< Monsù Tomè
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II. Lo sguardo dell'aquila
I III

CAPITOLO II.

Lo sguardo dell’aquila.

Avevo ventidue anni; bella età che mi rincresce di avere avuta solamente una volta. Ero stato ammesso nella seconda compagnia dei granatieri di Monferrato, perchè mi avevano riconosciuto buon tiratore, e, dopo sei mesi di galloni da caporale, mi avevano fatto sergente, perchè avevo una bella mano di scritto e ci voleva uno che sapesse fare la situazione quotidiana con un po’ di garbo e tener bene il ruolino della compagnia. Aver fatto il mio dovere alla manovra ed al fuoco, in quartiere ed in campo, non mi ha mai tanto giovato, come la mia mano di scritto. Non si raccomanderà mai abbastanza la calligrafia alle nuove generazioni. La calligrafia apre tutte le porto, conduce a tutti gli onori. Io, poichè devo parlarvi di me, ci ho guadagnato il grado di sergente, che mi ha posto in condizioni di farmi conoscere e di guadagnar le spalline. Ancora un anno di fortuna per Napoleone, ed ero capitano; ancora un altr’anno ed ero maggiore, fors’anche colonnello. Perchè allora, nei gradi superiori, si camminava rapidamente. Quel benedetto uomo faceva un tal consumo di generali! Ma non precorriamo gli eventi, i quali hanno avuto il corso che dovevano avere, e raccontiamo le cose con ordine.

Anzi se non vi spiace, daremo uno sguardo d’aquila alle cose politiche e militari di quel tempo. Non si può intender bene ciò che io sono per narrarvi, se non sì conosce il teatro della guerra, e la collocazione dei rispettivi pezzi sulla scacchiera d’Europa.

Si accusa il Piemonte di aver tradito in quel tempo i suoi propri interessi, muovendo guerra alla Francia: e di questo suo torto si può parlar oggi a mente fresca, leggendo le storie, e ricamandoci su ogni sorta di variazioni. Ma io vi pregherò di mettervi un momento nei panni di Vittorio Amedeo III. Egli era così poco amico dell’Austria, che stava per l’appunto me ditando una guerra in Lombardia, quando scoppiò d’improvviso la rivoluzione Francese, la quale ebbe il suo primo contraccolpo nella aperta ribellione della Savoia e il secondo nella sommossa degli studenti di Torino. Il pericolo imminente, ne converrete anche voi, doveva far dimenticare gli interessi lontani. Nel 1791 ci fu il famoso abboccamento di Pilnitz, tra l'imperatore d’Austria e il re di Prussia, e forse il nostro re fu troppo sollecito ad approvare le risoluzioni bellicose dei due monarchi, perchè egli doveva pure immaginarlo, che uno di essi, l’austriaco, non si curava nè punto nè poco della sua intromissione. È bene che notiate questo, perchè c’è la chiave di tutti i procedimenti del governo di Vienna, nelle cinque campagne che seguirono, dal 1791 al 1796. L’Austria aveva conosciuto i nostri disegni sul Milanese; l’Austria non vedeva di buon occhio che il Piemonte rifacesse, dopo cinquant’anni di pace europea, la propria educazione militare; l’Austria non voleva sopra tutto, anche accettandone lo spontaneo concorso, che il nuovo e mal visto alleato affermasse con qualche successo la sua potenza guerriera in Italia.

Ed ora andiamo avanti. Scoppia la guerra nel 1792. Austriaci e Prussiani riportano qualche vantaggio. Vittorio Amedeo si accende, dimezza i suoi sedicimila uomini disponibili, ne manda ottomila in Savoia e ottomila nella contea di Nizza. Fu un errore; bisognava mandare un piccolo corpo d’osservazione sul Varo, e gittare tutto il nerbo delle nostre forze in Savoia, perchè quella divisione ottenesse il suo pieno effetto. Ma lasciamo da parte questo errore strategico. La frontiera francese era d’ogni parte sguernita. Perchè non approfittarne, marciando da Nizza su Tolone e da Mommeliano su Lione? A Nizza comandava il De Courten, vecchio ufficiale, consigliato e guidato dal cavalier Pinto, vissuto qualche tempo in Prussia e stimato in materia militare assai più di ciò che valeva. L’uno e l’altro sciuparono l’estate sul Varo, per contrastarne il passaggio ad un nemico che non c’era. In Savoia comandavano due, il conte Lazari e il marchese Cordon. Avevano un’antica ruggine, e ne sofferse la condotta dell’esercito. Il Cordon voleva tenere unite le forze in un punto; voleva difender tutti i punti il Lazari; nessuno pensava alla utilità di prendere l’offensiva. Il governatore della Savoia la diede vinta al Lazari; le forze furono sparpagliate, e non si poterono raccogliere in tempo, quando i francesi, fatto campo in sedicimila a Barreaux, sotto gli ordini del generale Montesquieu, decisero di passare essi il confine.

Non era possibile resistere in quelle condizioni, e un consiglio di guerra deliberò di ritirarsi. A Torino furono colti da timor pànico, e richiamarono anche il De Courten con la sua gente dalla sponda sinistra del Varo, dove fronteggiava un corpo di quattromila francesi, sotto gli ordini del generale Anselmo. Questi non voleva credere a tanta debolezza d’animo; dubitò a tutta prima di una insidia; poscia, rassicurato da una felice esplorazione, passò il Varo, entrò in Nizza ed occupò Villafranca. Salvò da quella parte l’onore delle armi piemontesi il conte di Sant’Andrea, raccogliendo alcuni battaglioni sparsi sul colle di Tenda, ed occupando le vette sopra Sospello, di rimpetto a Saorgio, linea stretta ed eccellente per trincerarvisi. Nè ciò bastando al valente uomo, prese tosto l’offensiva, rovesciò il nemico, lo cacciò da Sospello, ed avanzò ancora la propria linea occupando tutta la valle di Lantosca.

Frattanto, si era commesso l’errore di chiePagina:Barrili - Monsù Tomè, Treves, 1885.djvu/30 Pagina:Barrili - Monsù Tomè, Treves, 1885.djvu/31 Pagina:Barrili - Monsù Tomè, Treves, 1885.djvu/32 Pagina:Barrili - Monsù Tomè, Treves, 1885.djvu/33 Pagina:Barrili - Monsù Tomè, Treves, 1885.djvu/34 Pagina:Barrili - Monsù Tomè, Treves, 1885.djvu/35

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