< Morgante maggiore
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Canto sesto
Canto quinto Canto settimo

CANTO SESTO.




ARGOMENTO.

     Drento al palazzo del re Caradoro
Entra Rinaldo, e i due compagni ha seco:
Rinaldo e Orlando combatton tra loro
Sconosciuti, e si dan colpi da cieco.
Va prigione Dodon. Chi sien costoro,
La spia di Gano al re corre a far eco.
Ulivieri campion d’una sottana
D’amor si strugge per Meridiana.


1 O Padre nostro che ne’ cieli stai,
     Non circumscritto1, ma per più amore
     Ch’a’ primi effetti di lassù tu hai,
     Laudato sia il tuo nome e ’l tuo valore:
     E di tua grazia mi concederai
     Tanto, ch’io possi finir sanza errore
     La nostra istoria: e però, Padre degno,
     Aiuta tu quest’affannato ingegno.

2 Era il Sol, dico, al balcon d’oriente,
     E l’aurora si facea vermiglia,
     E da Titon suo antico un poco assente;
     Di Giove più non si vedea la figlia,
     Quella amorosa stella refulgente,
     Che spesso troppo gli amanti scompiglia;
     Quando Rinaldo giù calava il monte,
     Dove era Orlando suo famoso conte.

3 Come’egli ebbe veduta la cittade,
     Disse a Dodone: Or puoi veder la terra
     Dov'è la dama c’ha tanta beltade;
     Vedi che 'l re Corbante già non erra,
     Ch’io veggo de' Pagan gran quantitade:
     Quivi è quel Manfredon che gli fa guerra.
     Mentre che dice questo, e Ulivieri
     Conobbe Orlando sopra il suo destrieri.

4 Vide ch’a spasso con Morgante andava,
     E che faceva le genti ordinare
     Per la battaglia che s’apparecchiava,
     E già faceva stormenti sonare:
     Ma del gigante ammirazion pigliava,
     E cominciollo a Rinaldo a mostrare:
     Quell'è Morgante, e il conte Orlando è quello
     Ch’è presso a lui: non vedi tu Rondello?

5 Rinaldo, quando vide il suo cugino,
     Per gran dolcezza il cor si sentì aprire;
     E disse: Poi ch’io veggo il paladino,
     Contento sono ogni volta morire.
     Or oltre seguirem nostro cammino;
     A Carador promesso abbiam di gire:
     Tosto sarem con Orlando alle mani,
     E con questi altri Saracini o cani.

6 Com'entrati fur poi drento alle mura,
     Domandorno del re subitamente,
     Dicendo: Cavalier siam di ventura,
     Dal re Corbante mandati al presente.
     I terrazzan fuggivan per paura
     Di quel lione sanza dir lor niente:
     Rinaldo tanto innanzi cavalcoe,
     Che in sulla piazza del re capitoe.

7 E com'e’ furon veduti costoro,
     Subito fu portata la novella
     Dentro al palazzo al gran re Caradoro.
     Rinaldo intanto smontava di sella,
     Ulivieri, e Dodon non fe dimoro;
     Ognun dintorno di questo favella:
     Questo debbe esser, dicean, quel barone
     Ch’è appellato il guerrier del lione.

8 Meridiana, ch’era alla finestra,
     Fece chiamar sue damigelle presto,
     Che d’ogni gentile atto era maestra;
     Fecesi incontro col viso modesto,
     Con accoglienza sì leggiadra e destra,
     Che nessun più non arebbe richiesto
     Tra le ninfe di Palla o di Diana,
     Che sì facessi allor Meridiana.

9 Rinaldo quando vide la donzella,
     Tentato fu di farla alla franciosa2;
     A Ulivieri in sua lingua favella:
     Quant’io non vidi mai più degna cosa.
     Disse Ulivieri: E’ non è in cielo stella,
     Ch’appetto a lei non fussi tenebrosa.
     Rinaldo presto rispose: Io t’ho inteso,
     Che ’l vecchio foco è spento, e ’l nuovo acceso.

10 Non chiamerai più forse, come prima,
     La notte sempre e ’l giorno Forisena,
     Ch’ad ogni passo ne cantavi in rima:
     Non sente al capo duol chi ha maggior pena;
     Veggo che del tuo amor l’hai posta in cima,
     E se’ legato già d’altra catena.
     Ulivier disse: S’io vivessi sempre,
     Convien sol Forisena il mio cor tempre.

11 Eron3 saliti già tutta la scala,
     E grande onor da quella ricevuto;
     Che insino a mezzo gli scaglion giù cala,
     E rendutogli un grato e bel saluto:
     Intanto Caradoro in su la sala
     Con tutti i suoi baroni era venuto:
     Rinaldo e gli altri baciaron la mano,
     Come è usanza a ogni re pagano.

