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Alla signora Ernestina V. W.
Dedica La Lettera




ALLA SIGNORA ERNESTINA V. W.1





areva segnato dalla matita d’un umorista quel sentiero alpino che serpeggiava tra gli abeti, ora appiattandosi entro una macchia folta, ora guizzando nel prato aperto, spensieratamente curioso di ogni ruscello e di ogni precipizio, tutto ipocrita serietà quando si diparte dalla strada maestra, tutto scappate e follie quando si gitta sul morbido tappeto del Campo dei fiori. Quanto a Voi, signora, colla snella persona serrata in un costume azzurro e grigio, coi capelli biondi un poco sdegnosi del freno, colle movenze, scusatemi, un poco rigide, parevate una figura di pennello antico, piena di pensiero e di fiera vita nella fisonomia, mirabilmente posata in mezzo ad una natura dalle linee taglienti, severa, fredda di tinte, oserei dire spirituale. Quella sera avevo l’onore di vedervi bella; poiché in Voi la bellezza è lume che viene e va a vostro talento. Lo lasciate talvolta a casa; quando lo portate con Voi, gli è che l’avete voluto. Si parlava di libri, di cose e di persone, io con molta foga e molta ingenuità, Voi con un tal fare nervoso, talvolta pieno di fuoco, più sovente di sarcasmo, scegliendo per gli epigrammi i tratti arcadici del sentiero, e per le brevi liriche quei passaggi scabrosi ed arditi dove solo il vostro stivaletto arcuato poteva posarsi con tanto audace disprezzo. Ve ne ricordate? Forse no. Me ne ricordo moltissimo, io. Se vi dà noia che i vostri capelli biondi e le ciarle d’un’ora oziosa vadano per le stampe, avevate mal scelto il vostro compagno di passeggio. Guardatevi da’ poeti, signora. Non uno della razza infida vi verrà accanto, che non sia tentato di rubarvi, onestamente, intera. Quando pensate avergli volte le spalle, siete già nel suo taccuino ideale coi capelli biondi, colle ciarle oziose, persino col guanto di Svezia entro il quale gli avete porta un momento la mano negligente. Da que’ taccuini si esce poi un bel giorno, vestiti di prosa o di versi, a viaggiare il mondo per conto del poeta, che si piglia la libertà di mutarvi il nome. Io non oserò tanto, nè vi farò correre avventure, bastandomi dire brevemente come questo libriccino è nato.

Mi ricordo, dunque, moltissimo. Fendevate un pendìo vertiginoso, quando vi volgeste a me con queste parole:

«Crede Lei che un’anima possa influire direttamente sopra un’altr’anima, senza la parola, senza lo sguardo e senza artificii magnetici?» «Certo» risposi, cercando un sasso fermo al mio piede.

«Perchè?»

Il luogo non mi pareva acconcio a dissertazioni psicologiche, nè risposi finchè il sentiero non ripiegò a manca entro un grembo della costa. «Sarebbe proprio il posto», cominciai, «di raccontare una storia.......»

Parve che non vi curaste di udirla, poichè, rompendomi le parole sulle labbra, mi mandaste a cogliere un fiore d’arnica montana. Vi portai il fiore, ora posso confessarvelo, non senza un secreto dispetto. Quel fiore non era d’arnica; mi valse uno scroscio di risa argentine e parecchi motti pungenti. Non ebbi, signora, la temerità di pensare che le donne eleganti usano di spilli assai più per trattenere che per pungere.

Avevate palesemente il disopra nella scaramuccia di frizzi che ferveva tra noi, quando si giunse all’orlo della valle, non lungi da quelle due capanne appiccicate alla montagna come conchiglie alla rupe. Fu colà che, dato appena uno sguardo al baratro ombroso dove si vedevano biancheggiare le pazienti spire della strada maestra, vi faceste seria ad un tratto; e, gittandovi a sedere sopra un macigno sporgente, diceste con voce vibrata:

«Questa storia».

