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IL FANTASMA.
I.
— Loreta, sì.... non è un nome comune — rispose, con la sua lieve e limpida voce, Carolina Leoni, mentre un tenue sorriso le vagava sulla bocca un po’ appassita. — Ma io, da ragazza, ho sempre fantasticato sulla casa della Madonna, presa a Nazareth, dagli angeli, portata a Loreto; e nel viaggio di nozze, io pregai il mio povero Cesare, che mi voleva tanto bene, di condurmi a Loreto.... Mi accontentò; non cercava che di accontentarmi, il mio Cesare, Dio l’abbia in gloria. Poi, quando fui incinta della mia piccola e avevo paura di morire, tanta paura, in quel lungo giorno di dolori, in cui ella nacque, fra le mie atroci sofferenze, io la invocai sempre, la Madonna di Loreto, ed Essa mi assistette e mi salvò; e io ho chiamato Loreta, la piccola, ecco!
E rise, Carolina Leoni, di un suo fuggevole riso puerile, guardando innanzi a sè, nel raccolto salotto, come se le apparisse il volto adorato della sua figlia assente,
— Io — soggiunse Carmela Soria, col suo parlare discreto, sommesso, così di accordo coi toni un po’ sbiaditi della sua faccia, coi suoi capelli fini di biondina che, incanutiti, pigliavano dei miti riflessi di argento, — io, quando dovette nascere il mio Guido, corsi rischio di morte; tutti, attorno a me, non potevano nascondere il loro sgomento e io me ne accorgevo. Ero così piccola, così gracile, come sono anche adesso! E il bimbo era grande e grosso, era cresciuto troppo, come è adesso, il mio Guido, così alto, così forte, così bello, non è vero?
Poi, subito, Carmela Soria arrossì del suo trasporto materno, chinò gli occhi, timida, confusa: cercando riprendere il suo leggiero lavoro di ricamo. Ma le altre due madri, Marta Ardore, la padrona di casa, che lavorava di maglia vivacemente, e Antonia Scalese che orlava con dita delicate un lino bianco, acconsentirono con un sorrisetto di compiacenza, sulla forza e la beltà di Guido Soria: annuì, con cenni cortesi della testa, due volte, Carolina, la madre di Loreta Leoni.
Poi, presa da un pensiero, come se parlasse a se stessa, piano, Carmela mormorò,
— .... bello e forte, Guido; ma impulsivo, violento; chi può trattenerlo?
— Ah come Loreta, come Loreta! — esclamò Carolina Leoni, crollando il capo, improvvisamente turbata.
— .... buono in fondo, Guido mio.... violento, ma buono — corresse Carmela Soria.
— Anche Loreta — confermò la madre Carolina. — Mi disubbidisce, mi fa paura, talvolta, ma è buona.
— Tutti i nostri figli, sono buoni, per noi.... — mormorò Antonia Scalese, la più giovine fra le quattro madri, bruna, ancora bella, dagli occhi dolci, talvolta un po’ smarriti. — Pel mondo sono altra cosa; il mondo non li conosce e li misconosce. Noi sole, le madri, conosciamo tutto l’animo loro. Io leggo in quello del mio Gianni, come in un libro aperto. E voi pure, io lo so, donna Marta, col vostro Fausto, col vostro Giorgio?
Le tre donne levaron gli occhi dal loro lavoro e li fissarono, affettuosamente, sul viso di Marta Ardore. Era la più anziana tra loro quattro, poichè i suoi anni si leggevano sul bellissimo volto, ove la vita aveva tracciato tutti i suoi solchi, nella corona completamente candida della sua ancor folta capigliatura, nello sguardo malinconico di cui, spesso, le palpebre si abbassavano, a moderare l’improvviso baleno; la sua alta ed eretta statura, la espressione calma e severa del suo antico volto, la fermezza della sua voce, le davano una imponenza, che tutti sentivano, innanzi a lei. Alla tenera domanda di Antonia Scalese, ella lasciò di far trillare i suoi lucidi ferri da maglia, levò i suoi occhi così espressivi, stette un istante pensosa, poi acconsentì, col capo, senza rispondere.
— Che strana cosa, donna Marta — osservò, ancora, Antonia Scalese — questa così grande differenza di età, fra il vostro Fausto e il vostro Giorgio....
— Strana.... non so — rispose, pacata, Marta Ardore. — Forse Dio volea concedermi il mio Giorgio, quando volle riprendersi il suo padre. Il mio piccolo aveva due anni, quando io perdetti mio marito....
— Fausto non ha ancora trent’anni? — chiese Carolina Leoni.
— Quasi trentuno — corresse, brevemente, Marta Ardore.
— Già così operoso,... così ammirato e amato, pel suo grande talento, pel suo leale carattere — mormorò Carmela Soria. — E Giorgio? Che anni ha? Diciotto?
— Diciassette, appena compiuti. Diciassette! — proruppe Marta Ardore, in una improvvisa agitazione.
— Un fanciullo — soggiunse, sorridendo, Carmela Soria.
— La mia creatura, il mio agnellino, il mio fiore — proruppe, novellamente, Marta Ardore: e la sua faccia si colorì e le sfavillarono i malinconici occhi.
— Un fiore, un fiore fresco e fragante — continuò, tenera, la madre di Loreta Leoni.
— Così leggiadro, così fine, un amore di figlio — proseguì la madre di Guido Soria.
— La gente ve lo benedice, Giorgio: Dio ve lo benedica — concluse la madre di Gianni Scalese, i cui occhi erano velati di lacrime.
E nel chiuso salotto dove già penetravano le ombre bigie di quel crepuscolo d’aprile, le parole amorose, appassionate delle tre madri, pareva esaltassero l’ebrezza spirituale di Marta Ardore. Restò la donna assorta, come se contemplasse un portentoso spettacolo; e poi, uscendo dal suo silenzio, con la sua voce un po’ velata di una emozione, Marta Ardore rispose:
— Dio conservi le vostre creature, amiche mie; Dio le faccia prosperare, in bellezza e in virtù; Dio le protegga, oggi e sempre....
Di subito commosse, le tre donne balbettarono delle parole tremanti di ringraziamento: ma alla invocazione della protezione del Signore, sui loro figliuoli, la più alta, perchè parlava dell’oggi e del domani, esse si arrestarono, con le labbra schiuse, guardandosi fra loro, quasi s’interrogassero, ansiosamente, per una oscura domanda; si volsero alla madre di Giorgio che sovrastava loro, per la sua età, per il suo grande amore, e la interrogarono, con lo sguardo, ma con una espressione disperata. Marta Ardore impallidì, mortalmente; le sue palpebre batterono, due volte; le sue labbra si serrarono sulle sue parole; ed ella fece un gesto, imperioso e trepido, insieme, con la mano, quasi a deprecare, a scacciare, da quella chiusa stanza, un fantasma che vi fosse improvvisamente apparso. E le altre tre madri, anch’esse, certo lo scorgevano quel fantasma, poichè volgevano, intorno, lo sguardo smarrito e lo riconducevano, quasi a chiedere soccorso e speranza, a Marta Ardore. Costei, scosse il capo, vivamente, due o tre volte, in atto di diniego e ripetè il gesto imperioso della mano, che esorcizza e scaccia i fantasmi.
— .... Così speriamo — invocò la madre di Loreta, chinando la testa sul petto.
— .... speriamo — sospirò, pianissimo, la madre di Guido.
— .... speriamo — gemette, pianissimo, la madre di Gianni.
Ma di lontano, di molto lontano, come se salisse da laggiù, da piazza Barberini, fino a quelle alture estreme di via Veneto, giunse un rombo, un rombo sordo e prolungato, un rombo minaccioso. Tremanti e mute, le tre donne si volsero, ancora, a Marta Ardore, la più vecchia, fra loro, ma la più salda, nella sua anima e nella sua persona.
— È il vento — ella rispose, fermamente. — Molto vento, questa sera: un tempo cattivo.
E poichè tutta la sera, oramai, con le sue ombre, era entrata dalle vetrate, in quel salotto, ella volse il commutatore della luce elettrica, e due o tre lampade, velate carezzosamente di un giallo d’avorio, chiarirono l’ambiente, tranquillo e silenzioso. Eppure, l’incanto di quel pomeriggio di quiete, trascorso soavemente, insieme, nella casa di Marta Ardore, raccolte intorno a Marta Ardore, come faceano spesso, lavorando ai loro gentili lavori femminili, la maglia, l’uncinetto, l’ago, con i fili della seta e del lino, discorrendo teneramente, quasi infantilmente, di quello che era il centro della loro vita, cioè i loro figliuoli, quell’incanto puro, era infranto. La pena che, ognuna di esse, aveva in fondo all’anima, quella pena ora acuta e tagliente, ora pesante e opprimente, quella pena che l’ora di pace aveva cullata e assopita, si era, d’un tratto, risvegliata! e le trafiggeva. Non era scomparso il fantasma, vaporante nell’aria, ma era presente nella stanza illuminata. Indovinando, conoscendo tutto questo, Marta Ardore sogguardò due volte, coi suoi occhi carichi di un fluido di volontà, le sue amiche, madri come lei.