12 Fece ordinar di subito vivande,
     E’ lor destrier fornir di strame e biada;
     Per la città la lor fama si spande,
     E per vedergli assai par che vi vada:
     Venne la cena, e fuvvi altro che ghiande.
     Ulivier pure alla donzella bada;
     Poi che cenato fu, re Caradoro
     In questo modo a dir cominciò loro:

13 Io vi dirò, famosi cavalieri,
     Quel che ’l mio cor da voi desia e brama:
     Per tutt’i nostri paesi e sentieri
     Dell’oriente risuona la fama
     Di vostra forza, e de’ vostri destrieri,
     E questa è la cagion che qua vi chiama.
     Come vedete, ogni campagna è piena
     Di gente qua per darci affanno e pena.

14 Ed ecci un re famoso, antico e degno,
     Che innamorato s’è d’esta mia figlia,
     E vuol per forza lei con tutto il regno;
     E molti ha morti della mia famiglia:
     Ogni dì truova qualche stran disegno
     Per oppressarci, e ’l mio campo scompiglia;
     E per ventura un cavalier errante
     V’è capitato con un gran gigante.

15 Con un battaglio in man d’una campana,
     Sia ch’armadura vuol, che ne fa polvere;
     E molti già di mia gente pagana
     Ha sfracellati, e dato lor che asciolvere4:
     Ovunque e’ giugne, la percossa è strana,
     Non c’è papasso5 che ne voglia assolvere:
     Io 'l vidi un giorno a un dar col battaglio,
     Che ’l capo gli schiacciò come un sonaglio.

16 Se con quel cavalier vi desse il core
     A corpo a corpo, chè così combatte,
     E col gigante d’acquistare onore,
     Le genti mie non sarebbon disfatte.
     Ed io vi giuro pel mio Dio e Signore,
     S’alcun di voi di questi ignun6 abbatte,
     Ciò che saprete domandare, arete,
     Se ben la figlia mia mi chiederete.

17 Era presente a quel Meridiana,
     E una ricca cotta7 aveva indosso
     D’un drappo ricco all’usanza pagana,
     Fiorito tutto quanto bianco e rosso
     Com'era il viso di latte e di grana8,
     Ch’arebbe un cor di marmo ad amar mosso:
     Nel petto un ricco smalto9 e gemme e oro
     Con un rubin che valeva un tesoro.

18 E un carbonchio10 ricco ancora in testa,
     Che d’ogni scura notte facea giorno:
     Avea la faccia angelica e modesta,
     Che riluceva come ’l Sol d’intorno.
     Ulivier, quanto guardava più questa,
     Tanto l’accende più il suo viso adorno:
     E fra suo cor dicea: Se tu farai
     Quel che dicesti, re, tu vincerai.

19 Rinaldo vide Ulivier preso al vischio11
     Un’altra volta, e già tutto impaniato;
     E dicea: Questo ne vien tosto al fischio;
     Conobbe il viso già tutto mutato:
     Vedeva gli occhi far del bavalischio12.
     Disse in francioso un motto loro usato:
     A ogni casa appiccheremo il maio13,
     Chè come l’asin fai del pentolaio14.

20 Ma non vagheggi a questa volta, come
     Solevi in corte far del re Corbante;
     Chè se ti piace il bel viso e le chiome,
     Piace la spada a costei del suo amante:
     Queste son dame in altro modo dome,
     Non c’è più bell'amar che nel levante.
     Ulivier sospirò nel suo cor forte,
     Quasi dicessi: Sol non amai in corte.

21 E ricordossi allor di Forisena,
     Che del suo cor tenea le chiavi ancora,
     Ma non sapeva, omè, della sua pena:
     Prima consenta il ciel, dicea, ch’i’ mora,
     Che sciolta sia dal cor quella catena,
     Che scior non puossi insino all’ultim’ora;
     E se fra’ morti poi vorran gli Dei
     Che amar si possi, amerò sempre lei.

22 Non si diparte amor sì leggiermente,
     Che per conformità nasce di stella15;
     Dovunque andremo in levante o in ponente,
     Amerò sempre Forisena bella:
     Però che ’l primo amor troppo è possente,
     Non son del petto fuor quelle quadrella,
     Ch’io non credo che morte ancor trar possa,
     Prima che cener sia la carne e l’ossa.

23 Lasciam costoro insieme un poco a mensa.
     Aveva alcuna spia re Manfredonio,
     Come colui ch’e’ suoi pensier dispensa,
     D’aver di ciò che si fa testimonio:
     E poi chi ama, giorno e notte pensa
     Come e’ si tragga l’amoroso conio16:
     Non si può dir quel ch’un amante faccia
     Per ritrovar della dama ogni traccia.

