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MONSÙ TOMÈ
CAPITOLO PRIMO.
La presentazione dell’eroe.
«Niente si perde, a questo mondo, e tutto viene in taglio, quando è la sua ora.» Così dice la filosofia popolare, espressa in proverbi, e così ripeteva spesso la mia carissima nonna, filosofando la parte sua. È poi vera, la sentenza? Pensandoci bene, mi pare che ella debba intendersi con qualche restrizione. Vedete, per esempio; mi viene oggi in taglio anche il ricordo di Monsù Tome, ma pur troppo si è perduta nell’animo mio la memoria del suo riverito cognome. L’ho io mai saputo, del resto? Dubito, in verità, di non aver conosciuto quell’ottimo personaggio altrimenti che col nome di battesimo, raccorciato alla piemontese, e nobilitato dal suo titolo accompagnativo. Comunque sia, scrivo oggi di lui, prima che si perda anche, cancellato dalla mia memoria, il suo nome di battesimo.
Bartolomeo, Tomè Monsù Tomè, fu un nome proprio assai comune nel secolo scorso e nei principii del secolo presente. Ora hanno preso il sopravvento gli Ettori, gli Alessandri, i Cesari, gli Attilii, tutti nomi d’eroi, che fanno augurar bene delle nuove generazioni. Ma anche Monsù Tome fu un eroe; per lui l’esperimento è fatto, e non e’ è più da temere che gli augurii si sperdano, o che le speranze vadano in fumo.
Conobbi il brav’uomo a Loano, dove, nei primi anni della mia adolescenza, andavo spesso a passare qualche settimana, in casa d’una mia zia. Tommaso Marchesani, il mio vecchio amico loanese, che aveva forse trent’anni più di me, e trenta meno di Monsù Tome, aveva i requisiti necessari per un ottimo anello di congiunzione. Mercè sua, io quattordicenne entrai in una certa dimestichezza con quell’uomo, che già era a mezza strada fra i settanta e gli ottanta. Anche così avanti negli anni, Monsù Tome era tuttavia di buon osso. Alto ed asciutto, leggermente curvo nelle prime vertebre, ma sostenuto in vista dalla rigida andatura soldatesca, il viso incartapecorito, ma con la punta del naso rosseggiante come una miniatura di vecchio antifonario sul bianco delle basette sempre irte a guisa di stecchi, Monsù Tome aveva il tipo dell’antico ufficiale napoleonico; e cert’aria di malinconia che regnava su quel volto d’altri tempi, pareva rimpiangere un lontano periodo di cadute grandezze, di eroiche imprese, di memorabili gesta, non più in armonia con la prosaica mediocrità del giorno presente. Sarà forse per questo, che io, quando penso a Don Chisciotte, il triste cavaliero della Mancia, non so figurarmelo altrimenti che con la fìsonomia di Monsù Tomè, ufficiale di sanità, comandante di spiaggia (il titolo non lo rammento più esattamente) nella fedelissima città di Loano.
In quel modesto ufficio egli era stato sbalestrato, dopo i trattati del Quindici e il ritorno dei reali di Sardegna a Torino, con rispettivo accrescimento di territorio sulla riva del mare ligustico. Era solo, oramai, del suo sangue; in gioventù non aveva avuto agio di prender mo glie, e a prenderla in vecchiaia non c’era più sugo; perciò viveva i suoi ultimi anni da scapolo, aspettando il bacio nuziale della morte e contentandosi dei servigi d’una vecchia fantesca. Parlava poco, di solito; anzi, per sei giorni della settimana, non diceva che le parole necessarie al disbrigo delle facendo d’uffizio, le quali, in verità, non gli davano molto travaglio. Ma egli era solo, anche in uffizio; i registri li teneva in ordine lui, e, quando aveva segnati i suoi arrivi e le sue partenze in libera pratica, trovava ancora il modo di riempire con certe note storiche la colonna delle osservazioni.
