< Mio figlio ferroviere
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XIV. Le due gonnelle
XIII

XIV.

LE DUE GONNELLE.

La stipulazione dell’istromento che m’ha fatto immeritatamente padrone dell’oliveto, avvenne addirittura in un giorno di festa: nel giorno di Sant’Andrea, patrono, come ho detto, della nostra città. Lo scelse di diritto il commendator Pópoli perchè in quel torno di tempo egli si trovava in campagna e, dovendo per consuetudine e per religione venire ad assistere alla funzione in duomo e alla processione in piazza, ordinò al notajo di convocarci a processione finita. E ci si ritrovò là in abiti da festa, i quali in provincia sono su per giù gli abiti con cui ci si veste per accompagnare i funerali. La cerimonia assunse così, almeno per me, una solennità anche più memorabile. Il notajo che m’è amico, essendo io giunto prima degli altri, mi prevenne che il Pópoli avrebbe tentato fino all’ultimo di convincermi a rinunciare alla compera e di sciogliere il compromesso magari con un bel premio: – Ma tu tieni duro. Un affare come questo non ti capiterà più mai. Anche col ribasso che c’è sui terreni, io un olivete così te lo faccio domani rivendere pel doppio. Tu tieni duro. – Già mi sentivo una volontà, come si dice, d’acciajo. E una tanto insolita fermezza mi veniva, prima di tutto, dal fatto che io firmavo in nome mio ma pagavo con danari altrui, compravo cioè per conto di Nestore il quale a quella compera non avrebbe rinunciato nemmeno se Cencina l’avesse supplicato a braccia nude e in ginocchio (e in fondo, tra i tanti oliveti cedutigli in compromesso nei giorni della gran paura, non tratteneva egli quello solo anche per fare dispetto all’infedele?). Ma s’ha da aggiungere che io, davanti a un notajo, per affari miei, non ero più capitato dopo il mio matrimonio, e m’ero perciò preparato con tremore al formidabile evento contando i danari da pagare, dividendoli in tanti pacchi da dieci biglietti l’uno, e poi ricontandoli in punta di dita come fossero ostie consacrate, appuntando ogni pacco con uno spillo, chiudendoli tutti in una busta di tela incerata come se nel breve tragitto da casa mia allo studio del notajo dovessi correre il rischio d’annegare, e provando perfino a scrivere cinque o sei volte la mia firma in modo leggibile dato che, a furia di scribacchiare ricette, l’ho ridotta a un ghirigoro più indecifrabile di quelli degl’imperatori e degl’impiegati postali. Potevo dunque cedere? Mai. A bruciapelo si può fare di me quel che si vuole. Ma dopo avere compiuto tanti preparativi e patita tanta ansia, no: per pigrizia prima, e infine per dignità professionale. S’è infatti mai veduto un chirurgo rinunciare a una operazione quando il malato è stato lavato, disteso, addormentato e il catino cogl’istrumenti è lì, a portata di mano? Sia pure soltanto per vedere, si taglia. Tagliammo. Ma quello che non m’aspettavo, era lo stupore, anzi l’ammirazione di Pópoli davanti alla mia incrollabile fermezza. Prima la esalò in esclamazioni: – Ah questo dottore.... Chi l’avrebbe mai creduto un uomo d’affari tanto ostinato? Con la sua aria di filosofo, con la sua rassegnazione ai capricci del destino.... Furbo il nostro dottore.... – Poi se la prese francamente con sè stesso, e fu quello che più mi commosse: aveva avuto paura, aveva creduto alla fine del mondo, e riceveva quel che si meritava. Un oliveto che valeva settanta, ottanta, novanta mila lire, venduto per trenta! Ma la paura no, non l’aveva avuta lui: gliel’avevano messa addosso, il fratello, la moglie, i parenti. E vedendo che il notajo sorrideva amabilmente, quasi a dirgli che esagerava a mortificarsi così, finì a confessare, con la franchezza che dà solo l’ira: — Avrei voluto vederla lei con tutti i vetri