appena raggiunto la porta che il campo già era deserto, e si vedevano branchi d’uomini e d’animali precipitare dalle ripe e attraversare il torrente sulla ghiaja senza curarsi del ponte, e altri di qua darsi ai campi, le donne con le vesti alzate a due mani per liberare le gambe. Solo il toro aveva imbroccata la gran strada della stazione, e su quel bianco trotterellava tranquillo accanto alla sua grand’ombra, voltandosi a guardare a destra e a sinistra in cerca d’un uomo tanto cortese da riprendere in mano quelle due corde che, non si sa mai, potevano impastojarlo e sconciarlo. – I fascisti! I fascisti! – La gente che faceva ressa sulla porta della città ripeteva l’annuncio, sconvolta, rossa, sudata, cercando di sboccare in Borgo; ma in Borgo già si chiudevano tutte le porte, e a me che m’affannavo a ripetere: – È stato un toro, un toro che è scappato.... – nessuno dava ascolto perchè dicevo soltanto la verità. Quando giunsi sul Corso in cima alla salita, vidi da tutte le finestre metter fuori il tricolore, e insieme udii suonare il campanone del Comune. I due fatti erano contradittorii o non lo erano? Figli tutti e due della paura, o tutti e due dell’entusiasmo? Certo più il campanone suonava, più bandiere sbocciavano; ma anche più gente scappava. La città insomma fu imbandierata e deserta per due ore, finchè cioè i cittadini e i contadini non s’accorsero d’essere stati burlati da un toro. Nè se ne mortificarono come sarebbe accaduto se a burlarsi di loro fosse stato, invece del toro, un bue, perchè il toro è da tempo immemorabile un animale simpatico, simbolico ed invidiato. A far suonare il campanone, lo seppi poi, era stato il povero Matteo che rimasto, solo assessore, a guardia del Comune, al primo che gli annunciò trafelato l’arrivo favoloso dei fascisti sul campo della fiera, aveva risposto ordinando al donzello d’attaccarsi alla campana, e poi fuggendosene anche lui dalla parte della Rocca, monte monte, tanto che due ore dopo lo ritrovai nel granajo a Poreta che faceva finta di niente, e senza giacca e senza scarpe, seduto sopra un moggio rovesciato, la pipa in bocca, vagliava il granturco per la semina. Ma v’era arrivato da pochi minuti, ingiungendo a Margherita d’assicurare tutti essere lì lui da due giorni, al suo semplice lavoro. E questo lo seppi súbito dalla stessa Margherita la quale ne rideva tranquilla coi suoi bei denti bianchi e i suoi begli occhi neri, il Signore me li conservi per altri dieci anni, che non chiedo di più. E accanto a lei che veniva spennando un pollo in mio onore, mi sedetti sull’aja ad aspettare l’arrivo di Nestore. S’udirono intanto due colpi di fucile verso il monte che per l’eco diventarono quattro, e Matteo mise la testa fuori dalla finestrella quadrata del granajo. – Cacciatori di palombe sulle quercie dei Tordelli, – gli spiegò Margherita, prima che quello parlasse. Mezz’ora dopo, un porco si dette a urlare nello stalletto, che forse dormendo gli s’era schiacciata una zampa sotto il peso del ventre, e la testa di Matteo risbucò fuori ansiosa a interrogare i cieli. – È il maiale che sogna, – ricominciò Margherita e ancóra rideva. La pace lassù era tanto piena e serena, e la vasta pianura dove la gente sudata s’azzuffava, era davanti ai miei occhi tanto bella, azzurra e lontana che tutte le vicende e gli affanni del giorno e della notte avanti, mi sembrava d’averli o letti o uditi raccontare, anni prima; e ventilato da un’arietta fresca, profumata di menta, io tornavo a ripetermi il proposito di lasciare presto, presto, e per sempre, il mio lavoro e la mia casa in città per fissarmi lassù, convinto ormai che niente placa e libera l’uomo quanto la contemplazione dei grandi spazii dove egli ritrova la misura della sua inutilità. Anzi se mi fosse dato di scegliere dove e come morire, io vorrei morire all’aperto davanti al gran respiro d’una veduta come quella della mia