Era una specie di letterato, il povero Monsù Tome; uno scrittore andato a’ cani. La sua prima vocazione era stata di farsi prete; perciò aveva fatto un corso di studi classici nel seminario di Mondovì; ma la guerra era scoppiata improvvisamente tra il Piemonte e la Repubblica Francese, ed egli aveva barattato la tonaca e il nicchio del seminarista, con la falda mostreggiata e la lucerna del granatiere di Monferrato. Ciò basti a spiegarvi la letteratura di Monsù Tome; ora torniamo alla settimana del vecchio comandante di spiaggia. La domenica, giorno sacro al riposo dei registri, Monsù Tome scioglieva volentieri la lingua, se trovava qualcheduno con cui passare un’oretta. Se non lo trovava, niente paura; egli mostrava con l’esempio che un uomo può bastare a’ se stesso. Quel giorno di riposo, egli non lo dava più al re, lo concedeva alla propria persona, ma cercando egualmente di far onore al re Carlo Alberto, che egli serviva fedelmente, dopo aver servito i suoi antecessori, e lo stesso Napoleone, ficcatosi in mezzo a loro, come una bietta enorme nella spaccatura d’un tronco di quercia. Prima di tutto, si metteva in gran divisa, come ne aveva il diritto per il suo grado di luogotenente; calzoni di nanchino, uniforme di verde indugio, o di verde bottiglia, se vi piace meglio, bottoni dorati e mostreggiature gialle, la spada alla cintura, e sulla testa un gran casco di cuoio lucido, in forma di pentola rovesciata, con una grossa nappa gialla che faceva capolino dallo spigolo. Così vestito, passeggiava pomposo per le vie di Loano; poi, ritornava a casa, nella sala da pranzo, dov’era ancora la tovaglia sul desco, e sulla tovaglia un bel fiasco di vino, con dieci bicchieri schierati in battaglia. Perchè dieci? Non so; forse rappresentavano l’ultima misura di capacità del bevitore. Perchè in fila? Or ora vedrete. Monsù Temè li riempiva tutti, uno dopo l’altro, per non aver da durare altra fatica; li contemplava un tratto, con occhio benevolo; poscia si adagiava sul seggiolone, accanto ’alla tavola, con la spada raccolta fra le ginocchia, e il suo casco tirato un po’ indietro verso la nuca, come un buon guerriero che non è in mostra sulla piazza d’armi, o in volta per le strade, e non deve più dare esempio di perfetta compostezza agli inferiori, nè di euritmia militare ai borghesi.
Così seduto, contemplava con aria di suprema soddisfazione i suoi dieci bicchieri; stringeva l’occhio ammiccando; poi stendeva la mano al primo della fila e lo sorseggiava beatamente, facendo schioccare la lingua contro il palato, e ad ogni schioccata brontolandosi un a bene!» Quindi, deposto sulla tavola il bicchiere vuoto, metteva mano al secondo, e ripeteva l’operazione. Il terzo andava come il secondo e come il primo; ma dopo il terzo incominciavano le novità, perchè Monsù Tornò sentiva il bisogno di farsi qualche complimento in piemontese, che era la sua lingua preferita delle grandi occasioni.
— Beva, Monsù Tomè! Beva pure libera mente! Questo è un vino generoso; non c’è pericolo che dia alla testa.
E obbediva alla sua esortazione, e beveva il quarto.
— Coraggio, Monsù Tome! Perchè non beve? — domandava egli, dopo un’altra pausa di qualche minuto. — Animo, via, non pensi alle malinconie; mandi giù quest’altro!
E tracannava il quinto, come potete immaginarvi.
Gli occhi del comandante brillavano sempre più vivi, volgendosi dai cinque bicchieri vuoti ai cinque bicchieri pieni.
— Andiamo! Non faccia tante cerimonie! — ripigliava, dopo aver passata quella seconda rassegna. — Si vive una volta sola, e poi... non si beve più.
E vuotava il sesto, con serenità di filosofo.
Al settimo, ordinariamente, la voglia c’era, ma le forze scemavano; la mano andava più lenta alla tavola e tornava un po’ più vacillante alla bocca.
— Come? Ella trema, Monsù Tome? Non ha vergogna? Un uomo come Lei, che ha... operato su tutti i fiumi della Russia, avrebbe paura d’un bicchiere di vino?