— Bisogna non pensarci; forzarsi, per non pensarci — pronunziò, con gravità, Marta Ardore.
— Come fare, come fare? — domandò, desolatamente, Carmela Soria, la madre di Guido. — Questo terribile pensiero mi sveglia, la notte, in sussulto; mi levo sul letto, sono ghiaccia di paura....
— .... io fuggo la gente, perchè nessuno me ne parli; ma questa idea, è fissa nel mio cervello.... — disse, cupamente, la madre di Gianni Scalese.
— Loreta, Loreta ne parla sempre — gridò, convulsa, Carolina Leoni, — mia figlia e Cadetto Valli, il suo fidanzato, sono così presi, che mi sgomentano....
— Bisogna pregare, amiche mie; preghiamo molto; preghiamo sempre — rispose a tutte, Marta, con improvvisa dolcezza.
— Io mi consumo in orazioni — disse Carolina Leoni. — Il vecchio sacerdote, monsignor Morcaldi, me ne ha date alcune, così belle, così fervorose, per iscongiurarne il flagello....
— Io mi sono votata a Sant’Antonio da Padova; andrò a piedi, a Padova, al suo santuario, se egli scampa me e tutte le madri, da questa atroce minaccia — dichiarò, esaltatamente, Carmela Soria.
— Io mi sono votata a santa Rita da Cascia, per il mio Gianni. Io le ho detto: santa Rita, se dovessi perdere mio figlio, il mio unico bene, su questa terra, io lo seguo subito, nella morte. Santa Rita, santa Rita, non vorrete che muoiano, la madre e il figlio? — e parve che Antonia Scalese delirasse, a freddo, senza febbre.
Alle disperate parole ove palpitava, sanguinante, il cuore materno, parve che un soffio tragico invadesse la chiusa stanza, e più vasta si facesse la impalpabile figura del fantasma.
— Forse siamo tutte pazze — riprese, fievolmente, Carolina Leoni. — Forse è il terrore che ci fa impazzire. Siamo così vili.... Le notizie non sono cattive....
— .... vi è molta gente, sicurissima che nulla avverrà — proruppe, subito, Carmela Soria. — Sì, sì, vi sono ministri, senatori, persone attorno al Re, che dicono non esservi nulla di vero, in questa minaccia.
— .... Una veggente, una veggente religiosissima, quasi una santa, Rosaria Cardamone, così si chiama, ha dichiarato che Iddio ci salverà da questo flagello, — concluse, con forza, Antonia Scalese. E, così, in quei cuori, sempre oscillanti fra la speranza e la sfiducia, si creava ogni tanto una zona chiara di tranquillità, ove taceva il sordo sgomento che le agitava; la illusione, nata da fatti fallaci, da parole vaghe, diventava, quasi, una certezza di bene, poiché esse potentemente aspiravano a questa certezza. Tacevano, adesso, insieme, respirando in quella zona di quiete, riposando le loro forze morali: e ogni volto, pur toccato dal tempo e dalle pene, pur invecchiato anzi gli anni, si rasserenava. Stavano per congedarsi, per rientrare, ognuna, nella sua casa; e ognuna deponeva gli uncinetti, i ferri da maglia e i gomitoli, ognuna ravvolgeva in carte veline, e nelle borse da lavoro, i lievi lavori, tessuti dalle loro abili e agili mani. Quando, ad un tratto, Carmela Soria, come se parlasse a sé stessa, riprese:
— .... L’ha ereditato nel sangue, Guido mio, quest’odio mortale contro gli austriaci; e il nonno suo, quel suo santo ma terribile nonno, don Francesco Soria, dove egli va spesso, così spesso, seguita a raccontargli le sue antiche campagne, e gli dice che gli austriaci impiccavano i patriotti italiani, e bastonavano le donne.... sempre glielo ripete. Adesso, poi, più che mai...»
Di nuovo, coi visi contratti, con le labbra tremanti, le madri amiche ascoltavano.
— .... e Guido mio, come li odia, questi austriaci che non conosce, ne vuole uccidere uno, dieci, cento, questo mio figliuolo, così buono, così tenero! Egli mi fa rabbrividire, quando ne parla. Donna Marta, quanto sono infelice!
Gli occhi della piccola madre del grande figlio, ai arrossarono di lacrime represse.
— Donna Marta, donna Marta, Loreta mia vuole seguire Carletto Valli, il suo fidanzato, alla guerra, vuole nascondersi, poco lontana.... vuole lasciarmi.... e io non posso dire nulla! — esclamò Carolina Leoni, convulsa.
— Mio figlio Gianni non ha padre — disse, tetramente Antonia Scalese, rammentando il dramma di tutta la sua vita di donna. — - Non ha che me. Io non ho che lui. Egli non parla, non sospira; mai io leggo nei suoi occhi di figliuolo, un abisso di sconforto.
Formavano, le tre madri disperate, un gruppo attorno a Marta Ardore e sentendosi così misere, così perdute, pareva si volgessero a lei, come sempre, per soccorso morale. Ma sotto la sua folta e lucida chioma canuta, il viso della donna apparve loro sconvolto da un dolore, che non trovava parole per esprimersi. Esse compresero: esse sapevano di quale ferita segreta, gemeva sangue quell’anima di madre: esse, rispettando il suo pudore morale, mai nulla dicevano, di quello che era il suo incessante tormento. Timidamente, si accostarono di più a lei, quasi a stringerla in un cerchio magico di affetto; a un tratto ella fece, con le due mani, un cenno di desolata rassegnazione e rialzò il capo, avendo ricacciato in fondo al suo cuore valoroso, il suo tenace cruccio. Nulla più si dissero, le quattro donne, lentamente salutandosi, con poche parole, con voci velate e assorte, con mani molli, andandosene, con passi incerti, a capo basso, lasciando sola, immota, chiusa in sè stessa, Marta Ardore.
Curva sulla ringhiera del largo verone centrale, quello della sua stanza da letto, coi capelli scompigliati dal vento della sera, fischiante fra gli alberi, che la primavera aveva fatto rifiorire, in via Veneto, rombante come se la terra si muovesse, sotto l’onda del vento, Marta Ardore fissava i suoi occhi, laggiù, laggiù, donde veniva, a tratto, col vento, il clamore della folla, ma una folla informe, che si ammassava, che sempre si accresceva, che ondeggiava, crescendo, laggiù, fra il palazzo Margherita e l’albergo Regina. Ogni tanto, quel clamore confuso si accentrava in un largo canto, di cui arrivavano, in alto di via Veneto, al balcone di Marta Ardore, solo dei frammenti, l’inno di Goffredo Mameli, l’inno di Garibaldi, che il memore orecchio della donna rammentava, dalla sua gioventù: ella scuoteva il capo e si chinava, ancora, finito il canto, a raccogliere l'urio formidabile della folla, seguito, talvolta, da un profondo, intenso silenzio, come se la gente ascoltasse la parola di qualcuno che l’arringasse.... Ogni tanto, Marta Ardore, si levava, si gittava indiètro, come se non volesse vedere più, non volesse udire più, come se tentasse di fuggirsene, via, dentro, in casa, serrando i cristalli, serrando le imposte, chiudendosi, isolandosi ermeticamente. Ma ella rimaneva, lì, inchiodata a quel verone, fra l’impetuoso vento della torbida sera di aprile: le sue mani contratte, stringevano il ferro lavorato della ringhiera, mentre il suo sguardo si faceva più fisso, mentre tutti i suoi sensi, moltiplicati, si tendevano verso la folla. E ad un tratto, dopo uno scroscio di applausi, di grida, di urla, le parve che una parte della folla, distaccatasi da laggiù, risalisse rapidamente per via Veneto. Sì, risaliva la folla, sopravvanzata e sormontata da una grande bandiera tricolore, che il vento faceva battere, con mani che si levavano ad agitar bandieruole, e fazzoletti tricolori, e fazzoletti bianchi, con bocche schiuse a cantare, a esclamare, a gridare: sì, sì, Marta, come sempre più la gente saliva, saliva, riconobbe innanzi ad essa, il suo figlio maggiore, Fausto Ardore, alto, magro, robusto, così a lei somigliante nel corpo, somigliantissimo nel volto, il suo primogenito, con la sua fronte bianca, che, ella lo sapeva bene, sempre racchiudeva un pensiero generoso, con quei suoi occhi azzurri, come quelli fraterni, che sempre dicevano la sincerità del suo spirito, con quella bocca florida giovanile, le cui parole leali mai potevano ingannare. E nello scorgere, nel distinguere bene, sul volto di suo figlio, l’ebrezza incoercibile di un’idea, l’ebrezza suprema di un sentimento, Marta vacillò, quasi mancasse: e come in un istante di delirio, ella rivide nella culla, leggiadro infante, il suo primogenito e si rivide, curva, felice, ebbra, lei, Marta Ardore, della sua prima ebbrezza materna. La visione scomparve e il più cocente dolore travolse la madre, scorgendo che la folla si era aggruppata, in stretto e folto cerchio, attorno al suo Fausto: e il giovane la dominava, questa folla, con la sua statura imponente, con la sua voce sonora e pur emozionata, con la sua parola bruciante di una vampa, che tutto faceva scintillare e ardere. Non poteva distinguere le parole, dall’alto verone, la madre, ma la voce del suo figliuolo, del suo primogenito, ella la percepiva, ne era penetratà, ne era pervasa, ed ecco, si sentiva inchiodata su quel ferro del verone, come sulla croce, spasimando, volendo fuggire, ma restando immota, irrigidita. Un duplice urlo della folla le giunse, altissimo: Viva la guerra, viva Fausto Ardore! Queste parole clamanti, salienti sino al cielo, la schiodarono, la liberarono, la fecero sparire dal verone, a capo basso, a denti stretti, a labbra strette, in camera sua, facendo sbattere i cristalli, sbattere le imposte, sciogliendo con mani frementi le portiere dai loro lacci, per meglio difendersi, per meglio isolarsi, Si abbattè in una poltrona, presso il suo scrittoio, si abbattè su quello, col volto chiuso fra le mani, senza piangere, senza singhiozzare, piegata in due, quasi spezzata in due. La casa si riempì di un rumore di porte schiuse, di passi frettolosi, i battenti della camera si spalancarono, sotto una mano nervosa e Fausto Ardore, anelante, ansante, corse a Marta, le si buttò avanti, in ginocchio, l’abbracciò alla vita, la strinse, gridando:
— Madre! Madre! Madre!
