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CAPITOLO I.
La Polizia.
Se non si trattasse della Polizia, principieremmo il presente capitolo coll’esordio degli antichi poeti, quando i poeti, più vicini a Dio che agli uomini, cantavano: Ab Jove principium. In ogni modo una storia di Firenze nella prima metà del presente secolo, ricavata dalle carte segrete della polizia, sarebbe incompleta se non incominciasse da uno studio sulla polizia medesima. Molte cose rimarrebbero oscure, altre perderebbero la loro evidenza se l’istituto, che le une osservò coi suoi occhi da lince, o le altre fiutò col suo naso da bracco, non fosse presentato ai lettori nella integrità delle sue linee caratteristiche. Anche a costo di parere codini, vogliamo dirlo. Le vecchie polizie italiane, quelle a cui le novità rivoluzionarie di Francia inaugurate coll’ottantanove (l’anno santo della rigenerazione civile e politica dei popoli, almeno pei nostri vicini d’oltre Cenisio) non avevano ancora iniettato la libidine delle repressioni feroci e del boia, erano delle polizie patriarcali. Alla loro ombra Cesare Beccaria aveva potuto scrivere e pubblicare la più splendida e nello stesso tempo la più terribile requisitoria contro il sistema punitivo de’ suoi tempi; Pietro Verri e l’abate Galiani avevano potuto combattere a favore della libertà economica; Gaetano Filangieri aveva potuto escogitare le basi d’una nuova legislazione; Mario Pagano aveva potuto dettare le forme del processo penale; infine, una folla di scrittori aveva potuto scagliarsi addosso alle prerogative della Curia Romana, senza che la losca figura di un poliziotto si intromettesse fra il pensiero dello scrittore e il pubblico, senza che dal fondo del gabinetto d’un direttore generale di polizia o d’un ministro si avesse la pretesa di dirigere la mente e la coscienza del paese o di torturare l’una e stuprare l’altra colla censura, la prigione, o il patibolo. Insomma, era una polizia che non s’occupava che di grassazioni, di borsaiuoli e di falsari.
Ma la Rivoluzione francese, che i battaglioni del Buonaparte importarono in Italia, mutò la faccia delle cose. Insieme ai Diritti dell’Uomo, che noi compatriotti del Beccaria e del Filangieri avevamo la disgrazia di non conoscere, i nostri liberatori ci portarono la polizia — la polizia potere politico, — la polizia elevata alla dignità di funzione principalissima dello Stato, — la polizia-governo, o meglio il governo-polizia. Imperocchè, quel modesto istituto che sotto i vecchi governi patriarcali d’Italia non arrivava sempre ad essere lo spauracchio dei borsaiuoli e degli accoltellatori, nei governi venuti su in nome della libertà, fu istituto per eccellenza assorbente. Il bargello si trasformò in prefetto, e, sotto Napoleone I, ebbe un abito ricamato, la commenda e le chiavi di ciambellano; e siccome la proclamazione di quei certi diritti dell’uomo non aveva fatto scomparire la vanità e la boria degli antichi cortigiani, così fu anche barone e conte. Il Fouchè, che come il suo padrone ebbe la sua leggenda — una leggenda di sbirri e di manette — fu principe. Venti anni prima, quando un Bernardino Tanucci governava il reame delle due Sicilie e un Neri e un Gianni reggevano la Toscana, egli sarebbe stato semplicemente rinchiuso, come un volgare malfattore, nelle segrete di Castel dell’Uovo o nel Maschio di Volterra.