di casa rotti dalle sassate.... Firmò, firmai, riscosse. Firmò anche Matteo, chiamato lì a dichiarare che ero io “la persona da nominare” cui s’accennava nel compromesso. Matteo era rimasto sempre silenzioso, in fondo allo studio, accanto ai testimonii, più piccino ed invisibile che poteva. Quando dovette avanzarsi a firmare, i nervi di Pópoli scaricarono su lui la loro elettricità. Matteo, davanti al fu sindaco, rappresentava il comune, l’amministrazione comunale vittoriosa, il segno della deposizione, dopo dodici anni di trono. — Come va il Comune? Come va l’igiene! E la fabbrica delle balie come va? Aspetta, aspetta, e lo vedrai a spese tue che è più facile far venire il latte nelle mammelle d’una donna che i quattrini nelle casse d’un comune. Insomma: vi dimettete o non vi dimettete? Matteo si manteneva tranquillo e ossequioso. Fossero gli eretici discorsi uditi il giorno avanti a Poreta, fosse il desiderio di non compromettere per tanto poco la sua clientela borghese, cercava di sorridere ficcando il suo lungo collo dentro le spalle magre con un’aria malinconica di tartaruga che se ne infischia delle pedate. — Quand’è che vi dimettete? – Insistè Pópoli. Allora Matteo fu grande. Con una parola sola disarmò l’avversario e lo ammansì: — Magari domani, signor sindaco. Signor sindaco, signor sindaco: un assessore comunista, un assessore dell’amministrazione vincitrice lo chiamava sindaco, sindaco come ai bei tempi passati e, chi sa, avvenire. Pópoli si scosse, sorrise, s’accarezzò con la sinistra il mento ben raso, constatò con due dita che la sua cravatta e la spilla nella cravatta erano al loro posto, s’abbottonò la giacca col sussiego con cui un re raccoglie il suo manto di velluto, e girando lo sguardo su tutti noi ci annunciò: — Andiamo a prendere un vérmutte. Pago io. Devo pagare io. E s’uscì col notajo; e bevemmo in tre alla salute di Pópoli, compreso Matteo che ad entrare in siffatta compagnia nel caffè del Corso, tra la folla reduce dalla processione, si levò d’istinto il cappello e poi se lo rificcò sulla nuca d’un colpo ricordandosi d’essere ancóra al potere per mandato di popolo. Dopo il vérmutte, Pópoli andò a salutare sua moglie che, seduta con altre signore a un tavolino del caffè, gli chiedeva cogli occhi se poi il fatale istromento era stato firmato. Da là mi chiamò: — Anche mia moglie vuole congratularsi col compratore. La signora Cencina mi fece posto accanto a lei: — Ma, bravo dottore. Mio marito ci ha sofferto, sa. Ma io sono contenta: un’altra volta imparerà a non aver paura. Ormai tutti dovevano essere al corrente della grande novità. Chi mi fissava tanto per vedere com’era fatto un uomo che in una questione d’affari aveva messo Pópoli nel sacco; chi mi salutava facendomi l’occhietto; chi m’aspettava sull’uscio per chiedermi i particolari di quel colpo da maestro. E come la sera in cui avevo ricevuto la nomina a cavaliere, io già sentivo che mi sarebbe stato facilissimo abituarmi anche a quest’altro titolo, d’uomo furbo. La stessa Cencina quando non la guardavo, mi fissava curiosa come se mi vedesse per la prima volta, come se lassù nella mia soffitta non m’avesse veduto addirittura in maniche di camicia e in pantofole. Chi sa, in cuor suo riandava quella scena e si diceva che forse s’era sbagliata, che io ero entrato in quella stanza, proprio a quell’ora, perchè sapevo di trovarci lei. Furbo, furbo, furbo. Credevano che fossi furbo? E io mi sentivo furbo: quel che è peggio, m’illudevo di potere alla mia età, cominciare ad agire da furbo. Perchè, caro lettore, noi si è soltanto quello che gli altri credono che noi si sia. Le conversioni degli stessi santi cominciano dal momento in cui il pubblico dei fedeli li crede convertiti; magari, cioè, un