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William Shakespeare - Misura per misura (1603)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1859)
Atto primo
Interlocutori Atto secondo

MISURA PER MISURA



ATTO PRIMO


SCENA I.

Un appartamento nel palazzo del Duca.

Entrano il Duca, Escalo Signori e seguito.

Duc. Escalo...

Esc. Signore.

Duc. Volervi esplicare minutamente i principii dell’amministrazione, sembrerebbe in me una pazza mostra, perocchè io so che le cognizioni vostre nell’arte del governare avanzano tutti i consigli e tutte le istruzioni che dar vi potrebbe la mia esperienza. Non mi rimane quindi che una parola da dirvi; che la vostra capacità, eguagliando la vostra virtù, voi le lasciate operare d’accordo. Il carattere de’ miei sudditi, le leggi della nostra città, lo stile e le forme della giustizia, son cose che voi conoscete a fondo, quanto il può ogni uomo più illustre. Ecco ciò che vorremmo fosse da voi minutamente eseguito. Andate a dire ad Angelo di venir qui. (esce uno del seguito) Che opinione avete del suo ingegno per fare le nostri veci? perocchè sapete che nel segreto dell’anima nostra noi l’abbiamo scelto anch’esso a rappresentarci nella nostra assenza, e che l’abbiamo armato di tutto il terrore della nostra autorità, rivestito di tutto l’impero del nostro amore, e trasmessogli ogni nostro potere. Che pensate dì simile elezione?

Esc. Se vi è in Vienna un uomo degno di tanto onore e di tale dignità è certo Angelo.

Duc. Miratelo, ei viene. (entra Angelo)

Ang. Sommesso sempre ai voleri di Vostra Altezza, bramo di apprendere gli ordini vostri.

Duc. Angelo, la vostra condotta passata è tale che un occhio osservatore può leggervi tutto il seguito della vostra vita. Nè voi, nè il vostro merito, non vi appartengono in proprietà esclusiva; voi non avete il diritto di rinchiudervi nelle vostre virtù e di valervene solo per vostro vantaggio. Il Cielo si serve di noi, come noi ci serviamo delle torcie; non è per loro stesse che esse risplendono; e se le nostre virtù restassero sepolte nel nostro seno, sarebbe come se non le avessimo. La natura non fa le anime grandi, che per grandi intenti; ella non concede i suoi doni che da avara dea, che ritiene per sè l’onore e i diritti d’una creditrice; de’ suoi benefìcii esige il frutto e la riconoscenza. Ma io dimentico che parlo ad un uomo che sa di per sè tutto quello ch’io potrei dirgli. Continuate dunque. Angelo, ad esser quello che foste sin qui. Durante la nostra assenza siate in tutto il nostro rappresentante. La vita e la morte di Vienna riposano sulle vostre labbra, e dipendono dalla vostra volontà. Il venerando Escalo, sebbene il primo a cui ci siamo addirizzati, non sarà che a voi secondo: ricevete la vostra commissione.

Ang. Mio nobile duca, aspettate che una più lunga prova abbia fatto vedere quello ch’io valgo prima di imprimere su di me il suggello della vostra augusta imagine.

Duc. Non cercate pretesti; non è che dopo una scelta ben matura e ben pesata, che vi abbiam nominato; perciò accettate gli onori e la carica ch’io vi confido. I motivi che ci spingono a partire son così imperiosi, che fan tacere ogni altra considerazione, e mi obbligano ad astenermi da altre istruzioni sopra oggetti che sarebbero pure importanti. Vi scriveremo poscia dello stato nostro. Pensate voi ad essere attento a quello che accadrà. Addio: vi lascio, e vi lascio entrambi con fiducia che ben adempierete ai vostri doveri.

Ang. Ma almeno concedeteci, signore, di accompagnarvi un poco.

Duc. Il tempo che affretta la mia partenza non me lo permette: e sull’onor mio, voi non dovete avere nè scrupoli, nè timori: il mio potere è tutto riposto in voi: potrete accrescere o diminuire il rigor delle leggi, secondo che giudicherete conveniente. Datemi entrambi la mano. Voglio irmene incognito: amo i miei sudditi, ma non mi piace di mostrarmi in ispettacolo davanti ai loro occhi. Quantunque i loro applausi siano lusinghieri, i gridi e le acclamazioni della moltitudine non mi talentano, e non credo che quei principi che li ricercano con ardore adoperino con sagacità. Anche una volta, addio.