24 Detto gli fu, come e’ son capitati
     Tre cavalier famosi a Caradoro,
     E paion molto arditi e bene armati,
     Ma non sapeva alcun de’ nomi loro,
     Se non che tutti assai s’eron vantati
     Alla sua gente dar molto martoro,
     E ch’egli avevon sotto corridori,
     Che mai si vide i più belli e migliori.

25 Orlando pose orecchio alle parole:
     Sarebbe questo Rinaldo d’Amone?
     Ma poi diceva: Rinaldo non suole,
     Come color dicien, menar lione:
     Poi disse: Imbasciador mandar si vuole,
     Per uscir fuor d’ogni suspizione,
     A Caradoro, e dirgli, così parmi,
     Ch’io vo’ con questi cavalier provarmi.

26 A Manfredonio piacque il suo parlare,
     E subito mandorno imbascieria;
     Erano ancor coloro a ragionare:
     Caradoro a Rinaldo si volgia,
     Dicendo: Pro’ baron, che vuoi tu fare?
     Rinaldo sfavillava tuttavia;
     Pargli mill’anni d’esser con Orlando,
     E disse: Io sono in punto al tuo comando.

27 E Ulivier soggiugneva di costa17:
     Del diciannove18 ognun terrà lo ’nvito,
     E così fate per noi la risposta.
     Ah, Ulivier, Amor ti fa sì ardito!
     Dite che al campo ne venga a sua posta.
     Lo imbasciador tornò ch’aveva udito,
     E disse a Manfredonio: E’ son contenti,
     E prezzon poco te colle tue genti.

28 E’ mi pareva, a guardagli nel volto,
     Che tra lor fussi del combatter gaggio19,
     Ch’ognun pel primo volessi esser tolto,
     Tanto fier si mostravan nel visaggio.
     Rispose Orlando: E’ non passerà molto
     Che parleranno d’un altro linguaggio.
     Disse Morgante: Io vo’ con un fuscello
     Di tutt’a tre costor far un fardello.

29 E vommegli alla cintola appiccare;
     Lascia pur ch’egli assaggino il metallo,20
     E ch’io cominci un poco a battagliare;
     Che penson di venir costoro al ballo?21
     Or oltre io vo’ col battaglio sonare,
     Perchè non faccin gli scambietti in fallo.
     Ma in questo tempo Rinaldo si è armato,
     E dal re Caradoro accomiatato.

30 Ed avea fatte cose in sulla piazza,
     Che ’l popol n’avea avuto maraviglia;
     Di terra con lo scudo e la corazza
     Saltato in sella, e pigliata la briglia.
     Carador disse: Questa è buona razza:
     E molto lieta si fece la figlia,
     Ch’era venuta per diletto fore,
     A vedergli montare a corridore.

31 Ed avea prima aiutato Ulivieri
     Armar, che molto di questo gli giova;
     E saltato di netto è in sul destrieri,
     E fatto innanzi alla dama ogni prova,
     Che far potessi nessun cavalieri;
     E Dodone anco nel montar non cova:
     Ognun di terra a caval si gittoe,
     E tutto il popol se ne rallegroe.

32 Aveva fatti tre salti Baiardo,
     Ch’ognun fu misurato cento braccia,
     Tanto fier era, animoso e gagliardo;
     Ed Ulivier, perchè alla dama piaccia,
     Di Vegliantin faceva un leopardo;
     Dodone al suo gli spron ne’ fianchi caccia:
     E finalmente dal re Caradoro
     A lanci e salti si partìr costoro.

33 Poi che furono usciti della porta,
     Fino alle sbarre del campo n’andorno:
     Rinaldo tanta allegrezza lo porta
     Che cominciò a sonar per festa un corno.
     Fu la novella a Manfredon rapporta;
     Orlando presto e Morgante n’andorno,
     Dove aspettavan questi tre baroni,
     E salutorno in saracin sermoni.

34 Non ricognobbe Orlando il suo cugino,
     Perchè Baiardo è tutto covertato,
     E lui parlava al modo saracino;
     Vide il lione, e molto ha biasimato:
     Non è costume di buon paladino
     Aver questo animal seco menato;
     Non doverresti a gnun modo menarlo;
     Per carità degli uomini ti parlo.

35 Disse Rinaldo: Buon predicatore
     Saresti, poi ch’hai tanta carità:
     Non ti bisogna aver questo timore,
     Nel tuo parlar si dimostra viltà;
     Se tu sapessi, baron di valore,
     Per quel ch’io ’l meno, ed ogni sua bontà,
     Non parleresti in cotesto sermone:
     Sappi che ignun non offende il lione,

36 Se non chi a torto quistion meco piglia,
     O ver chi fussi traditor perfetto.
     Il conte Orlando ha seco maraviglia,
     Poi gli rispose: Vegnamo all’effetto;
     Se vuoi combatter sanz’altra famiglia
     A corpo a corpo, mettiti in assetto;
     Chè in altro modo combatter non voglio:
     Farò di te come degli altri soglio.