Poreta, godendomi l’illusione di perdermici. E vorrei che fosse di giorno, e non di notte. Perchè un conforto anche sarebbe in quella pianura e su quei colli poter riconoscere tutti i ciuffi neri dei boschi e le case chiare e le strade bianche e i prati verdi, uno a uno, tanto da salutarli, prima d’addormentarmi. Sogni. E così sognando mi guardavo attorno, e a rivedere i pagliai e l’aja e la tettoja mi tornò alla memoria anche il sogno della notte, col Re che mi dava tutti quei ritrattini azzurri dell’Italia e sorrideva, a dir la verità, scanzonato. Dopo tutto, se Nestore nell’universale trambusto di questi anni s’era saputo raggranellare onestamente un suo gruzzoletto, il male non era tanto grande e irreparabile. E dovevo proprio io, nelle mie eterne contraddizioni tra ideale e reale, tra propositi e azione, io che m’ero tanto doluto di vederlo ferroviere e socialista tra il grasso fumo del carbone e della rettorica, io che avevo palpitato di gioja a udirlo desiderare il borghese possesso d’un oliveto, io che avevo palpitato di ansia a veder il mondo e la moda nelle ultime settimane voltarglisi contro; dovevo, dico, proprio io adesso sospettare di lui e respingerlo? Ma sì, aveva ragione il Re del mio sogno: su per la scaletta dei tagliandi di rendita s’arriva a volere il bene e la pace d’Italia, e non v’è strada più sicura, e Nestore prendendo quella strada non s’era sbagliato, e magari tutti, contadini e operai, avessero il loro bel certificato del consolidato cinque per cento... Proprio, l’Italia consolidata. S’udì per la salita il motore che arrancava in prima o in seconda velocità, e Nestore apparve al volante d’una macchina grigia che si fermò di colpo sull’aja: – Tre ore da Roma, – diceva al suo compagno: – Tre ore da Roma senza una panna, – e svitava il tappo sulla bocchetta del radiatore, felice che non ne uscisse nemmeno un alito di fumo. Alzò súbito un’ala del cofano e ci si ficcò sotto a guardare il motore, come se fosse salito a Poreta solo per una corsa di prova. Il suo compagno era l’onorevole Mastiotti, quello che l’anno prima era venuto a pranzo da me. Ma questa volta la moglie l’aveva lasciata a casa, sotto spirito. Anche il deputato tondo, giulivo e impolverato, appena m’ebbe stretto la mano, non s’occupò che della macchina; e a me e a Matteo che nel frattempo, rassicurato, s’era rimesso scarpe, giacca e colletto ed era disceso, la vantava, tenendoci la mano su come fanno i sensali al mercato con le bestie che ti vogliono far comprare: e com’era rapida e com’era agevole e com’era sicura. Nemmeno i suoi distintivi e targhette e spilline m’aveva l’anno prima lodate tanto. Alla fine, a Nestore che traeva la testa fuor dal cofano, io dissi per celia: — Nè io nè Matteo la si compra, puoi star certo. Così entrammo in casa, e Margherita ci promise un po’ di merenda sostanziosa, con due polli invece d’uno, e un melone bianco, e cotognata, e vino vecchio. Io aspettavo che Nestore cominciasse a parlare, e magari mi chiamasse da parte per confidarmi finalmente i suoi segreti. Invece mi disse: — Mastiotti è venuto, per conto del partito, a fare un’inchiesta sui fatti di jeri. In città, lo so, è meglio per oggi non entrare. Digli tu quel che sai, e poi glielo dirà Matteo. E l’inchiesta sarà presto fatta. Noi si riparte alle cinque per essere a Roma alle otto. Io narrai per filo e per segno tutto quello che avevo veduto la mattina e la sera, dalla piazza del Comune alla casa di Pascone; e senza dire delle prolifiche intenzioni della moglie di lui, narrai anche della croce di cavaliere. Matteo poco aggiunse di suo, se non la necessità che i carabinieri, la guardia regia, i soldati, il Governo imprigionassero e impiccassero sollecitamente tutti i fascisti delle città e della provincia. E questo me l’aspettavo. Ma quello che non m’aspettavo, furono le accoglienze che l’onorevole Mastiotti socialista fece al nostro