Ang. Il Cielo faccia riescire a bene ogni vostro disegno.

Esc. Egli guidi i vostri passi, e vi riconduca felicemente.

Duc. Vi ringrazio, addio. (esce)

Esc. Vi prego, signore, di concedermi un’ora di libero colloquio; giova ch’io m’istruisca su quanto m’incombe: mi fu trasmessa una parte di potere, ma non so fin dove si estenda, e di qual natura sia.

Ang. Io pure sono come voi. Ritiriamoci; appuriamo ì nostri mezzi.

Esc. Vi accompagnerò con piacere. (escono)

SCENA II.

Una strada.

Entrano Lucio e due Gentiluomini.

Luc. Se il duca cogli altri duchi non viene ad una composizione col re di Ungheria, tutti i duchi cadranno sopra il re!

Gent. Voglia il Cielo concederci la sua pace, ma non quella del re di Ungheria.

Gent. Amen.

Luc. Tu concludi come il divoto pirata che si pose in mare coi dieci comandamenti, e poi ne cancellò uno dalla tavola.

Gent. Tu non ruberai?

Luc. Sì, questo cancellò.

Gent. Fece bene, perchè era troppo in contraddizione con la intera sua vita. Non vi è fra di noi tutti un soldato che nell’azione di grazia che precede il pasto gusti molto la preghiera che chiede pace.

Gent. Non mai udii alcun soldato a disamarla.

Luc. Ti credo, perchè penso che tu non ti sia mai trovato nei luoghi dove si pregava. Ma, vedi chi viene?

Gent. Un buon seme; esso ci ha conciati tutti come va.

Luc. Te solo ha conciato, te che se non eri anche preda di lei, lo saresti divenuto dell’empietà. (entra Madonna Tutto-è-Fatto)

Gent. Come va, comare? In quale dei vostri femori infierisce ora la sciatica?

Tut. Via, via; è stato arrestato là in fondo e condotto prigione un uomo che valeva cinquemila vostri pari.

Gent. Chi è, di grazia?

Tut. Claudio, il signor Claudio.

Gent. Claudio prigione! Non può essere.

Tut. Ed io invece so che è: lo vidi arrestato, e condotto; e, quel che è più, di qui a tre giorni gli dev’esser mozzata la testa.

Luc. Ma dopo tante follìe non vorrei che ciò fosse vero: sei tu ben sicura di quel che dici?

Tut. Anche troppo: e questo gli accade perchè la bella Giulietta è incinta.

Luc. Ciò potrebbe essere: egli mi aveva promesso di venir da me due ore fa, e soleva essere sempre esatto ai ritrovi.

Gent. Oltrecciò, quant’ella dice si accorda col discorso che esso mi fece.

Gent. Ma più che tutto questo si lega perfettamente col bando esposto.

Luc. Corriamo a saper la verità. (esce coi due Gent.)

Tut. Così, mercè la guerra, i morbi, le forche e la povertà, io cado in miseria. (entra il Clown) Che v’è di nuovo?

Cl. Laggiù conducono un uomo in prigione.

Tut. Che cosa ha fatto?

Cl. Molti piaceri ad una donna.

Tut. Ma qual è il suo delitto?

Cl. D’esser stato a pescar le trote nei fiumi altrui.

Tut. Vi è dunque una fanciulla che è incinta dell’opera sua?

Cl. No vi è una donna che ha resa donna, di fanciulla che era. Non udiste il bando?

Tut. Qual bando, amico?

Cl. Tutte le case dei sobborghi di Vienna saran buttate giù.

Tut. E quelle della città?

Cl. Resteran su per semenza: esse pure sarebbero state abbattute, se un savio borghese non avesse perorato per loro.

Tut. E tutte le nostre case dei sobborghi dovran cadere?

Cl. A terra, madonna, a terra.

Tut. Quest’è un gran mutamento nello Stato! Che avverrà di me?

Cl. Bassicuratevi, i buoni procuratori non mancano di clienti, sebbene mutiate dimora, non muterete mestiere: ed io sarò sempre il vostro valletto. Andiamo, coraggio: avranno pietà di voi: voi, che avete logorati i vostri occhi col troppo guardare, sarete considerata.