Le inerti braccia materne non si distesero, come sempre, a cingere il collo del figliuolo; le bianche mani materne, non ne toccarono la folta chioma scarmigliata, a ravviarla, a carezzarla: il viso materno, marmoreo, si volse verso quello del figliuolo,’ ove la violenta emozione persisteva, negli’occhi allucinati, nel palpito delle nari, nelle chiazze rosse del bianco viso, nella bocca schiusa, quasi gli mancasse il respiro. Lo sguardo della madre s’incontrò con quello del figlio, e si scrutarono i due sguardi, e le due anime si compresero, e si misurarono, giustamente: e misurarono la immensa distanza cne li divideva, più che mai, in quella tempestosa sera di aprile.
Fausto si levò; passò le sue mani sui capelli, per ricomporli, parve fare uno sforzo per calmarsi; si sedette di fronte a Marta Ardore, che non schiudeva le sue labbra pallide, che non batteva ciglio.
— Mamma cara — egli la chiamò, con voce piana e soave.
Marta lo sogguardò: solo un impercettibile tremito nelle mani, che ella teneva incrociate.
— Mamma cara, non puoi tu udirmi? — egli pregò, con voce fatta puerile.
— Ti ho udito, poco fa, dal balcone — ella disse; e nulla soggiunse: e spense, con le palpebre, il lampo dei suoi occhi.
— Non posso, io, chiarirti?...
— Non è necessario, Fausto; meglio tacere — Marta replicò, gelidamente.
Un momento egli tenne, sotto la repressa ira, sotto il represso dolore materno, la testa china. Indi si scosse in un sussulto, gridò con voce impetuosa, con occhi scintillanti:
— Tu mi desti un’anima libera, mamma!
— È vero! — ella proruppe, con voce forte, con occhi scintillanti.
Mai, come in quell’istante Marta e Fausto si rassomigliavano.
— Mamma, anche la tua anima è libera! — gridò Fausto!
— No — ella ribattè, duramente.
— Libera, la tua, come la mia ••••
— No. No. La mia anima è vincolata dal mio sangue materno. Io non sono libera. Io sono schiava del mio amore per te, per Giorgio.
’— Benedetto il piccolo Giorgio, il nostro fanciullo, il nostro fiore! — esclamò dolcissimamente Fausto. — Benedetto — rispose teneramente, Marta Ardore.
Improvviso silenzio: improvvisa calma: lungo pensiero. 11 tempo scorre, gli occhi materni s’incontrano con quelli del figlio: e la inconsolabile malinconia dell’uno assorbe e riflette quella dell’altro. — Uniti: e divisi: e lontani: come mai, lontani.
— Mamma cara, tu mi vuoi bene? — egli rompe, ad un tratto, in silenzio.
— Io ti voglio bene. Fausto.
— Come il primo giorno, in cui ti nacqui?
— Molto più: molto più.
— Mamma, di’, di’, ho io mai peccato contro te?
— Mai, figlio mio, hai peccato contro me....
— Sono stato, dopo la morte di papà, amoroso per Giorgio?
— Più di un fratello: come un giovine padre, Fausto.
— Grazie, mamma, grazie — egli disse, pensoso, Dunque, io non ti ho mai dato nessun dolore?
— Mai, Fausto.
— Questo è, adunque, il primo?
— È il primo: ma è.fortissimo, insopportabile.
— Madre mia, egli disse, guardandola, limpidamente, negli occhi — io non posso risparmiartelo questo dolore: e tu devi sopportarlo. Per l’amore che mi porti, per quello che ti porto, madre, madre, soffri per me, perchè io non posso, non farti soffrire.... È così, madre cara, è così!
— Bene, Fausto — ella disse, fredda e fiera.
Un lieve colpetto fu battuto alla porta: e Giorgio Ardore entrò, col suo passo leggiero, che era in armonia con la sua figura di diciassettenne, snella e pur vigorosa, agile ed elegante, in ogni attitudine. Sul fresco volto sorridevano in dolcezza e in una malizia gentile, i chiari occhi azzurrini; la capigliatura, di un castano vivo, con qualche lucido riflesso cupreo, era ricciuta e coronava una pura fronte bianchissima: un’ombra di peluria sul labbro superiore, già accentuava la virilità e temperava l’aspetto femmineo di quel viso. Marta Ardore lo salutò, con una. compiacenza di sguardo e di sorriso, indicibili. Poi ad un tratto, impallidì, come se mancasse. Il suo volto disfatto, i suoi occhi spersi, parlarono a Fausto, senza che ella proferisse motto. Fausto carezzò, leggermente, la spalla di Giorgio, si accostò a sua madre, le indicò il florido e gentile secondogenito, e in un soffio, le disse:
— Diciassette anni, mamma, diciassette anni....
Allora, su questa luminosa certezza, Marta Ardore, e suo figlio Fausto si abbracciarono fortemente, per la prima volta, in quella cupa sera del tempestoso aprile. Su questa certezza, per un istante, l’abisso che separava le loro due anime, fu colmato.
La risata di Barbara Moles squillò, cristallina. Quando Barbara rideva, ella rovesciava, con un gentile movimento, la testa un po’ indietro; il suo collo pieno e bianco, di una bianchezza un po’ ambrata, come era ambrata la carnagione dei suo viso, si gonfiava, come quello di un uccellino: e la sua piccola bocca carnosetta, restava schiusa, quasi un rosso fiore, allora sbocciato. Se Barbara Moles era sempre molto piacente e, spesso, affascinante, quando rideva, dava un’impressione di freschezza e di gaiezza, a chiunque le fosse dappresso. Ma in quella risata che concludeva, troppo allegramente, una conversazione a parte con Ivo Ranaldi, vi era una beffa così evidente, ma Ivo Ranaldi aveva un’aria così sconcertata, che tutti gli astanti, un po’ confusi, guardarono Barbara, interrogativamente, incerti, se ridere o se distrarsi.
— Via, Ranaldi, mi avete presa per una modista? O per una dattilografa? — Barbara esclamò, finendo di ridere, ma ancora palpitante della sua allegria. — Perchè volermi far credere questa favola? Un poema, amiche mie, amici miei, da lui scritto, da me ispirato, a me dedicato, è cosa inaudita, incredibile, non è vero?
E rise, di nuovo, coi suoi dentini bianchi che apparivano dietro le labbra carnose e rosse, schiuse, mentre i suoi occhi di un color lionato, scintillavano.
— Ranaldi è un poeta molto giovane — rispose, con ipocrita compiacenza Franco Gaita, che per la sua persona alta e scarna, il suo viso magro e glabro, per la sua molto accurata eleganza, mostrava dieci anni di meno, dei suoi quarantacinque anni. — Alla sua età, non può fare che poemi d’amore....