37 Disse Dodon: Tu sarai forse errato.
     Il gigante gli fece la risposta:
     Tu non cognosci il mio signor pregiato,
     Però facesti sì strana proposta;
     Io non son come tu, barone, armato,
     E proverrommi con teco a tua posta.
     Dodone allora pazienzia non ebbe,
     E pure stato il miglior suo sarebbe.

38 La lancia abbassa con molta superba,22
     E percosse Morgante in su la spalla;
     E’ si pensò traboccarlo in su l’erba:
     Morgante non lo stima una farfalla,
     Ed appiccògli una nespola acerba,
     Tanto che tutto pel colpo 23traballa:
     E come e’ vide balenar Dodone,24
     Se gli accostava, e trassel dell’arcione.

39 Al padiglion ne lo porta il gigante:
     A Manfredonio Dodon presentava;
     Manfredon rise, veggendo Morgante,
     E per Macon d’impiccarlo giurava.
     Morgante in drieto volgeva le piante,
     Torna ad Orlando ch’al campo aspettava.
     Rinaldo irato ad Orlando dicia:
     Io ti farò, cavalier, villania.

40 Aspettami, se vuoi, tanto ch’io vada
     A qualche cosa a legar quel lione,
     Poi proveremo la lancia e la spada
     Per quel c’ha fatto il gigante ghiottone.
     Rispose Orlando: Fa’ come t’aggrada,
     O lancia, o spada, o cavallo, o pedone.
     Rinaldo smonta, e la bestia legava,
     Poi verso Orlando in tal modo parlava:

41 Non potrai nulla del lion più dire;
     Oltre provianci colle lancie in mano,
     Vedrem se, come mostri, hai tanto ardire;
     Chè il can che morde, non abbaia invano.
     Volse il destrier, per tornarlo a ferire.
     Orlando al suo Rondel gira la mano,
     Del campo prese, e con molta tempesta
     Si volse in drieto colla lancia in resta.

42 Non domandar quel che facea Baiardo,
     Con quanta furia spacciava il cammino;
     E Rondello anco non pareva tardo,
     Anzi pareva quel di Vegliantino:
     Rinaldo aveva al bisogno riguardo25
     Dov’e’ ponessi la lancia al cugino;
     Ma cognosceva ch’egli è tanto forte,
     Che pericol non v’è di dargli morte.

43 A mezzo il petto la lancia appiccoe,
     Orlando ferì lui similemente;
     E l’una e l’altra lancia in aria andoe;
     Non si cognosce vantaggio niente;
     E l’uno e l’altro destrier s’accoscioe,
     E cadde in terra pel colpo possente:
     Tanto che fuor della sella saltorno
     I duo baroni, e le spade impugnorno.

44 E cominciorno sì fiera battaglia,
     Che far comparazion non si può a quella;
     Perchè Frusberta e Cortana26 anco taglia,
     E ’l suo signor, che con essa impennella,27
     Disaminava e la piastra e la maglia;
     Rinaldo sempre all’elmetto martella,
     Perchè e’ sapeva ch’egli è d’acciaio fino,
     Che fu d’Almonte nobil Saracino.

45 Pur nondimen si voleva aiutare,
     Però che Orlando vedea riscaldato,28
     E conosceva quel che sapea fare
     Il suo cugin, quand’egli era adirato;
     Ma Cristo volle un miracol mostrare,
     Acciò che ignun di lor non abbi errato:
     E perchè de’ suoi amici si ricorda,
     Il fier lione spezzava la corda.

46 Venne a Rinaldo, ed Orlando dicia:
     Per Dio, baron, di te mi maraviglio:
     Questa mi par da chiamar villania;
     Ma questa volta non hai buon consiglio,
     Chè a te e lui caverò la pazzia.
     Rinaldo in drieto volgea presto il ciglio:
     Vide il lione, e funne malcontento,
     E cominciò questo ragionamento:

47 Aspetta, cavalier, tanto ch’io possi
     Questo lion rimenare alla terra;
     La mia intenzion non fu, quand’io mi mossi,
     Di venir qui col lione a far guerra.
     Rispose Orlando: Qual cagion si fossi
     Non so, ma in fine è l’errato chi erra;
     S’io ti volessi guastar il lione,
     Guarda 'l battaglio c’ha quel compagnone.

48 Disse Rinaldo: Noi farem ritorno,
     Tu al tuo re, ed io nella cittade,
     E domattina come scocca il giorno,29
     Ritornerò per la mia lealtade;
     E chiamerotti, com’io fe’, col corno,
     E proverremo chi arà più bontade;
     Questo di grazia, baron, ti domando:
     Tanto che fe contento il conte Orlando.