racconto. Distribuiva a tutti i suoi correligionarii ingiurie a saccate: e Pascone era un idiota; e Filiberti era un pagliaccio; e l’aver smurata la lapide era stato da sciocchi, e gli applausi ai bersaglieri erano stati meritatissimi. Non ci metteva ira, ma, secondo il suo carattere, prima rideva, poi sentenziava, con l’aria d’un precettore che ascolta le sciocchezze fatte dai suoi ragazzi, e biasimandoli lascia capire che, a quell’età, con quelle zucche, altro non possono fare. Matteo lo guardava, e alla fine, per prudenza, si mise a ridere anche lui alle spalle dei compagni e a raccontarne tante, di cotte e di crude, che io, solo borghese tra quei tre socialisti, non sapevo più che dire e dove guardare. Mentre raccontava del facchino della stazione che eletto consigliere non voleva più prendere le valigie dei viaggiatori che gli davano del tu e pretendeva che il Consiglio comunale formulasse un regolamento in proposito, arrivarono per fortuna i polli alla diavola con tanto pepe e pomodoro che due bottiglie di rosso scomparvero in cinque minuti, e Mastiotti rasserenato credette utile darmi qualche spiegazione: — Caro cavaliere, siamo a una svolta della storia d’Italia. — Un’altra? Ma non si fa che svoltare, da sei anni. — Questa è la svolta buona. Dentro un anno, noi socialisti saremo al Governo; e questi comunisti torneranno a fare i facchini, che non sanno fare altro. Io guardai Nestore: — È certo, – egli confermò, – tra un anno saremo al Governo. Fino allora nè l’industria nè l’agricoltura potranno risollevarsi. Eccolo il vero ministro dell’Industria, – e versava da bere a Mastiotti. — E i popolari? – chiesi ingenuamente. — Coi popolari ci si potrà intendere facilmente. Noi rispettiamo la religione, tutte le religioni. — E la prima a rifiorire sarà l’industria automobilistica, la vera industria italiana. — E, avanti a tutte, la Smac. — Scusate, – feci io, – che cos’è la Smac? — Dammi il tempo di respirare, caro genitore, e te lo dirò. La Smac, Società Milanese Automobili da Corsa, è la mia fabbrica, la fabbrica che io rappresento a Roma e in tutta l’Italia centrale. La macchina che è qui fuori è una Smac. La macchina che l’altro giorno s’è comprata Mastiotti, è una Smac. La macchina che s’è comprata il ministro del Lavoro, è una Smac. La macchina che per andare a villeggiare in alta montagna s’è comprata il Re, è una Smac. La macchina che per andare in trenta minuti da Roma alla sua villeggiatura di Frascati, s’è comprata il Cardinale segretario di Stato, è una Smac. La macchina che adopera Violetta Deh per andare fuori Porta San Giovanni alla Niagara Film, è una Smac. La macchina che s’è comprata la Missione commerciale russa, è una Smac. Società Milanese: esse, emme. Ma quando i socialisti saranno al potere, la chiameranno Società Mondiale. E il nome Smac resterà immutato. — Ma tu da quando ti sei dato alle automobili? — Io? E me lo chiedi tu che m’hai veduto maneggiare motori quando non avevo dieci anni? Della Smac m’occupo da tre mesi. E in tre mesi, con le mie conoscenze, ho venduto dieci macchine. Dico, dieci, – e spalancava le dita delle due mani: due mani lisce da borghese inguaribile. — A saperti socialista, non hanno fatto difficoltà quelli della fabbrica? E non si sono insospettiti i clienti? — Ti pare! L’Italia è un paese civile. E poi, a un socialista in automobile chi non fa credito? Tutta quella brava gente crede ancóra che il socialista sia un cencioso prepotente. Sono in ritardo d’un secolo, o al più credono, comprando una macchina, di comprare anche me. Solo Violetta Deh, quando venne a provare la sua automobile, mi chiese sottovoce se era vero che io fossi socialista, e m’aggiunse offrendomi con la mano inguantata un mentino: “Anche io sono tutta per Lenin”. — Quando sono venuto a Roma, non m’hai detto niente. — Ancóra non avevo firmato il contratto. Tu lo sai, io non parlo mai che a cose