— Donna Barberina, lei può esser la musa di un nuovissimo grande poeta — esclamò la vezzosa e lusingatrice, Delia Consiglio.
— Come Beatrice, come Laura.... — soggiunse, subito. Dalia Consiglio, la sorella di Delia, la sua gemella.
Le. due ventenni sorrisero, una dopo l’altra e, poi, insieme: pallide, biondette, quando sorridevano, si animavano, nella trasparenza delle loro carnagioni.
— Noiose, brutte, mie care, Laura e Beatrice, nonché i loro grandi amatori, Dante, Petrarca, così seccanti! — protestò, sempre in risa. Barbara Moles. — Non ci tengo! Neppure voi ci tenete, è vero, Ranaldi, a somigliare a uno di quei seccatori? Scusatemi, se ho rivelato il vostro segreto, a questi amici....
— Sciocco segreto, donna Barberina — mormorò il poeta beffato, fra corrucciato e triste.
— Via, via, facciamo la pace — ella disse, fissandolo, con quei suoi occhi carichi di un fluido provocatore, tendendogli una mano a baciare.
Era una mano bianca, morbida, tiepida, grassottella, come tutta la persona di Barbara: una mano intensamente profumata e le cui unghie rosee luccicavano. Ivo Ranaldi la tenne sotto le sue labbra, più del tempo necessario ad un bacio; quando levò la faccia, egli apparve pacificato, tranquillo.
Un solo astante, don Manuel Peralta, lo spagnuolo, il segretario dell'ambasciata di Spagna al Quirinale, non aveva pronunciato un motto, non aveva mosso ciglio; ma i visitatori consueti di Barberina Moles, erano avvezzi al silenzio e alla immobilità di questo spagnuolo, dal viso lungo e dalla tinta terrea, dalle nere sopracciglia, quasi delineate da un sottile pennello, dai nerissimi capelli lucidi, che formavano sulla fronte smorta e bruna, le tradizionali cinque punte. Erano, anche, quei visitatori, abituati a ritrovare là sempre don Manuel Peralta, nel salotto di Barberina Moles e sempre seduto sulla stessa poltrona, fumando incessantemente delle delicate sigarette odorose, parlando poco, tacendo quasi sempre, educatissimo, compitissimo, superbo, con la sua aria distratta, assente. Senza dirselo, fra loro, tutti gli riconoscevano il misterioso diritto di costante presenza e di padronanza muta, in quel salotto; e, concilianti, indulgenti, ognuno pensava e non diceva, quello che credeva, cioè che don Manuel Peralta, fosse l'amante in titolo di Barbara Moles.
— Andiamo, finiamola con questi amori poetici e platonici, con queste stupide romanticherie — esclamò vivamente Barbara, ritta in mezzo al salotto. — Io suono un tango, un tango estremamente suggestivo.... e qui si balla il tango, danza delle danze.... Ginetta, amica mia, smetti, smetti di fare il salice piangente, e balla con Gaita, tanghista eccezionale.... e lei, Deliuccia finissima mia, vaso di alabastro mio, riconduca sulla terra il poeta Ranaldi, ballando il tango con lui, mi raccomando, con grazia.... e lei, Dalia, ecco il suo flirt qui s'amène... buon giorno, avvocato Cortese, si prenda Dalia, la porti via, nel tango galeotto, che io vado a suonare.... le dica tutto, nel tango.... o non le dica niente, è meglio.... ma balli.... balli....
— O Biribì, sei un demonio.... — mormorò languidamente Ginetta Stresa, dai grandi occhi stanchi e tristi, segnati di oscuro. — Biribì, chi ti resiste?
Le tre coppie si formarono; il salotto Louis Seize, di una imitazione moderna sopportabile, nelle sue stoffe chiare, cosparse di fiorellini rosei e azzurrini, nelle cornici in oro smorto dei divani e delle poltrone, nella sua vetrina da ninnoli, nelle sue consolles, non era molto ampio, ma vi restava, espressamente, nel centro, un po’ di spazio, ove si poteva danzare, sul soffice tappeto, senza troppo cangiar di posto.
Presso il pianoforte, sul suo banchetto Louis Seize, nella sua veste molle, di un crespo grigio argento sottilissimo, collo e metà del petto scoperti, senza un sol ornamento, con la loro bellezza carnosa e appetitosa, con le rotonde braccia nude, oltre il gomito, Barbara Moles suonava il voluttuoso tango, con le lievi mani bianche e odorose, che appena sfioravano i tasti, mentre la sua testina, dal casco dei capelli castani, simili al castano lionato dei suoi occhi, segnava il ritmo di quella musica strana, ondeggiante fra il dolce languore e la suggestiva voluttà. Per un istante, lo sguardo di Barbara si fermò su don Manuel; e vide che costui la fissava, con una espressione nota, contenuta sotto le palpebre socchiuse. Schiudendo le rosse labbra, Barbara formò un cenno fugace, verso l'immoto spagnuolo, il cenno di un bacio; l’uomo agitò una mano, in un breve gesto, come se avesse ricevuto il bacio e ringraziasse.... Più fluttuante, fra la malinconia e l’ardore, il tango seguiva il suo ritmo, dalle mani della donna....
Franco Gaita e Ginetta Stresa ballavano, come se compissero un freddo dovere mondano: Franco Gaita correttissimo e indifferente, Ginetta a occhi bassi e a labbra chiuse, tristemente. Ivo Ranaldi ballava malissimo e la fine biondetta Delia, non riuscendo a correggerlo, s’infastidiva; Giulio e l’altra biondetta trasparente, i due flirteurs, danzavano, stretti Tuno all’altro, guardandosi di sottecchi, con qualche sorrisetto di acquiescenza segreta, dimentichi degli altri. La prima a smettere fu Ginetta Stresa, dai grandi occhi oscuri, bistrati di tristezza; ella venne a sedersi presso il pianoforte, a un angolo del banchetto, su cui era seduta la suonatrice del tango.
— Che hai, Ginetta? — le disse, piano, Barbara.
— Ho che Roberto mi lascia.... mi lascia.... — gemette, piano, Ginetta Stresa.
— Perchè non lo hai lasciato, tu, prima? — ribattè, piano. Barbara, scuotendo il capo — te lo avevo suggerito tante volte....
— Io lo amo, Biribì.... — gemette, in un soffio Ginetta Ginetta.
— Stupida, stupida, stupida! — proruppe, brusca, ma sempre piano Barbara. — Lo vedi, là, don Manuel? Quello comincia ad averne abbastanza, di me.... ma io sono arrivata prima.
— Oh Barbara, tu sei un’altra cosa — sospirò l’amica.
’ — Prima, primissima sono giunta... — disse l’altra, con un sorriso feroce di gioia, subito represso sulle labbra.
— Un altro? Un altro? Chi è? — disse Ginetta, fra sorpresa e sgomenta.
Non si dice.... non si dice.... — e la suonatrice sorrise, come a una visione.
Le due mani profumate suonarono le ultime note morenti del tango. Barbara si levò e andò incontro a un’alta e forte signora, dal viso rossastro, sotto il gran cappello piumato, vistosamente vestita, con due grossi solitarii, alle orecchie, e al collo una catena tessuta di perle, da cui pendeva l’occhialino d’oro, portante una sontuosa pelliccia, troppo pesante in quel cadente aprile.
— Oh donna Clara, che piacere di rivederla!.— esclamò con un perfetto tono di falsa cordialità mondana, Barbara Moles, tendendole le due mani.
— Mia piccola e bell’amica, lei sa che ho poco tempo disponibile.... — disse con aria importante e condiscendente, donna Clara Frontini — ma se trovo un momento, vengo a passarlo qui. Ho fatto una visitina al mio Cosimo, nello stabilimento... povero Cosimo mio, il suo duro sacrificio è appena cominciato...
— Grande lavoro, eh? — chiese, con un finto interesse mondano Barbara.
— Grande lavoro e grande responsabilità — dichiarò, con sempre maggiore sussiego, Clara Frontini.
— Dunque, ci siamo — chiese Franco Gaita, freddo e cortese, ma quasi non tenesse alla risposta.
— Ci siamo — affermò la moglie dell’industriale, levando la testa con fierezza.
— Da che desume, signora, questa certezza? — domandò Ivo Ranaldi, mentre cercava permesso a Barbara di accendere una sigaretta.
— Dalle ordinazioni, signor Ranaldi — ribattè, tagliente, Clara Frontini.
— Molte, signora? — domandò a sua volta, Giulio Cortese, con garbata ma superficiale curiosità.
— Centinaia di migliaia di cinghie, per gli zaini — concluse, superba, insolente, Clara Frontini.
Un minuto di silenzio e di pensiero. La conversazione subito ricominciò, quieta, leggiera, frivola.