49 E torna con Morgante al padiglione,
     E per la via si doleva con quello,
     E dicea: Maladetto sia il lione!
     S’avessi Vegliantin, come ho Rondello,
     Partito non saria questo barone;
     O segnato l’arei del mio suggello,
     S’avessi la mia spada Durlindana:
     E duolsi assai ch’egli aveva Cortana.

50 Ulivieri e ’l signor di Montalbano
     Si ritornorno verso la cittate.
     Or ritorniamo al traditor di Gano,
     Ch’avea per molte parte spie mandate:
     Ed ecco un messaggiero a mano a mano
     A Carador con letter suggellate;
     E per ventura al marchese s’accosta,
     Dicendo: In cortesia, fammi risposta

51 Come si chiama la terra, e ’l paese,
     E ’l suo signor, se Dio ti dia conforto;
     Io ho paura indarno avere spese
     Le mie giornate, e di scambiare il porto.
     A lui rispose il famoso marchese:
     Alla domanda tua non vo’ far torto;
     Non so il paese come sia chiamato,
     Ma ’l suo signor ti sarà ricordato.

52 Sappi che ’l re si chiama Caradoro,
     E la figliuola sua Meridiana;
     Per lei tal guerra ci fanno costoro
     Che tu vedi alloggiati alla fiumana.
     Disse la spia: Macon ti dia ristoro,
     E guardi sempre d’ogni morte strana;
     E finalmente al palazzo n’andoe
     A Caradoro, e da parte il chiamoe.

53 Disse: Macon ti dia gioconda vita;
     Io son messaggio di Gan di Maganza,
     E quando feci da lui dipartita,
     Questo brieve mi diè,30 ch’è d’importanza;
     Vedi la 'mpronta sua qui stabilita,
     Perchè tu abbi del fatto certanza.
     Carador riconobbe quel suggello
     Del conte Gan, traditor crudo e fello.

54 La lettera apre e ’l suo tenore intese.
     La lettera dicea: Caro signore,
     Sappi, re Carador, quel ch’è palese,
     Che venuto è Rinaldo traditore
     Nella tua terra e nel tuo bel paese;
     Io te n’avviso, ch’io ti porto amore;
     E seco ha Ulivier, che è uom di razza,
     Col suo compagno Dodon della mazza.

55 E nel campo è di Manfredonio Orlando,
     E l’un dell’altro ben debbe sapere;
     E so che tutt’a due vanno cercando,
     O Carador, di farti dispiacere:
     Vengonvi insieme alla mazza guidando;
     Quanto fia tempo, vel faran vedere:
     Non piace al nostro re qua tradimento,
     Però ch’io ti scrivessi fu contento.

56 Ed ha con seco menato un gigante,
     Che se s’accosta un giorno alle tue mura,
     E’ le farebbe tremar tutte quante;
     Abbi del regno e di tua gente cura:
     E’ son Cristiani, e tu se’ Affricante;
     Guarda che danno non abbi e paura,
     Chè so ch’al fin n’arai da molte bande;
     Or tu se’ savio, e ’ntendi, e ’l mondo è grande.

57 Era quel re pien d’alta gentilezza,
     E ben conobbe ciò che Gan dicea;
     Fece pigliarlo con molta prestezza:
     In questo tempo Rinaldo giugnea,
     Ed ogni cosa con lui raccapezza,
     Ed in sua man la lettera ponea,
     E di Ulivier, ch’è nella sua presenzia,
     Per dimostrare ogni magnificenzia.

58 Quando Rinaldo intese quel ch’è scritto,
     Ringrazia il suo Gesù con sommo affetto;
     A Ulivier si volse tutto afflitto;
     Disse: Tu vedi quel che Gano ha detto.
     La damigella tenea l'occhio dritto,
     Quando sentì che 'l suo amante perfetto
     Era Ulivier, che tanta fama avia;
     Non domandar quanto gaudio sentia.

59 E poi mandò nel campo un messaggiere
     Al conte Orlando, e ’n questo modo scrisse:
     Poi ch’abbiam fatto triegua, cavaliere,
     Acciò che grand’inganno non seguisse,
     Contento sia di venirmi a vedere
     Alla città sicuramente, disse;
     Cosa udirai, che ne sarai poi lieto;
     Ma sopra tutto sia presto e segreto.

60 Il messaggiero Orlando ritrovava,
     Che si chiamava nel campo Brunoro;
     Segretamente la lettera dava:
     Orlando lesse, e sanza alcun dimoro
     A Manfredon la lettera mostrava.
     Manfredon disse: Forse Caradoro
     Potrebbe qualche inganno fabbricare,
     E quel baron tel vorrà rivelare.