fatte. — Un’altra domanda se è lecita. Come mai la Smac ha pensato a te? — Sono io che ho pensato a lei. Quando s’occupò le fabbriche, il partito mi mandò a catechizzare i compagni della Smac. E non solo impedii che gl’ingegneri fossero sequestrati o malmenati, ma in quei venti giorni feci da ingegnere io; e al loro ritorno i direttori trovarono che noi s’era lavorato più del normale. Chi non lavorava, lo legavo al palo. E per giunta, avevo fatto scavare intorno al palo, una fossetta, e l’avevo fatta riempire d’acqua per tenere a mollo i piedi del colpevole. — Più feroce d’un borghese.... — Idee. I borghesi non sono mai stati feroci. — E i fascisti? — Prima di tutto, non è provato che sieno borghesi; secondo, non è detto che riescano ad essere feroci. — Allora aspettiamo che i socialisti vadano al Governo, – soggiunsi io conciliante, – e che abbiano la Guardia regia a loro disposizione. — Bravo: adesso ragioni bene. — Se poi vi unirete, come si spera, ai popolari, credi che potremo contare sulla ricostituzione del Santo Uffizio? — E perchè no? Anche il socialismo è una religione. Matteo lo guardava, in silenzio, adorando e imparando. Ma alla prima pausa ripensò ai casi suoi, e finalmente, volto al deputato, parlò: — Quell’amica di sua moglie non ha più bisogno d’una balia? Ne avrei una magnifica, sui dieciott’anni, senza marito. — Per ora non ne ha bisogno. Prova ad allattarsi il figlio con le boccette. — Male, malissimo. L’allattamento artificiale è contro natura. Mattiotti lo consolò: — Quando il socialismo governerà il mondo, i diritti della natura saranno ristabiliti. Qui Matteo non pareva convinto, chè la profezia lo toccava troppo da vicino. Si cavò la pipa dalla bocca e, come assessore all’Igiene, andò a sputare fuori dalla finestra. Io m’ostinai, gentilmente: — Anche un po’ di Sant’Uffizio è dunque nelle leggi di natura? Mastiotti mi guardò: — E ne dubita? Lei che è dottore, ne dubita? Che c’è di più inflessibile delle leggi della natura? La natura è ordine. Provi contro le leggi borghesi a non pagar le tasse, e almeno a non pagarle tutte: ci riesce di certo. Ma provi a non respirare: la pena di morte è sicura. E non ci sono avvocati per salvarla. Il tempo passava, e Nestore voleva ripartire. Mi chiamò fuori con un pretesto: — Tu certo sei in ansia per l’oliveto Pópoli. Stai tranquillo: l’oliveto è tuo. — Mio? — Tuo. È un favore che ti chiedo, di metterlo a nome tuo. Se non vuoi, lo metterò a nome della mamma. — Ma come hai fatto a pagarlo? — È stato semplicissimo. Mastiotti ed io, coi danari di Mastiotti e d’altri amici suoi, abbiamo con una ventina di compromessi comprati molti oliveti a prezzi bassi dai proprietarii che avevano avuto il torto di spaventarsi dopo le requisizioni, gli scioperi e le elezioni. Ma adesso molti di loro si sono calmati e hanno chiesto di sciogliersi dal compromesso mediante un premio. Abbiamo acconsentito. Con la mia parte di questi premii tu comperi l’oliveto di Pópoli. È qui accanto, ci fa comodo, e Matteo lo coltiverà benissimo. — Nestore, fallo comprare a tua madre. — Hai torto: la mamma quando avrà di suo un oliveto come questo, la conosci, sarà intrattabile. — Lasciamici pensare. — Pensaci con comodo. Abbiamo otto giorni di tempo. E uscì a dare un’occhiata alla macchina prima di rimetterla in moto. Il deputato annotava su carta della Camera quel che gli avevo narrato per la sua inchiesta. Prima di partire, mi chiese due bottiglie del mio trebbiano più vecchio, contro la polvere della strada. Gliele detti di cuore. Partirono. Restai solo. Margherita mi chiese sottovoce: — Stasera torna a casa? Se resta su, si va a fare con Matteo un giro nell’oliveto del sindaco. E restai a dormire a Poreta. La mattina di buon’ora ripartii per la città. Ero lieto e leggero, la testa, si sa, un po’ vuota. Quando giunsi sul ponte del mulino, trovai il padre di Tocci fermo accanto alla sua