poco prima che la conversione sia sul serio, voglio dire nel profondo, avvenuta. Anche san Francesco fu santo da quando in piazza si spogliò nudo e abbandonò i suoi belli abiti a suo padre, e la gente, sia schernendolo sia venerandolo, lo giudicò santo, cioè diverso dagli altri, cioè un po’ pazzo; e lo ajutò così ad esserlo sul serio. Prima agiva come se lo fosse, ma non lo era: sentiva il bisogno e cercava onestamente di diventarlo. Col suo genio capì che occorreva cominciare dal convincere gli altri per arrivare a ritrovarsi sicuro di sè stesso e, alla fine, convincere Dio. Io medico ho veduto molti e molti malati credersi guariti, anche se non riuscivano a mettere un piede fuori del letto, solo perchè tutti attorno a loro li proclamavano guariti. Qualcuno finisce anche a guarire per davvero: quello che si suol dire il miracolo della fede. Viceversa, molti sani o còlti da piccole infermità li ho veduti aduggiarsi e fiaccarsi e davvero ammalarsi perchè udivano il coro dei familiari e degli amici ripetere loro che erano malati, o perchè, con occhiate e silenzii e sospiri, questi lo lasciavano intendere. La vita insomma è una commedia il cui esito dipende tutto dal pubblico. E gli attori che a turno la recitano, sono in buona fede e commossi, appena è in buona fede e commosso il pubblico. Se dovessi e sapessi scrivere un trattatello sull’educazione della gioventù, io spiegherei nel primo capitolo come sia che un uomo abbia due, tre e talvolta anche quattro anime in un corpo solo e in una coscienza sola; nel secondo, come sia necessario dare a una di queste anime (che volgarmente si chiama volontà) la funzione di spettatore e di giudice, e condurla gradatamente a dire all’altra anima tua che tu sei un santo, un furbo, un imbecille, un felice o un infelice, un vinto o un trionfatore; nel terzo, come e perchè bisogni, a rischio di qualche sforzo e di qualche pena, cominciare pian piano ad agire secondo quella scelta davanti al pubblico, come a dire davanti allo specchio; nel quarto che con un po’ d’assistenza, d’allenamento, di costanza, di pazienza, se ti ci metti per tempo, tu puoi così diventare, a scelta, un santo, un furbo, un imbecille ecc. Degli altri capitoli non ti sto a dire perchè sarebbe questione lunga per te, e per me. Ma insomma questa sarebbe la base del mio trattato sull’educazione della gioventù: che la sincerità, a questo mondo, è un punto d’arrivo; e che il punto di partenza è la finzione. Quella mattina, ad esempio, Cencina la quale s’era da pochi minuti convinta che anche io ero riuscito ad ingannare suo marito, mi parlava con una gentilezza e una deferenza, con cui non m’aveva mai parlato. C’erano lì, in piedi davanti a noi, tre signorine a gonne corte e a braccia nude e parlavano con tre giovanotti, due ufficiali e un borghese: e risate e moine e sorrisi e quei contatti che direi fuggevoli se, in confronto a quelli leciti nei tempi della mia giovinezza, non mi sembrassero addirittura assaggi di mercanzia. I tre uomini, d’un tratto, dovettero andarsene, e le tre ragazze rimaste sole, appena li videro usciti, scoppiarono in una risata unanime. Il volto di Cencina si coprì di tristezza: — Caro dottore, le donne oggi non sono più sincere, – mi disse e sospirò. Lei si credeva sincera, come io cominciavo a credermi furbo. La differenza era in questo: che lei se lo diceva e dai suoi successivi amanti se lo faceva dire da anni; che furbo a me me lo dicevano solo da un’ora e io non avevo ancóra il coraggio di dirmelo. Questione, ripeto, di tempo, di costanza, di pazienza, d’allenamento; e avrei finito per credermi furbo anche io, per agire da furbo anche io, come mi sono convinto che la croce di cavaliere, ma sì, caro prefetto, lei me l’ha data pei miei tanti