— Lei, don Manuel, che ne pensa? — chiese Franco Gaita, come se si dirigesse a un’alta autorità politica.
— Oh nous, nous sommes neutres, en Espagne — rispose, evasivamente, in francese, il diplomatico, che parlava malvolentieri l’italiano.
— Io vado in Croce Rossa... ho bisogno di sacrificarmi... — mormorò, come fra sè, Ginetta Stresa.
— Durerà tre mesi — affermò, con presunzione, l’avvocato Giulio Cortese, con una significativa stretta di spalle, verso Ivo Ranaldi.
— Oh non di più! Io lo so bene... Lo so di certa scienza — confermò il poeta, che era anche Balista. E anche lui lasciò vedere un sorrisetto di presunzione.
— Donna Barbara, non sapete? — esclamò Delia Consiglio, accendendosi, nella candida carnagione — io e Dalia faremo una bellissima cosa; un nido di poppanti, donna Barbara, una pouponnière! Papà ci dà i denari, molti denari, tanto più che il suo calzaturificio, sarà requisito dallo Stato, egli è stato avvertito... una pouponnière, sarà divertentissima.
— Divertentissima — soggiunse la gemella Dalia, che, quasi sempre, ripeteva le ultime parole di sua sorella.
— Resteremo senza uomini, Ginetta, quelle de livrance! — esclamò Barbara, ridendo a gola piena, con un trillo da uccellino. — Ora ci canto su una canzone; ascoltatemi.
E corse di nuovo, al pianoforte, preludiò sovra una melodia bassa e lenta e, poi, con una vocetta da contralto, a toni, in sordina, singolarmente gutturale, vocetta attraente, perchè colorita di una espressione calda, cantò una prima strofa, in francese, invocando tre o quattro volte il nome spagnuolo della protagonista: Pepita... Pepita... Pepita, e continuando:
Oui, tu crains ce voyage maudit,
Car les cartes t’ont dit
Qu’une fois loin, là bas,
Ton José, ton soldat,
Ton amant t’oubliera,
- Pepita....
Fra l’attento silenzio degli astanti, che erano presi da quella penetrante piccola voce dolce e grave, da quella musica ove alitava il soffio della passione. Barbara solamente udì una corta frase di don Manuel Peralta, volta a lei, pianamente:
— ... canta español — aveva mormorato, nettamente, don Manuel.
E allora, alla seconda strofa, Barberina Moles, evocò, con voce anche più suggestiva, Pepita, Pepita, e seguitò, in ispagnuolo, nella lingua soave ed ardente, in cui era stata composta la romanza, che veniva di Spagna, che parlava di rose, di amore, di lacrime e del Guadalquivir; seguitò, pronunciando lo spagnuolo con una grazia e un languore seducenti, sogguardando don Manuel. Quando ad un tratto, una mano d’uomo le si posò duramente sulla spalla, un viso d’uomo giovine, biondo, di un biondo vivo, si curvò su lei e una voce aspra ma sommessa, le disse:
— La vuoi finire, perdio, Barbara, di cantare in ispagnuolo?
Ella si voltò, vivamente, non suonò più, finì di cantare, arrossì, come di piacere, impallidì come di gioia, si alzò, tese le due mani all’uomo biondo:
— Oh Mario, eccoti qua.... sempre in collera, con la tua cognatina.
1 due erano uno di fronte all’altro, nel mezzo della sala, fissandosi, lui, Mario Falcone, alto, di snella statura, curvando verso sua cognata Barbara Moles, il suo viso dalla linee fini e nette, dagli occhi del color dell’acciaio, dalla bocca rossa, sinuosa, sotto i molli mustacchi biondi; ella ritta, col capo levato, sorridendo con gli occhi, con la bocca, al bellissimo parente, obbliosi, ambedue, di chi li circondava. E gli altri, poi, si erano formati a coppia, a discorrere, mentre solo don Manuel nel suo angolo un po’ remoto, sceglieva, ad occhi bassi, con lentezza, una sigaretta, dal suo portasigarette d’oro, prendeva un fiammifero dal portacerini d’oro, accendeva la sigaretta, fumava, a occhi bassi.
— Non cantare più in ispagnuolo... — disse, pianissimo, ma con voce fremente di collera, Mario Falcone; — caccia questo spagnuolo di casa tua.
— Mario, Mario... lasciami fare... — rispose, pianissimo, Barbara Moles, scuotendo il capo.
— Debbo ucciderlo, il tuo spagnuolo? Io lo uccido, uno di questi giorni... — e l’uomo non conteneva più la sua voce, nella minaccia della gelosia. Ella lo sogguardò senza rispondere; poi stese la sua mano bianca e odorosa, verso lui, gli toccò lievemente la giacca oscura e disse:
— Mario, hai portato i truffes di cioccolate?
Dove sono? Dammeli.
E con un gesto famigliare, portò, quasi, la sua testa sul petto del cognato Mario Falcone, frugò nella tasca della giacca, e tirò fuori un sacchetto di dolci.
— Ragazze, ragazze, Delia, Dalia, Ginetta, qui abbiamo i truffes del galante, dell’elegante mio signor cognato! — trillò lietamente Barbara, cominciando a offrire, intorno, i cioccolatini.
Adesso Mario Falcone si era rasserenato e seguiva con occhio assorto, il giro che faceva Barberina, offrendo i cioccolattini, a donne e a uomini. Passando dinanzi allo spagnuolo, Barbara non si fermò e disse: A lei non piacciono, lo so i truffes! Poi, giunta di nuovo presso il biondo e bel cognato, prese una di quelle grosse pallottole di cioccolatte, ne sgranò la metà con le labbra, e guardando negli occhi Mario, gli diede l’altra metà:
— Tieni; tu non ne hai avuto...
Allora egli ne cercò un altro, di cioccolattino, frugando nel sacchetto quasi vuoto, che Barbara teneva in mano, ne ruppe la metà coi denti e ne dette l’altra metà a Barbara, facendo questo giuoco puerile e voluttuoso, molto vicini l’uno all’altro. Barbara, si arretrò di due o tre passi, si compose un viso indifferente, mormorando, in un soffio:
— Magda, Magda, Magda...
Anche Mario Falcone si arretrò, si volse, prese la sua aria consueta, che era quella un po’ disdegnosa di un uomo che si annoia, sempre, dove si trova. Magda Falcone, sua moglie, la sorella di Camillo Moles, una signora, non bella, e neppur tanto giovane, dal corpo un po’ sformato, di busto troppo grosso e troppo lungo, vestita senza gusto, alla meglio, era entrata nel salotto di Barberina, con un’aria inquieta, che invano tentava di dissimulare. Disse al marito, timidamente:
— Ti ho cercato al Circolo, per venir qua insieme e non vi eri...
— Ti ho preceduta — le rispose seccamente il marito; e girandosi subito sui tacchi, si mise a discorrere con Franco Gaita, allontanandosi con l’altro.
— Magda cara... Magda — disse Barbara Moles, con la sua voce meglio insinuante, tenendole una mano fra le mani; e accarezzandogliela lievemente.
La cognata la sogguardava, perplessa.
— E Camillo? Non vi è mio fratello?
— Non vi è. il fratellino, non vi è! esclamò, lestamente, Barbara Moles. — Sta in istudio sino a tardi, lo sai, Magda mia... ma verrà, poi» verrà il Camilluccio nostro, il maritissimomio... — E rise, rise del suo riso fresco e malizioso.
Ma l’entrata di Mario Falcone e, poi, di Magda, sua moglie, avevano appesantito l’umore dell’ambiente. Donna Clara Frontini si congedava, camminando col suo passo solenne, agitando in ritmo il suo capo dal cappello impennacchiato, guardando gli astanti, ad uno, ad uno, per salutarli, col suo occhialino d’oro, sospeso ad una catena tessuta di perle. Delia Consiglio aveva finito per attirare a sè Ivo Ranaldi, da quando ella aveva dichiarato i molti denari del suo papà. Dalia Consiglio filava più che mai con Giulio Cortese, in un angolo, prendendosi ogni tanto per la mano» fissandosi a lungo, in silenzio, quasi accostandosi col viso, per baciarsi, mentre Ginetta, stanca, smorta, con i suoi occhi segnati di scuro, scambiava qualche parola banale con Magda Falcone, che ascoltava con occhi bassi, con le sue grosse labbra pallide immusonite, sempre incerta.
— Giovanotti, ragazze, che è questo mortorio? Delia, Dalia, flirtiamo allegramente, in nome di Dio! — strillò Barberina, in mezzo al salotto. — Facciamo qualche cosa di gaio, magari di canaille! Non ti scandalizzare, cognato Mano! E tu, Magda, santa donna, guarda dall’altra parte! Io suono e canto la Java, sapete bene, la chanson d’apaches, che è una mazurka... Sapete ballare la mazurka?