61 Mentre che è triegua, va sicuramente;
     Chi sa chi sia quel guerrier del lione?
     Pel mondo attorno va di strana gente;
     Io ti conforto d’andarvi, barone.
     Morgante a ogni cosa era presente,
     E disse: Forse ch’egli ha del fellone;
     Egli ebbe voglia infin oggi di dirti
     Qualche trattato, e ’l suo segreto aprirti.

62 Io vo’ con teco alla terra venire,
     Che non ci fussi qualche inganno doppio,
     E in ogni modo con teco morire;
     E ’nfin del campo udirete lo scoppio,
     Se col battaglio s’avessi a colpire:
     Perchè, se bene ogni cosa raccoppio,31
     Di chieder triegua, e tornarsi oggi drento,
     Segno mi par di qualche tradimento.

63 Alla città n’andorno finalmente.
     Rinaldo immaginò la lor venuta:
     Fecesi incontro al suo cugin possente,
     E giunto appresso, in francioso il saluta.
     Orlando rispondea cortesemente
     Quel che gli parve risposta dovuta;
     E pur parlava come Saracino,
     Chè non conosce il suo caro cugino.

64 Dicea Rinaldo: A Caradoro andremo,
     Se non ti fussi, cavalier, disagio.
     Orlando disse: A tuo modo faremo,
     Chè di piacerti mi sarà sempre agio.
     Disse Morgante: Andate, noi verremo.
     E finalmente n’andorno al palagio.
     Rinaldo a Carador gli rappresenta,
     Perch’e’ voleva ch’ogni cosa senta.

65 Re Caradoro, quando Orlando vede,
     Tosto della sua sedia s’è levato:
     Orlando gli volea baciare il piede,
     Ma Carador l’ha per la man pigliato;
     Disse: Macone abbi di te merzede,
     Il tuo venir m’è troppo, baron, grato,
     Per veder quel che non ha pari al mondo,
     Come se’ tu, Brunor, baron giocondo.

66 Meridiana, quando fu in presenzia
     D’Orlando, sospirò la damigella;
     Orlando prese di questo temenzia,
     Verso la dama in tal modo favella:
     Are’ti32 io fatto oltraggio, o violenzia,
     Che tu sospiri sì? dimmel, donzella.
     E ricordossi ben di Lionetto,
     Tanto ch’egli ebbe al principio sospetto.

67 Disse la dama: Tu m’innamorasti
     Quel dì che insieme provammo la lancia,
     E con quel colpo l’elmo mi cavasti,
     Tanto ch’ancor n’arrossisco la guancia;
     E questa treccia tutta scompigliasti,
     Come se fussi un paladin di Francia;
     Poi mi dicesti: Tórnati alla terra,
     Chè con le dame non venni a far guerra.

68 Questo mi parve un atto sì gentile,
     Che bastere’ che fussi stato Orlando:
     Tu disprezzasti una femmina vile;
     Per questo venni così sospirando.
     Orlando è corbacchion di campanile,33
     E non si venne per questo mutando;
     E disse a Carador: Séguita avante
     Quel che vuoi dir dopo mie lode tante.

69 Carador disse: Tu lo intenderai
     Da questo cavalier che t’ha menato:
     E disse al prenze: Tu comincerai
     A dir, perchè per lui fussi mandato.
     Ma tu, Signor, che i sempiterni rai
     Governi e reggi, e’l bel cielo stellato,
     Grazia mi dona, che nel dir seguente
     Segua la storia ch’io lascio al presente.

  1. [p. 134 modifica]Non circumscritto ec. Dante dice di Dio:

    Quell’uno, e due, e tre, che sempre vive
    Non circonscritto, e tutto circonscrive.
                             Parad., Canto XIV.

  2. [p. 134 modifica]di farla alla franciosa. Usavano i Francesi di baciare, per modo di saluto, le dame. A tale usanza appella qui forse il Poeta.
  3. [p. 134 modifica]Eron. Per erano.
  4. [p. 134 modifica]dato lor che asciolvere. Asciolvere chiamasi il pasto della mattina, la colazione, quasi solvere jejunium, perchè con esso pasto rompesi il digiuno; onde gli Italiani lo chiamano anche lo sdigiuno. Qui è detto figuratamente.
  5. [p. 134 modifica]papasso. Dal greco Papas, in latino Pater. Gl’Italiani ne han fatto Papasso, come da Thomas Tomasso o Tommaso, da Primas Primasso e simili; e vale capo, padrone, principale.
  6. [p. 134 modifica]ignun di voi. Qualcun di voi.
  7. [p. 134 modifica]E una ricca cotta. Lunga sopravveste usata dalle antiche donne latine, e da loro chiamata Crocota. Il Pignora, nelle Origini di Padova, dice: «Avevano gli antichi una veste che chiamavano per le femmine Crocota;» e lo Scaligero su quel verso del poema intitolato Cecris, attribuito a Virgilio:

    Quae prius in tenui steterat succincta crocota;

    soggiunge: Crocotam etiam hodie decurtato nomine cottam vocamus in

    tota Gallia. Plauto, nella Aulularia, chiama crocotarii quei che facevano tali vesti, le quali furon così appellate dal greco κροκος, perchè s’usavan portare tinte di color del croco, che è una specie di colore tra il giallo e il rosso; e, come disse Virgilio, picta croco. Ora chiamasi cotta quella sopravvesta bianca che portano i Religiosi negli uffizii divini. Il Giambullari fa venir questa voce dalla aramea Cot, che significa veste.

  8. [p. 134 modifica]viso di latte e di grana. Diciamo comunemente bianco e rosso. La grana è una tinta che cavasi dai corpiciattoli di certi insetti, i quali, per essere nell’aspetto quasi simili alle coccole dell’ellera, furon dagli antichi creduti una specie di coccole anch’essi, e reputati esseri vegetabili anzichè animali. I Greci chiamarongli κόκκοι, e i Latini grana tinctoria o infectoria.
  9. [p. 134 modifica]un ricco smalto. Smalto è materia di più colori che si pone sopra i lavori d’oro per ornamento. Vedi la origine di questa voce nel Menagio, Origini della Lingua francese, alla voce émail.
  10. [p. 134 modifica]Ed un carbonchio. Lo stesso che rubino, ed è così detto per il suo splendore, quasi d’un carbone acceso. Perciò i Greci chiamarono questa gemma ανθραξ (carbone), e i Latini Pyropus.
  11. [p. 134 modifica]Rinaldo vide ec. Metafora tratta tutta dalla caccia che si fa agli uccelli colla pania.
  12. [p. 135 modifica]bavalischio. Lo stesso che basilisco, il quale è un animale anfibio, che gli antichi favoleggiarono por un mostro spaventoso, e che avvelenasse collo sguardo. È opinione del volgo che esso nasca dall’uovo partorito da un gallo.
  13. [p. 134 modifica]appiccheremo il maio. Il maio è un albero delle Alpi, quello stesso che i Latini [p. 135 modifica]chiamaron cytisus. Si è poi applicato tal nome a qualunque albero, onde Dante disse:

    La gran variazion de’ freschi mai,

    per indicare le molte specie di alberi che erano nel Paradiso terrestre. Dal nostro contado chiamasi maio quel ramo d’albero, che i contadini piantano la notte di calen di maggio innanzi all’uscio delle loro belle; onde appiccare il maio a ogni uscio, a ogni casa, vale appunto fare il vagheggino con tutte. Anche i Latini ebbero tale usanza, e la chiamaron majuma. Suida però racconta che in un determinato giorno del mese di maggio solevano i Romani andar su per il Tevere infino ad Ostia, e quivi far de’ giuochi, e sollazzarsi nelle marine onde nuotando, e che anche questo giuoco era detto Majuma.

  14. [p. 135 modifica]l’asin fai del pentolaio. Proverbio che vale fermarsi ad ogni uscio; come fa appunto il pentolaio, che quasi ad ogni casa si ferma a spacciare la sua mercanzia.
  15. [p. 135 modifica]Che per conformità nasce di stella. L’opinione che l’influsso celeste agisse nelle umane azioni fu nei passati tempi sì universale e radicata, che i più grandi uomini prestaronvi fede. Da tal credenza ebbe origine la celebre scienza dell’Astrologia giudiciaria. Al pianeta di Venere particolarmente si attribuì l’influsso della passione amorosa; onde Dante disse che le genti antiche nell’antico errore, cioè nella idolatria, credettero che la Dea Venere:

    ............ il folle amore
    Raggiasse volta nel terzo epiciclo.

    Il domma cristiano poi tolse il dominio dei pianeti alle divinità che vi avevan poste i Gentili, e nel luogo di quelle pose in ciascuno di essi alcuna angelica intelligenza, deputata a reggerne i moti, e regolarne gli influssi. A queste angeliche intelligenze rivolgeva Dante stesso suo discorso, in una delle sue più belle Canzoni, che comincia:

    Voi che intendendo il terzo ciel movete.