automobile. — Ha bisogno di niente, ingegnere? — Avrei bisogno d’un’automobile nuova, caro dottore. — Posso dargliela, – risposi così per ridere: – Si compri una Smac. Mio figlio è il rappresentante delle Smac per l’Italia centrale. — Me n’hanno detto un gran bene. Ma suo figlio, scusi, ha lasciato le Ferrovie? — Da molti mesi, per fortuna. Era nell’organizzazione. — Ah, capisco. E adesso? — Adesso lascia anche l’organizzazione. E si dà alle automobili. — Fa benissimo. Così facesse il mio. — Lasci l’automobile al meccanico. E salga sul mio carrettino. L’accompagno io fino ai Concimi: c’è un chilometro. Saltò su e si spiegò. Suo figlio, sì, un caro ragazzo, e leale e di fegato, e pronto a sacrificarsi per tutti, che anche il matrimonio con quella nobiluccia spiantata era stato, in fondo, un sacrificio; e gli augurava di non avere ad accorgersene cogli anni. Ma quel che più lo angosciava, lui, capo d’un’officina con cinquecento operai, erano le idee di suo figlio. Sì, fascista, fiero fascista, e uomo d’ordine; ma non s’era messo a parlare agli operai, di repubblica, di cooperative e d’altre favole all’infinito? — La repubblica, la repubblica; per andare poi a chiedere a Vittorio Emanuele di Savoja d’essere tanto cortese di venire a presiederla, che un presidente più corretto, onesto e discreto di lui non s’accorgono che non esiste al mondo? Le cooperative, le cooperative.... Per consumare, ottime, d’accordo: ma per produrre, salvo la santa gloria di Luigi Luzzatti, mi sa dire lei che altro hanno mai saputo produrre di tangibile, d’utile, di pratico, al prezzo a cui lo produciamo noi? E anche nel consumo, più di tutto hanno consumato scalini e sedie di ministeri: e quando sono consunti, si rifanno anche quelli, a spese di noi borghesi. Io so che, se continua così, dovrò pregare mio figlio di non mettere più piede in fabbrica. L’altro giorno voleva convincere me, proprio me, a regalare ogni anno un’azione della Società a ciascuno dei miei cinquecento operai: per affezionarmeli, diceva lui; per vedere, dieci giorni dopo, cinquecento azioni vendute a metà prezzo all’usuraio più lesto o più vicino, gli rispondevo io. Interessare, anzi cointeressare gli operai alle industrie? Sì, il giorno in cui interesseremo il vento, il sole e la pioggia ai rischi e ai profitti dell’agricoltura. È certo che senza sole, pioggia e vento non nasce un filo d’erba. Dunque.... — Creda a me, signor Tocci, bisogna rassegnarsi a non capire. I migliori soldati durante la guerra erano quelli che s’erano abituati a non capire. — Lo può far lei, perchè a lei i malati, voglio dire le materie prime, non costano niente. — Lei scherza. Ma forse questa rassegnazione a non capire e ad aspettare pazientemente quel che succederà domani m’è venuta proprio dall’abitudine della mia professione. Lo diceva Ippocrate, alcuni secoli fa: “Non sono io che guarisco il malato, è la natura”. S’era giunti davanti alla fabbrica. Fermai il cavallo. Il signor Tocci concluse: — Lei parla come il prefetto. Quando gli operai m’occuparono la fabbrica, io gli chiesi venti volte quali erano le intenzioni del Governo. Ed egli venti volte mi rispose: “Il Governo sta a vedere”. — Teoria d’Ippocrate. — Il male si è che l’hanno imparata anche i miei operai, e su otto ore di lavoro, per quattro ore stanno a vedere. — Il trionfo della vera medicina. — Quella con cui si muore, caro dottore, – e trasse fuori l’orologio: – Sono le sei e non vedo nessun operaio uscire di fabbrica. S’avvicinò il portiere: — Signor ingegnere, gli operai sono usciti súbito dopo colazione perchè oggi è l’onomastico di Lenin. — Di Lenin? E come si chiama Lenin? — L’ho chiesto a molti, ma nessuno lo sapeva. Non devo dimenticarmi d’un fatto: che pochi giorni dopo, per merito mio, il signor Tocci comprò una Smac. E Nestore mi mandò mille lire di commissione.

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