— Non sappiamo — protestò Delia Consiglio, che era già in piedi, col suo cavaliere.
— Non sappiamo — soggiunse Dalia Consiglio, che si era già levata, col suo Giulio Cortese.
— Gaita, Gaita, voi avrete ballato la mazurka, in gioventù? — gli gridò Barberina Moles.
— In infanzia, donna Barbara, in infanzia...
— E rammentatevela, con quel funerale di terza classe, che è Ginetta. Risorgi, mio caro cadavere di donna!
Poi, avviandosi verso il pianoforte, passò accanto a Mario Falcone e gli disse, a bassa voce:
— Vieni a voltarmi le pagine... Egli, obbediente, la seguì; le si collocò dirimpetto, accanto il pianoforte: in due angoli lontani, lasciati a sè stessi, erano il tacito segretario dell’ambasciata di Spagna presso il Quirinale, don Manuel Peralta, e Magda Falcone, sempre più imbronciata e muta. Le prime note della mazurka d’apaches, della Java, risuonarono: e la voce di Barbara Moles, fattasi volgare, accennò, nel gergo francese bizzarro, che ella pronunciava alla perfezione, quelle parole canagliesche della nenesse, della Gonzesse al suo Julot, sovra una melodia trivialissima, sul ritmo di una vecchia danza scomparsa. C’est la Java, la vieille mazurka, du vieux Sebasto... Esitarono, si confusero, sulle prime i ballerini: ma Barbara Moles segnava e martellava sempre più il tempo della Java, ma la sua voce, fattasi sempre più aderente al tono cinico delle parole e della musica, eccitava i danzatori, mentre ella cantando, teneva gli occhi fissi in quelli di Mario Falcone — la moglie di costui, Magda Falcone, era in un angolo solitario, dimenticata — e Mario Falcone la fissava, Barberina mordendosi le labbra, alle parole più sensuali, che ella pronunciava, socchiudendo gli occhi, tendendo le labbra, a lui... Quand tu me prends, dans mon coeur — Je sens comme un vertigo... Ora le coppie avevano inteso e preso il ritmo e giravano lentamente, viso a viso, sulla vecchia mazurka, più vinti dalla musica canagliesca, che nel compassato tango, più stretti nei giri bizzarri di quella danza di altri tempi. La suonatrice, la cantatrice pareva invasa dalla sua musica: Mario Falcone dimenticava di voltare le pagine del fascicoletto, ma non era necessario ed egli era inchiodato a quel posto: e le ultime parole Barbara le diresse a lui, senza scorno, follemente, per sconvolgerlo: Jaime ta casquette, tes deux rouflaquettes — Ton bout de mégot...
— Da capo..., — pregò la prima coppia, senza disciogliersi.
— Da capo..., — pregò la seconda coppia, con voce fievole.
— Ricominciamo... per imparare — pregò la terza coppia.
— La Java, la Java la vieille mazurka, du vieux Sebasto! — strillò Barbara Moles, come ebbra e ricominciò a suonare, a cantare. Più stretti, più congiunti, oramai esperti, i danzatori ondeggiavano nei giri, in cui singolarmente non si urtavano, assorti e conquistati.
— Che suona, che canta, Barbara? Una turpitudine?— mormorò Camillo Moles a sua sorella, con una voce ove si mescolava l’ira all’ambascia.
Egli era scivolato, più che entrato, nella sua casa, nel suo salotto; nessuno si era accorto di lui, salvo il compitissimo don Manuel Peralta, che gli aveva rivolto un sorriso di saluto, da lontano, con un cenno del capo: e salvo sua sorella Magda, che gli aveva toccato affettuosamente una mano, per salutarlo, mentre egli le si sedeva accanto. Vicini, la loro rassomiglianza diventava impressionante. Camillo Moles era sformato di corpo; di media statura, aveva un torace grosso e lungo, aveva due esili e corte gambe. Ma questa deformazione era in lui più evidente, rivelata dai panni maschili; egli aveva il medesimo viso di sua sorella, scolorito, scialbo, dai tratti indistinti, gli stessi capelli di una opaca tinta castana, diventati già radi sulla fronte, a trentasei anni, la identica larga bocca dalle labbra pallide e gonfie, tutte maculate, e protese in quella linea costante d’imbronciamento. Solo gli occhi di Camillo Moles si differenziavano da quelli di sua sorella Magda; essa li aveva chiari, grossi e sporgenti, con una espressione puerile di perplessità, d’incertezza: gli occhi del fratello erano oscuri, bene incassati, e possedevano una tenue luce, sempre viva, una luce ora di palpitante pensiero, ora di fluente dolcezza. E nelle grandi ore del lavoro di avvocato, nelle ore della sua impetuosa eloquenza, innanzi ai giudici, innanzi ai giurati, quegli occhi avevano un fluido spirituale incomparabile; per cui spariva la bruttezza, spariva la goffagine e l’uomo e il difensore si facevano affascinanti.
— Perchè canta queste sudicerie, Barbara? E questa gente sfacciata, Magda, perchè balla così indecentemente? — egli soggiunse, a sua sorella, con un tremito di collera, sempre maggiore.
— Non so... non so... — rispose, vagamente, tristemente, la sorella.
— Magda, in questi momenti, Magda, che cosa abbietta, in questi momenti! — egli insistette, ancora, non frenando la sua angoscia.
— Che vuoi dire, Camillo? Che significa? — ella domandò, ansiosa, trepidante.
— Significa che ci siamo, Magda mia! Ci siamo!
— e un dolore che egli non poteva reprimere, sopravvinse la sua collera.
— Camillo, è vero, è vero? — proruppe Magda, arrossendo nello smorto viso, mordendosi le grosse labbra, per non singhiozzare. — Mi porteranno via Mario? Me lo portano via?
— Sì, Magda — egli rispose, desolatamente. — Te lo portano via, e ti portano via anche il tuo povero fratello....
E un così intenso spasimo fremette nella voce e nelle parole di Camillo Moles, che Magda gli mise la mano sul braccio, quasi a frenarlo, a calmarlo, mentre ella soffocava per l’emozione.
— Mario e Camillo... le due sole creature che amo!... Dio, Dio, Dio... — ella balbettava, come fra sè.
— .... ton bout de mégot... — concluse, cantando. Barbara Moles, tendendo le labbra schiuse verso Mario Falcone, come se volesse baciarlo.
Le coppie dei ballerini si erano fermate, ancora ansanti ancora palpitanti da quel contatto prolungato: ora, andavano lentamente, stanche, come esauste, verso le poltroncine, verso i canapè, per riposarsi. Diradandosi tutti, scorsero in quell’angolo lontano, soli, soli, Magda e Camillo Moles, che stavano lì, pensosi, e tristi. Magda con le mani che battevano nervosamente sui bracciuoli della poltrona e Camillo con la testa china sul petto, con le mani prosciolte, pendenti fra le gambe aperte.
— Oh ecco il mio Camilluccio, eccolo finalmente! — battè le mani la moglie, correndo a lui, che si era scosso, si era levato, sempre tacito.
Ella gli si buttò addosso, per abbracciarlo, ma egli aveva fatto un passo indietro, quasi a schivarla: poiché la testa della moglie restò un istante, sul suo petto, egli ne sfiorò fugacemente i capelli, con un bacio distratto:
— Che hai Camillo? Sei malato?
— No, Barbara.
— Sei stanco?
— No, Barbara.
— Ma tu hai qualche cosa, mio povero buon Camillo, che non sai fingere. — Ella insistette insinuante, carezzevole, cercando di prendergli le mani.
Le sue amiche, raccolte dietro a lei, con quella frivola cordialità mondana, il cui ritornello è sempre il medesimo, domandavano a Camillo Moles, se si sentisse male, se fosse troppo stanco, qualche gran processo, forse, è vero? Egli lavorava eccessivamente, non bisognava faticar tanto, che diamine! Egli si schermiva, negando, col capo, infastidito, mostrando tutto il suo fastidio.
— Ma che hai, Camillo mio, dillo, dimmelo! — Barbara pregò, giungendo le belle mani odorose.
— Sono triste — egli si decise a rispondere. E come se questa confessione gli avesse lacerata l’anima, la sua fisonomia si sconvolse.
— Perchè, sei triste? — insistette, stupita, la moglie. — Che ti accade? Che ragione hai, tu, di esser triste? Nessuna ragione!
E in un frivolissimo coro di proteste, le donne, gli uomini, attorno a lui, ripetettero:
— Perchè esser triste? Che ragione vi è, di esser triste?
Allora a un tratto, l’uomo sempre silenzioso e distante da quella società mondana, l’uomo che non levava mai la voce, fra quei mondani, proruppe, concitato:
— Ma voi altri, miei signori, non udite, non vedete, non sapete, che ci siamo? Questa estrema sciagura, che piomba su noi, che ci travolgerà, domani, non vi fa nulla? Nulla vi fa?