    In questo luogo però le parole di Ulivieri vogliono significare, che egli e Forisena si sarebbero sempre amati, perchè il Pianeta che influiva sulle azioni e sulla vita di Ulivieri stesso era di natura conforme a quello che esercitava la medesima influenza su Forisena; e ciò è secondo le teorie della scienza astrologica.
  16. [p. 135 modifica]conio. Dal lat. cuneus. Strumento di metallo o di legno che è tagliente da una testa, e verso l’altra va ingrossando, e pigliando forma piramidale, onde, percosso, ha forza di penetrare, e di fendere. Così il Vocabolario.
  17. [p. 135 modifica]di costa. Posto così avverbialmente, vale da banda, in disparte.
  18. [p. 135 modifica]Del diciannove. Sembra che valga lo stesso che tener l’invito del diciotto.
  19. [p. 135 modifica]del combatter gaggio. Gaggio è pegno o cauzione d’una promessa o patto. Qui pare voglia significare gara, o simili. Viene probabilmente dal latino vadium, secondo dice il Castelvetro, il quale soggiunge: «E significa propriamente quella promessa, che le parti tra loro fanno in giudicio, quando vogliono piatire in pena o di colui che domanda ingiustamente quel che sa non dovere avere, o di colui che niega di pagare quel di che sa esser debitore. E questo promettere si dice ingaggiare; come si vede nelle Novelle Antiche: le parti s’ingaggiaro; appresso si trasporta ad ogni guadagno, che meritando e quasi piatendo s’acquista. Laonde Dante chiamò gaggi de’ Beati i premii eterni dati loro da Dio per gli suoi meriti:

    Ma nel commensurar de’ nostri gaggi
    Col merto è parte di nostra letizia.»

    Significa anche le paghe e premii de’ soldati, come si rileva da G. Villani: «I Tedeschi non potendo avere le loro paghe e gaggi dal Bavaro ec.» Gaggio pure, per similitudine, si chiama colui che è fermamente obbligato [p. 136 modifica]ad alcuno; e l’ usò, infra gli altri,

    Dante da Maiano:

    E quella cui son gaggio,
    Non credo mai le risovvenga.

    E in quest’ultimo significato deriva, secondo il Castelvetro medesimo, da vades, che significa la persona promettente e obbligata.

  20. [p. 136 modifica]ch’egli assaggino il metallo. Egli invece ch’eglino. Assaggiare il metallo poi significa assaggiare, provare le armi.
  21. [p. 136 modifica]Che penson di venir costoro al ballo? Che si danno a credere di venire a intraprendere una leggiera bisogna nel venire a provarsi meco? Venire e andare al ballo, per andare ad una festa di ballo manca nei Vocabolarii; ma ve n’ha uno spiccato esempio nell'Ajone, Canto I, St. 28:

    Con Ine, ch’era ancor donna assai fresca,
    Venne al ballo invitata la figliuola.

  22. [p. 136 modifica]superba. Per superbia, in servigio della rima.
  23. [p. 136 modifica]una nespola acerba. Nespola è nome di frutta nota, derivato dal greeo μέσπιλον, che i latini dissero mespilum; d’onde gli Italiani, cambiata la m in n, fecero nespila, e poi nespola. Appiccare una nespola acerba significa percuotere con gran forza, gravi ictu.
  24. [p. 136 modifica]balenar Dodone. Balenare è quell’ondeggiare che fa chi per ebbrezza o per altra cagione non può reggersi in piedi.
  25. [p. 136 modifica]Rinaldo aveva ec. Badava a non ferire Orlando in parte dov’e’ potesse cagionargli ferita pericolosa.
  26. [p. 136 modifica]Frusberta e Cortana. Nomi delle spade dei due combattenti. Ricordisi che Orlando avea tolta Cortana a Ermellina.
  27. [p. 136 modifica]che con essa impennella. Impennellare significa dar di pennello, o delle pennellate. Qui vale figuratamente colpire.
  28. [p. 136 modifica]riscaldato. Preso da ira; e dicesi comunemente.
  29. [p. 136 modifica]come scocca il giorno. Dicesi anche comunemente, alla punta del giorno.
  30. [p. 136 modifica]Questo brieve mi diè. Breve è veramente un piccolo involto entro al quale pongonsi orazioni, reliquie, e simili cose, e che portasi al collo per devozione. Brevi chiamansi anche lo lettere e decreti papali. Qui sta per lettera semplicemente.
  31. [p. 136 modifica]se bene ogni cosa raccoppio. Accoppio, raccozzo.
  32. [p. 136 modifica]Are’ti io. T’avrei io?
  33. [p. 136 modifica]corbacchion di campanile. Corbacchione è accrescitivo di corbo, e vale corbo o corvo grande. Corbacchione di campanile poi dicesi a chi non si lascia aggirare o muovere da parole: ed è presa la figura appunto dai corvi, i quali usando ricoverarsi in luoghi eminenti, come torri o campanili, ancorchè suonino le campane non se ne spaventano e non fuggono. Nello stesso significato dicesi anche Formicon di sorbo.

Note

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