Tut. Che far qui? Ritiriamoci.

Cl. S'avanza il signor Claudio condotto dal prevosto in prigione: ed evvi anche madonna Giulietta. (escono)

SCENA III.

La stessa.

Entrano il Prevosto,1 Claudio, Giulietta ed Ufficiali; Lucio e due Gentiluomini.

Claud. Amico, perchè mi conduci così in mostra? Guidami alla prigione in cui debbo esser posto.

Prev. Quello ch’io faccio, lo faccio per ordine del signor Angelo, e non per darvi molestia.

Claud. Così quella semidiva della terra, che chiamasi autorità, può farne scontare i nostri delitti a tutto rigore; tali sono i decreti del Cielo! Essa abbatte chi le piace, risparmia chi vuole, ed è sempre giusta.

Luc. Ebbene, Claudio? Perchè siete imprigionato?

Claud. Per avere avuta troppa libertà, Lucio, per aver avuta troppa libertà; come l’intemperanza è la madre del digiuno, così una libertà soverchia è divenuta madre della prigionia. Simile ai topi che divorano le vivande avvelenate che gli uccidono, le nostre inclinazioni ci fanno andar dietro ad un bene fatale di cui siamo affamati, e che assaggiato appena ci cagiona la morte.

Luc. Se potessi parlare così saviamente come te fra i ferri, manderei a cercare qualcuno de’ miei creditori; pure mi piace più di esser un idiota in libertà, che un filosofo in ceppi. Qual è il tuo delitto, Claudio?

Claud. Lo raddoppierei rivelandolo.

Luc. Fu un omicidio?

Claud. No.

Luc. Una libidine?

Claud. Chiamala così se vuoi.

Prev. Via, signore, bisogna che andiamo.

Claud. Concedetemi anche una parola, buon amico. — Lucio ascolta. (gli parla in disparte)

Luc. Così potess’io esserti utile. — Sono i falli d’amore puniti tanto aspramente?

Claud. Verso me lo sono: ascolta. In conseguenza di un contratto reciproco e sincero io ho posseduto Giulietta. Voi la conoscete; ella è mia moglie, e non ci manca che di averlo dichiarato, e di aver compite le cerimonie esteriori. Questo non abbiam fatto solo per conservar una dote che resta nello scrigno dei suoi parenti, ai quali abbiam creduto di dover celare l’amor nostra fino a che il tempo ce li renda propizii. Ma la sventura vuole che il segreto della nostra unione si legga in caratteri troppo visibili sulla persona di Giulietta.

Luc. Un fanciullo, forse?

Claud. Oimè! sì, sventuratamente; e il nuovo ministro che fa le veci del duca..., non so se per l’albagìa di un’autorità novella, o se il corpo dello Stato rassomiglia a un cavallo montato dal suo scudiere, che venuto in sella da poco per fargli sentire la sua forza e il suo impero, gl’immerge nel ventre gli speroni; o se la tirannia è congiunta colla dignità, ovvero coll’uomo che l’esercita...; ma questo nuovo governatore ha riposte in vigore, per mio danno, tutte le passate leggi penali che, come un’armatura antica e rugginosa sospesa al muro, erano rimaste dimenticate per lo spazio di diciannove rivoluzioni della zodiaco, senza che niuna di essa fosse attuata: oggi dunque, per farsi un nome, egli rimette in campo quella legge, sì a lunga negletta, che mi condanna fatalmente: questo ei fa per dare a parlare di sè.

Luc. Io pure direi che tale è il suo unico scopo, onde la tua testa è così fragilmente attaccata alle tue spalle, che il sospira di una pastorella innamorata potrebbe abbatterla. Manda a chiedere del duca, e appellatene a lui.

Claud. Ne ho già fatto ricerca, ma non si sa dove sia. — Te ne supplico, Lucio, fammi un servigio: oggi mia sorella deve entrare in religione per cominciarvi il suo noviziato: dàlle a conoscere il ì pericolo della mia situazione; pregala d’intromettersi per me; dille di andare ella stessa dal rigido ministro. In ciò ripongo le mie migliori speranze; perocchè vi è nelle grazie della sua giovinezza un linguaggio muto e commovente, ben atto a intenerir gli uomini; ed ella ha inoltre molto ingegno, e potrebbe colla parola dissuadere quel magistrato dalla sua ferità.