Era l’argomento achille della sua logica, lo stimolo più acuto alla sua fibra intorpidita. Punto sul vivo, Monsù Tome tracannava d’un fiato l’ottavo, il nono, il decimo, vedendo confusamente, come attraverso una nube, l’acqua paurosa, eppure dominata, di tutti i fiumi della Russia.
Ahimè! Dopo quel decimo bicchiere, Monsù Tome andava regolarmente sotto la tavola. Al ruzzolare della sua pentola di cuoio, al saltellare della sua spada sul pavimento, esciva la fantesca dalla cucina, per raccogliere i morti. Prima di tutto, da buona massaia, la Teresina (era questo il suo nome) portava in luogo sicuro il fiasco e i bicchieri; poi, allontanava la tavola, per iscoprire il degno comandante, gli slacciava il cinturone, gli sbottonava la tunica, e, lavorando di fine, lo metteva bel bello in maniche di camicia e in peduli. I calzoni di nanchino, orgoglio estivo di Monsù Tome, erano buttati senz’altro nella biancheria da portare al fossato, e quel sacco d’ossa, mezz’ora dopo il decimo bicchiere, russava pacifico nel suo letto.
La mattina seguente, sull’alba, e senza che battessero la diana, Monsù Tomè si risvegliava, scendeva da letto, magro come un chiodo, di ritto come un i, e fresco come una rosa, ma non felice come un re, nè contento come un papa. Era serio, accigliato, pensoso, il nostro comandante di spiaggia. I doveri d’ufficio, i regolamenti, il servizio del re, passavano avanti tutto; non si spianavano le rughe fino alla domenica dopo.
Povero Monsù Tome! dopo aver operato su tutti i fiumi della Russia e tra tutti i fiaschi di Loano, egli ha pagato il suo tributo alla morte, è ritornato alla gran madre antica. È proprio vero, come diceva lui, che si vive una volta sola, nella vita!
Di tanto in tanto, a punti di luna, il bravo comandante di spiaggia raccontava le sue battaglie. I vecchi guerrieri son tutti così, da Nestore in poi. Il re di Pilo ripeteva sempre la sua famosa storia dei Lapiti e dei Centauri, che non fu certamente la più piccola tra le seccature dell’assedio di Troia. Monsù Tomè, più ricco e più vario, narrava almeno quindici episodii delle campagne di Prussia, d’Austria e di Russia. Per altro, bisognava saperlo interrogare. Come la misteriosa caverna delle Mille e una notte, egli non si apriva che ad una certa parola. Il mio vecchio amico Maso, che mi aveva introdotto da Monsù Tomè, conosceva benissimo il modo di farlo parlare. Per esempio, non gli diceva mica: «racconti la battaglia di Jena, o quella di Friedland, di Wagram, della Moscòva.» Se egli avesse cercato di dargli la stura in quella forma, Monsù Tomè gli avrebbe risposto senza fallo, come rispondeva ad altri profani: «di questi racconti ne son piene le storie.» Bisognava dirgli, invece: «Si ricorda Monsù Tomè, di quel cosacco che le voleva dare una lanciata, a Smolensko, e Lei....»
— Ah, sì! — rispondeva subito Monsù Tome animandosi al ricordo, come un cavallo generoso, al primo colpo di sprone. — Ed io gliene ho levata la voglia con un colpo di baionetta. Era l’alba; il cannone aveva incominciato a brontolare. Marciavo alla testa della mia squadra, quando l’imperatore passò, per andare sul punto minacciato....
E via di corsa. Il racconto era attaccato, e ne avevamo per due ore, per tre, e magari per quattro, nelle quali il narratore dimenticava perfino di bere, ma pronto a ricattarsene quando aveva finito. Perchè, storia o non storia, accompagnato solo, Monsù Tome, nelle sere dei giorni festivi, voleva finire sotto la tavola, da quell’uomo metodico che era. Il metodo è la bussola dell’esistenza; e col metodo, Modsù Tomè visse fino a novantadue anni.