Si figuri il signor lettore, se nel 1814, quando l’astro napoleonico scomparve e la Toscana cessò d’essere una provincia dell’impero francese e Firenze la sede del dipartimento dell’Arno, i buoni fiorentini che con Pietro Leopoldo avevano preceduto, benchè qualche volta a malincuore, riforme francesi, potessero far voti per la conservazione e la prosperità dell’istituto dell’ex-cittadino, dell’ex-accusatore pubblico del Tribunale rivoluzionario, dell’ex-boia giacobino, insomma, di Fouchè, allora trasformato in principe! E fu una vera esplosione di gioia, una gioia pazza, quando i nostri nonni, una bella mattina del maggio del 1814 appresero che alla direzione della polizia toscana col codazzo dei suoi ispettori e dei suoi gendarmi, i nuovi rettori avevano dato il benservito, sostituendola colla vecchia polizia, che sotto le forme del 1781 rinasceva dalle sue ceneri nella Presidenza del Buon Governo. C’era, in codesta ricostruzione, qualche cosa che sapeva dell’archeologia, uno spirito di reazione che non poteva dissimularsi; ed Antonio Zobi, che scrisse la sua Storia Civile della Toscana1 quaranta e più anni fa, quando alle forme politiche si dava una preponderanza assoluta, non sapeva nascondere il suo risentimento per una resurrezione, che pei fautori dei nuovi sistemi doveva essere non meno ridicola delle parrucche e degli abiti alla Luigi XV che altri, in quel medesimo tempo, invasi dalla nostalgia del passato, avrebbero voluto far rivivere.
La Presidenza del Buon Governo era una istituzione ibrida, per non dire addirittura mostruosa, almeno per coloro che negli ordinamenti amministrativi e politici amano la simmetria, che formava il carattere principale degli istituti messi in moda dalla Francia rivoluzionaria e napoleonica. Era un istituto, il Buon Governo, in parte amministrativo, in parte giudiziario, in tal’altra politico. Come la polizia moderna, esso era l’occhio e l’orecchio dell’amministrazione dello Stato, alla quale cooperava sopratutto con un potere giudiziario sui generis, quello detto economico; un potere, almeno apparentemente, sconosciuto alla polizia foggiata alla francese — ma con vere competenze giudiziali, potendo in certe circostanze il capo della polizia ed i suoi rappresentanti istruire delle processure scritte, ma segrete, e di far seguire queste da un regolare giudicato: potere sconfinato che quando nel 1780, sotto Pietro Leopoldo, venne con nuove discipline migliorato, fu ritenuto come un vero progresso di fronte ai vecchi arbitrii polizieschi non temperati da leggi o da regolamenti, ma che nel secolo XIX, quando la pubblicità dei dibattimenti era penetrata non solo nei codici di rito ma anche nelle abitudini dei popoli, doveva sembrare la negazione del diritto. In virtù dell’art. 56 della legge 30 novembre 1786, i commissari di Firenze, per le trasgressioni e i delitti puniti economicamente, potevano infliggere il carcere sino a tre giorni coll’inasprimento del pane ed acqua, mentre il ministro di polizia (il presidente del Buon Governo) poteva infliggere la stessa pena sino ad un mese, quella della casa di correzione, o le staffilate, o poteva ordinare la sospensione degli atti ove gl’imputati domandassero la processura ordinaria. Laonde arbitrio da cima a tondo. Non designati i casi del procedimento economico, ma rilasciati alla prudenza del presidente o di un commissario, o d’un semplice vicario; non pubblicità di dibattimenti; processura scritta, ma negato all’imputato il diritto di prenderne cognizione, come negato il diritto al medesimo di addurre testimoni a discolpa e di essere posto in confronto con quelli dell’accusa e coll’accusatore, sia che questi fosse un privato o un uffiziale pubblico. E quasi che un siffatto potere non colpisse abbastanza in pieno petto la più sacra di tutte le libertà, quella individuale, consuetudini poliziesche lo avevano reso più odioso sino a permettergli d’eccedere la misura delle pene fissata dalla legge e a mettere sotto il dimenticatoio i freni con che Pietro Leopoldo aveva voluto circondarlo perchè non uscisse dai limiti legali. E siffatti freni erano il ricorso al governo e la sospensione degli atti, ove l’imputato avesse domandato d’essere giudicato dal magistrato ordinario.
Comunque, a fronte d’altri Stati retti con forme assolute, il procedimento economico, malgrado il rococò dell’istituzione, era tollerabile. A Napoli, ove i Borboni ritornati dall’esilio avevano confermato gli ordinamenti francesi, lo stesso potere era esercitato dalla polizia; colla differenza che colà, all’ombra di codici sapientemente architettati e non meno sapientemente coordinati, l’arbitrio si esercitava senza quella parvenza di legalità che regnava nei tribunali economici della polizia toscana, ove, se non altro, l’obbligo del procedimento scritto, portava seco quello del rispetta della forma.
- ↑ Lib. X. Cap. I. pag. 26 e segg.