E gli tremava la voce come gli tremavano le mani, a lui, Camillo Moles, l’uomo serio, saldo e sereno. Al grido che era sgorgato da quell’anima trafitta, gli altri compresero. Qualcuno di essi aderì, con un cenno del capo un po’ triste, un po’ rassegnato, cenno fatto quasi per esteriore cortesia, verso il padron di casa; qualcuno ebbe l’aria di pensarci, su un istante e, dopo, sorrise, come a un suo segreto divisamento; qualcuno ebbe una lieve stretta di spalle, pur prendendo un’aria compunta, sempre per compiacenza verso Camillo Moles. E nella insensibilità di tutti, il ritornello ricominciò:
— Vous étes pacifiste, monsieur Moles: mais mon pays est neutre — disse don Manuel Peralta, gelido e compito.
— Poiché era necessaria, questa guerra, inutile protestare — dichiarò, con voce incolore, Franco Gaita, che aveva quarantacinque anni e non dovea servire, togliendosi il monocolo, pulendolo con un fine fazzoletto di battista, e ricollocandolo nell’orbita.
— Non durerà che tre mesi — affermò con disinvoltura, il bene informato avvocato Giulio Cortese.
— Certissimamente: non un giorno di più — confermò, borioso, Ivo Ranaldi.
— lo vado in Croce Rossa: il costume bianco è così carino; i feriti sono così interessanti! — disse, languidamente, Ginetta Stresa.
— Dalia e io, avvocato Moles, siamo pronte, lo sa? Facciamo un nido di poppanti; pesiamo i neonati nella bilancia; diamo il biberon....
— Che cosa graziosa, è vero? — proclamò la gemella Dalia.
— Facciamo una pouponnière, avvocato Moles, con Dalia — ripetette, come un fonografo, la gemella Delia.
E poiché tutti avevano liquidato quel qualsiasi argomento, ed era tardi, cominciarono a salutarsi, prendendo congedo, dandosi dei convegni mondani, al thè dell’Exeelsior, è vero, domani, dopo le corse, o al Cinema Corso, ove si proietta Teodora, bellissima film, alle cinque, alle sei: e cinguettavano, dando distrattamente la mano al padron di casa, che, muto, accigliato, tendeva una mano molle e lasciava subito ricadere l’altra... Le donne abbracciavano ridendo, donna Barberina, Biribì, come la chiamava Ginetta Stresa: gli uomini sogguardavano la padrona di casa, le baciavano la mano, a lungo. Accanto a Camillo Moles, stava sua sorella Magda, immobile: e i suoi occhi grossi,— si arrossivano di lacrime represse, dietro la veletta, la sua larga bocca pallida si torceva, per soffocare la sua voce e i suoi singhiozzi: Mario Falcone, in un angolo, solo, annoiato, disdegnoso, fumava una sua sigaretta. Barbara adesso, era tornata indietro, dall’aver accompagnato la sua piccola società; con le dita lievi, si lisciava i capelli un po’ scomposti; passando, rettificò la posizione di alcune sedie, scostò un tavolinetto: venne verso suo marito. Costui, distratto, cupo, non la scorse: ella si chinò verso lui, tenera e provocante, insieme, lo chiamò, con voce carezzosa:
— Camillo, Camillo, ebbene?
— Barberina! — scoppiò lui, di nuovo concitato,
— Ma perchè hai sempre intorno questa gente stupida, corrotta e cinica? Perchè mi porti in casa, questa gente senza cuore e senza coscienza?
— Camillo, Camillo, perchè sei così, oggi? Che ti ho fatto? — ella disse quasi piangente, come un bimbo preso in fallo.
— Perchè sono così? Tu lo chiedi, ancora, Barberina? — egli riprese, torvo e agitato. — Non capisci? Non sai? Non te ne importa niente, è vero, di quello che accadrà domani?
— M’importa.... m’importa — ella balbettò, un po’ smarrita, innanzi alla convulsione d’ira e di dolore di suo marito.
— Domani la guerra ti porterà via tuo marito — egli concluse. — E, forse, diverrai una vezzosa vedova...
— No, no, no — ella gridò, buttandoglisi addosso, stringendosi a lui, baciandolo sul viso, sugli occhi, tenendolo sotto una pioggia di baci.
— Oh Dio! Oh Dio! — gemette, a parte, Magda Falcone.
— Zitto, Magda — disse duramente Mario Falcone, dal viso contratto.
Barbara si teneva strettissima al marito, e al contatto di quella creatura fresca e giovane, morbida e seducente, pareva che lo sdegno e il dolore di Camillo si placassero. Non lo lasciava, la moglie aderente a lui, conoscendo il potere invitto che ella esercitava sui sensi di suo marito, poiché lo vinceva sempre, con la carezza, col bacio, con l’abbraccio. Ma laggiù, il pallore di Mario Falcone si faceva livido: egli serrava le labbra sulle sue furenti parole, mentre le sue dita convulse avevano frantumato due sigarette. Barbara, lentamente, si sciolse dal marito, sogguardò verso il cognato, lo chiamò, con una voce suadente.
— Mario, Mario!...
Egli si scosse; con qualche passo si accostò al cognato, gli rivolse la parola, molto freddo. — Hai avuto la certezza, per la guerra, Camillo?
— Ho avuto la certezza — rispose, con voce sorda, Camillo Moles.
— Oh Dio, oh Dio! — si lamentò, ancora Magda.
— Zitto, Magda — impose, aspramente, il marito. — Si dovrà ubbidire, Camillo; si dovrà andare. Andremo.
— Ciò non ti esaspera, Mario? Non ti fa delirare?— proruppe, di nuovo agitatissimo, Camillo Moles.
— Non ti comprendo, Camillo. A me, tutto questo è indifferente — l’altro rispose, gelido.
— Possibile, Mario? Non provi l’orrore del sangue altrui, da spargere? La vita dell’uomo è sacra. Ci è inibito di uccidere, dalla religione, dalla morale. Non senti l’orrore di uccidere? — e balbettava, quasi nella foga del proprio sentimento umano, Moles, l’eloquentissimo avvocato, la cui parola, pur appassionata, era sempre chiara e limpida.
— Non ho orrore, nè della mia morte, nè di quella altrui — rispose, reciso, Mario Falcone.
Le due donne tacite, atterrite, sogguardando, volta a volta i due loro uomini, in quel singolare dialogo, non battevan palpebra: Magda Falcone, umile ancella, serva della volontà diritta di suo marito, comprimeva le parole e le lacrime; Barberina, inconscia, insensibile, mostrava solo il suo aspetto di donnina stupita e spersa.
— Tu hai coraggio, Camillo, lo so, ne hai sempre avuto — disse, pensoso il cognato. — Che temi? Che temi?
— Ho coraggio, Mario — rispose Camillo Moles, levando gli occhi, ove brillavano insieme, la luce del pensiero e quella della bontà. — Non temo di morire. Temo di uccidere.
— Eppure, domani, bisogna uccidere o farsi uccidere — disse l’altro, levando le spalle, come a una necessità ineluttabile.
— Questo bisogna, domani, lo so. Ma io non posso uccidere — proclamò a voce alta e ferma Camillo Moles. Preferisco morire. La governante Genoveffa diede un colpo al cuscino del seggiolone, a cui don Francesco Soria appoggiava l’antica schiena, che era appena curva, malgrado la sua molto grave età, gli aggiustò sulle gambe scarne il caldo scialle di lana, che le cingeva e gli disse:
— Desiderate che io chiegga i giornali della sera?
— Non saranno venuti: arrivano sempre così tardi. Aspettiamo.... — borbottò l’ottantenne, scuotendo la testa, dai folti e lucenti capelli bianchi.
La robusta governante, Genoveffa, andò a sedersi, poco lontano, presso un largo tavolo bruno su cui erano sparse carte, giornali, libri, e su cui la grande lampada, velata da un ampio paralume giallo, metteva un rotondo alone di luce, lasciando il resto di quella stanza in una penombra. Ella, tranquilla, si mise a sferruzzare un suo lavoro di maglia. A un antico orologio di marmo nero, con ornamenti di bronzo dorato, sul caminetto, suonarono le nove. Don Francesco Soria si sbottonò la grossa giacca di lana a maglia, tirò fuori dal suo panciotto un orologio d’oro, attaccato a una massiccia catena d’oro, ne fece scattare il coperchio e verificò l’ora. Le sue mani erano scure, scarnite e mostravano delle grosse vene violacee; ma non tremavano ed erano lente ma precise, in tutti i loro movimenti. Anche il suo volto bruno ed adusto, era tagliato da solchi profondi, non rughe, ma solchi, che la vita vi aveva scolpito, indelebilmente: pure questo volto, raso bene, con uno sguardo vivo che ne partiva, di sotto le bianche sopracciglia e ove era raccolta ed espressa una forza di volontà, questo volto di ottantenne, non aveva l’età di don Francesco Soria: e formava, sempre, la meraviglia e la gioia del suo figliuolo lontano, don Giacomo Soria, quando egli rientrava dai suoi viaggi d’affari, in Roma, della sua mite e dolce nuora Carmela Soria e del suo vivace nipote Guido, il suo prediletto Guido, conforto ed esaltazione della sua vecchiaia.