Luc. Prego il Cielo che vi riesca, così per la salute degl’altri colpevoli della tua specie, come per serbare a te la vita. Io sarei ben dolente, che tu dovessi sì miseramente morire al giuoco dell’amore. Vado da lei.

Claud. Te ne ringrazio mille volte, mio buon Lucio.

Luc. Fra due ore...

Claud. Andiamo, Prevosto, tutto è detto. (escono)

SCENA IV.

Un convento.

Entra il Duca e Frate Tommaso.

Duc. No, santo padre, allontanate tale idea, non crediate che il debole dardo dell’amore possa trapassare un seno ben armato. Il motivo che mi spinge a chiedervi un segreto asilo ha uno scopo più alto, che non i frivoli disegni della giovinezza.

Frat. Vostra Altezza può ella spiegarsi?

Duc. Mio venerabile padre, nessuno sa meglio di voi quanto io abbia amata sempre la vita solitaria, e quanto poco io mi curi di frequentar le assemblee in cui entrano la giovinezza, il lusso e la follìa. Ho confidato al signor Angelo, uomo di specchiata virtù e avvezzo a domar le sue passioni, il mio potere assoluto e la mia autorità, ed egli, come ogni altro, mi crede ora in viaggio per la Polonia. Volete sapere perchè ho adoperato così?

Frat. Mi farete piacere dicendomelo.

Duc. Noi abbiamo rigorosi statuti e dure leggi (freno necessario a caratteri ardenti) che abbiamo lasciate dormire per diciannove anni, come un leone satollo nella sua caverna, che non cerca più preda. Codeste leggi sono ora simili ad un padre indulgente, che ha legato un fascio minaccioso di verghe, unicamente perchè i suoi figli lo veggano, e n’abbiano spavento, non perchè ei ne voglia far uso; alla fine queste verghe, anzichè ispirare timore, divengono l’oggetto dei loro scherni. Così è accaduto dei nostri decreti; col troppo lasciarli inerti, son morti, e la licenza diffusa per tutto non conosce più modi.

Frat. Dipendeva da Vostra Altezza il togliere ogni vincolo alla giustizia, quando bene vi fosse sembrato; ed ella sarebbe apparsa più tremenda nella vostra persona, che in quella di Angelo.

Duc. Sì, ma io temei che essa nol fosse di troppo; e poichè è per colpa mia che i miei sudditi son divenuti così licenziosi, tirannia sarebbe in me il punirli crudelmente per trasgressioni ch’io stesso ho ordinate, essendo come un ordinare i delitti il lasciarli compiere. Ecco perchè, santo religioso, ho affidato ad Angelo quel difficile impiego: egli può all’ombra del mio nome punire gli abusi, senza che io divenga oggetto di censura. È per essere testimonio nascosto del suo modo di governare, ch’io voglio sotto il vostro abito, e come un religioso del vostro ordine visitare ed osservare e il ministro e il popolo. Perciò ve ne prego, datemi una tonaca, e insegnatemì come debbo comportarmi per aver in tutto l’aspetto di un frate. Vi esporrò in altro momento, e con maggior agio, nuove ragioni per questo mio stratagemma; per ora vi valga questo ch’io sto per dirvi: Angelo è austero; ei si vanta d’ogni virtù: noi vedremo se il potere altera il suo carattere, e se sono veramente stimabili gli uomini che hanno così belle apparenze. (escono)

SCENA V.

Un Monastero.

Entrano Isabella e Francesca.

Is. E son qui tutti i vostri privilegi?

Fran. Non bastano forse?

Is. Sì, certo; e non parlai perch’io ne desiderassi di più: vorrei anzi che le suore di santa Chiara fossero soggette ad una regola più stretta.

Luc. (dal di dentro) Olà! La pace sia in questo luogo!

Is. Chi chiama?