meriti, e che il viaggio gratuito sulle ferrovie dello Stato è più utile a me che ad altri. E vengo al punto, cioè a Nestore. Mi sembra che sia ora di concludere anche su Nestore perchè in questo racconto di un anno o due della mia vita, se ho un torto, è quello d’aver parlato cento volte di Nestore e di non essermelo definito chiaramente, da vicino, anzi da dentro. Quando me l’ero veduto a Roma, nel suo comodo e soffice ufficio, padrone, m’ero detto: – In Italia è preso sul serio solo chi fa per burla. – Quel giudizio non lo rinnego; ma devo, quanto posso, approfondirlo, anche per cortesia verso Nestore; non oso dire, verso l’Italia. Si dice presto: – Il tale fa per burla; il tale è sincero. – Chi ve lo prova? E dov’è quest’uomo che esce dal ventre di sua madre e arriva alla tomba con la trajettoria precisa d’una palla la quale dalla bocca del cannone giunge al bersaglio senza una sosta, un dubbio, un pentimento, una deviazione? Non esiste. La sincerità degli uomini, ripeto, vien tutta dal di fuori: dalla fede, o almeno dall’opinione degli altri. Una volta ce ne accorgevamo meno. Ma è venuta la guerra. L’umanità stava comoda, più o meno in poltrona, e chiamava progresso quella comodità, e chiamava fede nell’avvenire quella speranza che la comodità continuasse, e quella soddisfazione di sè stessa che dalla poltrona e dalle parti posate sulla poltrona le saliva dolce dolce al cuore e al cervello. La guerra ha buttato a gambe all’aria la poltrona, e chi ci stava seduto su. Ma l’ubbriacatura col “Trani” del progresso è più lenta a svanire. – Il progresso ricomincerà súbito.... Riaccomodatevi.... Comincerà domani, dopodomani, tra un mese, tra un anno ma ricomincerà. – La folla, dopo le stragi della guerra, era come la vedova che piangendo il marito, chiama la sarta: onestamente pensando che solo la sarta può consolarla, darle cioè, tanto per cominciare, un’immagine di donna racconsolata. Ma davanti alle nuove pene, fami, debiti, sommosse e terremoti la folla di questi consolabili diminuiva ogni giorno. Pareva che l’umanità, esausta dopo le prove di quell’inferno, si rassegnasse a morire in sincerità, spaventata dal vedersi nuda e tanto brutta. Chi poteva restituirle la salutevole fede nella bugia e nel progresso? Per fortuna c’erano i Parlamenti. Solo il Parlamento poteva restituirle quella fede; cioè gli avvocati che del parlamento sono, com’è giusto, l’anima e la voce; cioè quelli che più francamente accettano sul serio le opinioni provvisoriamente utili, le opinioni delle quali hanno bisogno i clienti per la propria salvezza. E Nestore s’è dato alla politica, ha magari sperato d’andare in parlamento. Chi è che nel parlamento aveva ancóra non solo la suddetta fede, ma addirittura la religione del dio Progresso, con tutti i riti, le formule, le giaculatorie, le genuflessioni, i sacrifici, magari, se cápita, umani? I socialisti. E Nestore, generosamente, s’è fatto socialista. Chi tra i socialisti è più rispettato, meglio organizzato, più temuto, meglio pagato? I ferrovieri. E Nestore s’è fatto ferroviere. E l’umanità, gira gira gira, è stata ricaricata e ha ripreso l’aire. Caro Nestore.... Adesso che me lo spiego, gli voglio più bene. L’uomo è migliore di tutte le teorie sull’uomo: anche di questa che io stasera mi vengo improvvisando, al fumo d’un toscano tanto fetido ed ostinato che basterebbe tu provassi, caro lettore, a tirarne una boccata di fumo per capire in un attimo quanto sia inguaribile il mio ottimismo, o più semplicemente, orgoglio a parte, la mia bontà. Ma Nestore, non è, per fortuna, un imbecille. Dopo un anno, dopo due anni, all’improvviso ha veduto i socialisti, i devoti del Progresso, i salvatori del Progresso, fermarsi e diventare conservatori. – Fermi