Forse mi feci pregare alquanto, non me ne rammento bene. Certo vi dissi il semplice racconto con molta commozione, perchè ne ho conosciute le persone, e ci trovavamo allora nel posto dove, pochi anni prima, avevo veduto la donna tanto dissimile da Voi, il cui nome sta in fronte a questo libro. Era la mia rivincita; quella sera non avete scherzato più. La nebbia saliva dall’abisso, faceva freddo. Ci riponemmo in cammino. Dopo avermi mosse infinite domande «e com’era lui, e com’era lei, e quali gusti avevano, e cosa diceva il mondo di loro», come in un vecchio giuoco di società; dopo avermi fatto recitare alcune poesie di lui, profferiste il vostro ukase «ch’io dovessi scrivere il racconto».

Vi feci osservare le difficoltà grandi del còmpito. Non era in poter mio pubblicare i due libri di ricordi che formano l’essenza della narrazione, letti da me per favor singolare di fortuna. Avrei forse ottenuto (come avvenne) di pubblicare pochi versi contenuti nel libro di lui, non piccola impresa anche questa; ma nulla più. Quanto pallido un lavoro di memoria e di fantasia rispetto al vero! Quanto ardua cosa contraffare la penna di un ingegno borioso, ma non ispregevole, il cui nome, oscurato adesso per cause inutili a dirsi, brillò un momento di viva luce nell’Olimpo letterario! Ancora più difficile, vi dissi, mi sarebbe tornata la contraffazione di quella prosa femminile così delicata, così verginale nelle sue inesperienze. «La prosa l’imbarazza?» esclamaste Voi, «faccia dei versi». Le donne riescono mirabili a recider nette le questioni con questa disinvoltura. «Faccia dei versi! È assurdo, signora», risposi. Quando parlo di versi, Dio mi perdoni, esco facilmente da’ giusti limiti. Intanto eravamo giunti alla porta dell’Hôtel R. Vi espressi con molto rispetto la speranza d’esservi compagno il giorno vegnente in un’altra escursione. «È assurdo, signore!» rispondeste Voi, e mi lasciaste lì sui due piedi.

Bene, ci ho pensato. Il tèma mi tentava molto e il vostro colpo di spada aveva tagliato meglio ch’io non credessi a prima giunta. Poichè pubblicare tali quali i due manoscritti era cosa da non pensarvi neppure, ed una contraffazione non avrebbe illuso i signori lettori di odorato fine, tanto valeva portarsi apertamente nella regione dell’ideale, affidandosi al verso che ne conosce meglio le vie.

Eccovi il libro. È pallido, pallidissimo, se volete; ma non fu concepito una sera nebbiosa presso alle nevi eterne? Dei due manoscritti non ho lavorato a lume di fantasia che la forma esterna; l’ordito ne lo porto inciso a segni indelebili nella memoria. V’ho aggiunto un preambolo colla onesta intenzione d’informare un poco il lettore dell’argomento, ed una breve chiusa colla intenzione pia di appagarne, per quanto mi è concesso, la curiosità, se gliene avanza dopo tanto cammino. Spero di non ritrovare le mie buone intenzioni laggiù nel lastrico dell’inferno, insieme al vostro proposito di mandarmi le Canzoni popolari del Vorderrhein.

Non occorre dire che il Libro d’Enrico risale ad una data anteriore di qualche mese alle cose narrate nel preambolo. Uno più abile di me avrebbe usato di date, onde porre in luce alcune coincidenze singolari tra i due manoscritti. Le date mancano negli originali, pure quelle coincidenze mi colpirono. Bastommi porre anche il lettore in grado di notarle, se crede, senza ciurmerie che mi spiacciono.

Ed ora, quando avrete letto l’umile volume che passa le Alpi per Voi, non congedatelo, signora, come avete congedato me quella sera a San B. sulla soglia dell’Hôtel R. «È assurdo!» Povero libro, non avrebbe neppure la consolazione di vedere il lampo del vostro sorriso malizioso.

Vicenza, 1 maggio 1874.

A. Fogazzaro.

  1. Questa lettera si riproduce dalla prima edizione, quantunque scolorata dal tempo. Il racconto che segue vi ha qualche radice; e poiché esso pure va perdendo naturalmente il verde, l’autore ha deciso non si molesti con inutili strappi e sia lasciato appassire in pace.

    (Nota della seconda edizione).

Note

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