Voi, qui, mi direte: come si poteva aver la chiave, per farlo parlare di tante cose, se egli non parlava senza essere stuzzicato in un certo modo e con certe domande? Ecco qua; un racconto ne tirava un altro; gli ascoltatori potevano ritenere qualche particolare del fatto, qualche accenno ad altri fatti ricordati per incidenza, e farne appiglio a sempre nuove interrogazioni. Quando io conobbi Monsù Tomè, le chiavi erano cinque o sei (parlo delle maggiori, di quelle che mi sono rimaste meglio impresse nella memoria): la lanciata del cosacco di Friedland, l’artigliere morto di Wagram, le parole dell’imperatore a Smolensko, il cannocchiale raccattato sulla pianura di Austerlitz, la caduta nel fosso di Eylau, i calzoni rattoppati alla vigilia di Jena. Monsù Tomè le aveva fatte quasi tutte, le campagne napoleoniche. Lui piemontese? Sicuro, lui piemontese! Napoleone aveva desiderato così; il granatiere di Monferrato aveva dovuto prender servizio nel grande esercito. E la ragione di quella preghiera, che equivaleva ad un comando, era chiara: Monsù Tomè era stato uno tra a «quei di Gosseria.» Ma non bisognava domandargli del suo primo incontro con Napoleone, se si voleva da lui il racconto di Cosseria. Monsù Tomè prendeva l’aire da un punto, e non ritornava mai indietro. Per aver la difesa di Cosseria, bisognava parlargli della vivandiera di Augereau. Ma quello era un tasto che bisognava toccare con molta delicatezza, poichè rispondeva a quel tasto il doppio ricordo del suo primo battesimo di fuoco e della sua prima pena d’amore.
L’amico Maso, come vi ho detto, conosceva il modo di farlo parlare. Una domenica, non ricordo come (ma il come importa poco al racconto), aveva condotto il discorso sul tenero. In un paese dove le donne hanno quasi tutte i capegli neri, ed egli stesso, da quel biondo che era, doveva preferire le brune per amor di contrasto, Maso si mise in testa di dar la palma alle bionde. Già, con buona pace delle brune, la donna, la donna vera, la donna tipica, non poteva essere che bionda, non s’intendeva, non si ammetteva che bionda. Eva, la madre del genere umano, era escita bionda dalle mani del Creatore, bionda come il raggio di sole che ebbe l’altissimo onore di illuminar primo quella fiorente bellezza. Del resto, anche i colori avevano il loro significato. Il biondo era la grazia, il nero la forza; bionda, per conseguenza, doveva esser la donna; all’uomo i capegli neri, con la robustezza dei muscoli, con lo scatto dai tèndini.... E andava avanti, T amico Maso, sempre avanti così, non dubitando neanche di gettar sassi in colombaia. Io per allora ci capivo poco, in quelle sottigliezze, e niente affatto in quella fissazione dell’amico, il quale, a farlo a posta, se la voce popolare non mentiva, era in quei giorni molto addentro nelle buone grazie d’una dama di capei nero lucente. Ma non andò molto che indovinai, quando egli venne a stringere l’argomento. Era bionda, o bruna, la vivandiera di Augereau, che Monsù Tomè aveva conosciuta a’ suoi tempi? — Bionda, perbacco baccone, bionda a quel Dio, d’un bel biondo cupo, traente al cenerognolo, come sono generalmente le bionde di Francia; ed alta, poi, svelta, aggraziata, fatta proprio a pennello. E vedere come ci si animava, Monsù Tomè, a descrivere tutte le bellezze di quella figura, ormai così lontana nello spazio e nel tempo! Il povero vecchio, intirizzito dai geli dell’in verno, si riscaldava ancora in ispirito ai fuochi allegri della sua giovinezza.
— A proposito, — disse Maso, che finalmente aveva gittata l’àncora, — come si è incontrato con lei? A Cosseria, se non m’inganno.
Il vecchio comandante di spiaggia mise un sospiro tanto fatto, si tirò i mustacchi grigi, mandò indietro due dita il suo casco dal sommo della fronte, intinse le labbra nel primo dei suoi dieci bicchieri, e finalmente rispose:
— Ecco qua.
Era questa la sua pròtasi favorita, il suo «Cantami o Diva.» Dopo di che, il bravo Monsù Tomè prese risolutamente il largo. Statelo a sentire, perchè, d’ora innanzi, parlerà sempre lui.