tutti! Fermo tutto! L’importante è mantenere i salari d’oggi, le bevute d’oggi, le cariche d’oggi, il mezzo lavoro d’oggi, il pauroso rispetto che godiamo oggi. – Non s’erano mai trovati conservatori più feroci e più testardi di questi adoratori del dio Avvenire. E Nestore ha cominciato a dubitare, e il pubblico con lui: – Tu sei un socialista! Ma tu sei non solo più conservatore di tutti i borghesi che abbiano afflitto il mondo con le loro bizze e stizze di miopi, ma sei, peggio, un reazionario, con la forca alla russa, e con la convinzione che le teste incapaci di pensarla come te, non sono teste ma zucche, e vanno tagliate alla stagione buona. Mentre così i socialisti rossi e neri diventavano conservatori, sudando quattro camice a non confessarlo; e i loro vicini comunisti cominciavano a chiamarli borghesi e come borghesi a disprezzarli; e si parlava addirittura d’un governo fatto insieme di socialisti e di borghesi e perfino nella Santa Russia si “riaffittavano” ai privati le proprietà pubbliche, si ricucivano cioè in gran fretta quattro cenci di borghesia: il mio Nestore è tornato borghese. Piano piano, con molta cautela e qualche ultima esitazione, chè era già rimasto scottato una volta. E l’oliveto me l’ha fatto comprare a me, e le cartelle di rendita consolidata le ha affidate a sua madre. Il giorno che dovrà rivelarsi tutto borghese e godersi la diffusa pacifica convinzione d’essere un buon borghese, avrà tutto pronto per convincere gli altri, ed essere felice. Dichiarerà che oliveto e rendita sono suoi, il frutto del suo risparmio: e basterà. Borghese non è chi possiede, ma è chi risparmia. Nestore, adesso me ne accorgo, sa risparmiare. Io che non ho mai saputo risparmiare un centesimo, mi chiamavo borghese per abitudine e per inerzia. Ma non lo ero. I fascisti di qui, un giorno scesero a San Pietro che è un sobborgo di questa città, a frugare nella casa d’un Circolo rosso, e non trovarono la bandiera. Spararono anche una ventina di revolverate con la speranza che, a far buchi di qua o di là, la bandiera venisse fuori. Non venne fuori, ma alle revolverate scapparono via uomini e donne; e una ragazza, una bella ragazza alta, diritta e, al punto giusto, tonda come un fuso, scappando a gambo levate, mostrò d’avere, sotto la gonna bianca, una gonnella rossa. La rincorsero, la fermarono, la rovesciarono, le alzarono le vesti. Non era una gonnella, era la bandiera che in fretta e furia al momento del pericolo, Manetta s’era cucita sui fianchi. I fascisti non le fecero nessun male, ma rivestendola le legarono ai fianchi una gonnella tricolore, fatta con la loro bandiera, e le ingiunsero di non separarsene mai senza il loro permesso.

Bei figlioli, pare, anche quei fascisti, tanto che quella li lasciò fare, un po’ protestando, un po’ ridendo. Ma i comunisti lo seppero; e via la gonnella tricolore per dar posto a una gonnella di rosso scarlatto. Adesso appena hanno un’ora libera, giovanotti dell’una o dell’altra parte corrono a San Pietro, cercano di Marietta e: – Su le vesti! – le ordinano. E quella obbedisce. Il gioco dura da qualche mese. Ebbene, Marietta non s’è sbagliata mai; i comunisti le hanno trovata sempre la gonnella rossa, i fascisti la gonnella tricolore. Il male si è che Marietta la quale era, su per giù, una brava ragazza, ha preso la maledetta abitudine di scoprirsi così ad ogni giovanotto che le si presenta. E i suoi costumi ne soffrono.

Nestore, se ho da parlare per simboli, assomiglia oggi un poco a Marietta. E Marietta assomiglia molto all’Italia. Ma quel che per adesso mi consola, è che la gonna tricolore ci sia, e che quella bella spudorata di Marietta, al momento buono, sappia mostrarla.

FINE.

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