Fran. È la voce di un uomo. Gentil Isabella, volgete la chiave, e dimandate quello che vuole; voi lo potete, io no; voi non avete ancora proferiti i vostri voti; allorchè l’avrete fatto, non vi sarà più permesso di parlare ad un uomo che in presenza della superiora; e parlandogli, non potrete mostrargli il viso. — Chiamano di nuovo; vi prego di rispondergli. (esce)

Is. Pace e prosperità! Chi è là? (entra Lucio)

Luc. Salute, vergine, se lo siete, come queste guancie di rose annunziano. Potreste farmi la grazia di indirizzarmi ad Isabella, novizia in questo monastero, e amabile sorella dello sfortunato Claudio?

Is. Perchè dite sfortunato Claudio? Spiegatevi tosto, perchè io son quella sorella di cui parlate.

Luc. Vaghissima e bella novizia, vostro fratello vi fa assapere mille cose, e per non abusare della vostra pazienza, dirovvi senza più che è prigione.

Is. Oimè me! e perchè?

Luc. Per un’opera di cui io lo ricompenserei anzichè punirlo, se fossi suo giudice: egli incinse una fanciulla.

Is. Signore, non vi fate beffa di me.

Luc. Quello che vi dico, è vero. Con una vergine non mentirei. Io vi reputo come cosa consacrata al Cielo, e già santificata; come uno spirito immortale, a cui bisogna parlare con sincerità.

Is. Voi mi schernite.

Luc. Non lo crediate: vi dico il vero. Vostro fratello s’è unito colla sua amante, e com’è naturale che i terreni nuovi siano i più fecondi, così il fecondo di lei seno annunzia la sua felice coltura.

Is. Oh! chi è mai quella sciugurata! Mia cugina Giulietta forse?

Luc. È ella vostra cugina?

Is. Per adozione, come le giovani educande mutano i loro nomi, e ì s’imparentano l’una coll’altra per amistà.

Luc. Ebbene, è appunto essa.

Is. Ch’egli la sposi.

Luc. Qui è la quistione. Il duca è partito, ed ha lasciati molti cittadini cospicui, nel cui novero io mi pongo, nella speranza d’aver parte nell’amministrazione dello Stato: ma noi sappiamo da quelli che conoscono l’interno e i segreti dei gabinetti, che i rumori ch’egli aveva fatti spargere, erano falsi. Nel suo posto, e rivestito di tutta la sua autorità, il signor Angelo comanda; un uomo il di cui sangue è una spuma di neve; un uomo che non sente mai i pungenti stimoli dei sensi, ma che spegne le inclinazioni della natura collo studio, le privazioni, e i freddi godimenti dell’anima. Egli, per togliere la licenza che impunemente s’è mostrata lungo tempo all’orribile legge, come il sorcio si mostra al leone, ha disottorrato un editto, la di cui rigorosa disposizione condanna a morte vostro fratello; e l’han fatto imprigionare in virtù d’esso, e vuol compiere alla lettera, per dar un esempio, quell’atroce statuto. Ogni speranza è perduta, se pure voi non giungete colle vostre belle e insinuanti preghiere a piegar Angelo: questo è lo scopo del mio messaggio, affidatomi dal vostro fratello.

Is. E gli vorrà togliere la vita?

Luc. La sentenza è già proferita, e fra breve dovrà compiersi.

Is. Oimè! debole creatura, in che modo poss’io giovargli?

Luc. Fate prova dei vezzi che vi furono concessi.

Is. Oimè! io dubito...

Luc. I nostri dubbii son traditori che ci fan spesso perdere il bene che dipendeva da noi d’acquistare, togliendoci col timore la potenza d’agire. Andate a trovare il signor Angelo, ed egli sappia da voi, che quando una giovine bellezza chiede, gli uomini sono generosi come gli Dei; ma che s’ella s’umilia a supplicare, se inginocchiata piange, tutto ciò che domanda diventa così indispensabilmente suo, come lo era prima di quelli da cui le doveva essere accordato.

Is. Vedrò quel che potrò fare.

Luc. Ma senza indugi.

Is. Andrò tosto: m’accommiaterò tosto dalla superiora. Ti ringrazio cordialmente. Raccomandatemi a mio fratello, e fra breve ci saprà l’esito delle mie preghiere.

Luc. Me ne vado, fanciulla.

Is. Addio, signore. (escono)




  1. In questo dramma il prevosto compie anche gli uffici di carceriere.

Note

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