— Genoveffa, sai se viene stasera, Guido? — domandò l’avo con la sua voce lenta, ma ferma.
— Non so, Eccellenza.
— Dovrebbe venire, dovrebbe — s’impazientò, subito, il vecchio.
— Volete che vada a domandare, al telefono, a donna Carmela?
— Va, va! — egli comandò. — Forse, forse, Carmela non saprà nulla... donne... donne... — egli finì di dire, come fra sè, mentre la governante era escita dalla stanza senza far rumore.
Breve assenza, Genoveffa tornò:
— La signora Carmela dice che il signorino Guido ha pranzato in fretta ed è scappato via, subito, per una riunione: una importante riunione....
— Riunione?... Bene, bene — disse il vecchio — Guido, tarderà ma verrà. Io lo aspetto, Genoveffa.
E s’immerse di nuovo, in quel silenzio dei vecchi, ove pare che essi riposino di tutte le stanchezze segrete, accumulate durante la loro vita: Genoveffa sferruzzava, paziente, essa che da tanti anni non aveva mai lasciato questo suo padrone. Trent’anni prima vi era entrata come servetta, e, a poco a poco, era salita di grado, per la sua devozione instancabile.
— lo voglio una tazza di the, Genoveffa — disse il padrone, uscendo dal silenzio.
— The? Ma voi non chiuderete occhio, stanotte! — protestò, ma garbatamente la governante.
— E se non volessi dormire? Che t’importa? — egli rispose, con la sua subitanea irascibilità. — Vammi a fare il the, Genoveffa!
— Vado — ella mormorò, obbedendo, come sempre, da trent’anni — dicevo che il sonno è necessario....
— Avrò tempo di dormire molto.... a lungo.... più tardi — borbottò don Francesco Soria, parlando a sè stesso.
Ma nel rientrare col vassoio del the, Genoveffa non era sola. Un’ombra nera e lieve, la seguiva, a passi discreti.
— Eccellenza, ecco il nostro don Giulio...
Il giovane prete, don Giulio Lanfranchi, si accostò al seggiolone, toccò la mano scarna di don Francesco Soria, distesa sul bracciuolo, con un gesto di rispetta e di affetto, prese la sedia che Genoveffa gli porgeva e si sedette vicinissimo all’ottantenne.
— Bravo, bravo, Giulietto, ti si rivede — esclamò, lieto, il vecchio sorridendo di un sorriso, che dalle smorte labbra appassite, si distendeva in tutte le rughe del volto. — Tu non te ne dimentichi, del tuo vegliardo, come si dice in poesia... Tu devi fare il prete, si sa: ma mi vieni a cercare, ogni tanto...
— Debbo fare il prete, don Francesco, perchè la vostra bontà me lo ha permesso — rispose il giovine sacerdote, con la sua voce esile, che pareva, quella sera, anzi, più languida. — Ma il mio cuore qui mi conduce... come ad un padre. — E la esile voce tremò, un istante.
— Vuoi una tazza di thè, Giulietto? Con un biscotto? Genoveffa ti dà anche il biscotto, figlio mio...
— No, vi ringrazio, don Francesco.
— Che cerimonie son queste, Giulietto? pro testò, vivamente il vecchio. — Su, su, prendi questo buon thè!...
— Non posso, stassera... faccio un piccolo digiuno...
— Un digiuno?
— ...non ho pranzato neppure: pranzo domani sera — mormorò, come fra sè, il giovine prete.
— È tempo di digiuno, per voi?
— No, don Francesco, non è tempo. Digiuno io, così, per una divozione mia — concluse, piano, il pretino, abbassando i suoi occhi azzurri, che fiorivano come due pervinche, sul pallido volto gentile.
— Ma tu ci vai morto di fame, in paradiso, Giulietto! Perchè fai tanto? Il tuo monsignor Morcaldi non protesta? Non dici messa, non canti vespero, non fai orazione, non conduci una vita di santarello?...
— Non basta, don Francesco, non basta — esclamò, turbato, il sacerdote.
— Come non basta? Che cosa, non basta? Perchè non basta? — insistette il vecchio, con un suo consueto scatto di impazienza.
— Che non faccio, che non farei, padre mio, per esser caro a Dio, per ottenere da Lui questa grande grazia! — esclamò il pallido sacerdote, con un tono sempre più velato di emozione.
— Una grande grazia, Giulietto?
— Voi conoscete quale essa sia, don Francesco — e, di nuovo chinò gli occhi azzurrini, ove fluivano la sua pietà e la sua fede.
Allora, a un tratto, un breve riso secco e stridulo, esci da quelle labbra scolorate, da quella bocca sdentata e incavata, un riso di vecchio allegro e beffardo, un riso di duro scherno.
— Va là, Giulietto, caro figliuolo mio sciocco, va là col tuo piccolo digiuno di niente, per scongiurare un fatto enorme, un fatto immenso...!
— Sono indegno, è vero — balbettò, umiliato, il giovine prete. — Ma tutto giova. Sempre, si può meritare...
— Giulietto, ma tu credi in Dio? — proruppe Tirato vecchio.
— Don Francesco, che dite?
— Ebbene, se Dio ha deciso lassù, la guerra, tu vuoi opporti, tu, misera creatura? Tu mi fai ridere!
— No... no... non mi oppongo, prego, prego, ecco tutto — seguitò a balbettare, sempre più sconvolto, don Giulio Lanfranchi.
— Se credi in Dio, vuoi o non vuoi obbedirgli? Se sei cristiano e prete, vuoi o non vuoi rassegnarti?
— insistette, aspro, il vecchio don Francesco.
— Sì... sì... sì... — mormorò, curvo, piegato in due, il giovine sacerdote.
— E non discutere, allora, con Dio, quando lo preghi di non permettere la guerra che Egli ha già deciso... Non sai le sue ragioni, e fa’ la sua volontà, se non vuoi essere un cattivo cristiano, un pessimo prete — concluse, con voce sempre più tagliente, il vecchio.
— Sì... sì, don Francesco! — gridò, rialzandosi, Giulio Lanfranchi. — Non discuto, obbedisco, ma posso soffrire, posso soffrire, padre mio...
— E perchè soffri? Di che soffri?
Come, io che sono il sacerdote di una religione di amore, io che sono un sacerdote di una religione di pace, non debbo soffrire mille spasimi, mille torture?
— Eh già... già... non sei più un uomo... sei un prete — disse, disdegnosamente, il fiero vecchio.
— La guerra, padre mio, il sangue sparso, ovunque... le creature innocenti ferite, uccise... lutti, rovine, perdizione... don Francesco, che orrore!
— I salassi, prete caro, hanno sempre fatto bene, alle nazioni, tutte quante congestionate... Prete, siamo troppi nel mondo, lo sai? — disse il vecchio, sempre più sarcastico e sdegnoso.
Don Giulio Lanfranchi, strette convulsamente le mani ceree sulla nera sottana, quasi a comprimere i palpiti disordinati del suo povero cuore, fissava il suo vecchio protettore, il cui viso brunastro parea diventato di pietra, nella asprezza collerica dei suoi violenti istinti bellici, sopravvissuti a tutti gli altri, che si erano spenti.
— Giulietto, pretino mio, timido timido, che vivi in penombra e in preghiere, nelle chiese oscure e umide, fatti core; se ti chiamano sotto le armi, ti destinano in Sanità. Stai al sicuro: gli austriaci non ti uccideranno — così fischiarono le ingiuriose parole.
— Don Francesco, padre mio, che vi ho fatto? Che vi ho fatto? — gemette, quasi soffocato di pena, Giulio Lanfranchi.
Un tempo di silenzio. Più tranquillo, quasi pacatamente, don Francesco scosse il capo canuto e riprese;
— Non ci possiamo comprendere, tu ed io; tu non puoi che mandarmi in collera, e io non posso che ingiuriarti. Tu sai bene, chi sono stato io? Lo sai?
— Lo so — rispose, con un soffio di voce, il prete dolente. — Siete stato in gioventù, prima e più tardi, un eroico soldato d’Italia, contro l’Austria... Siete stato ferito, nel 1859; siete stato ferito gravemente e lasciato per morto, nel 1866...
— A Custoza, Giulio, a Custoza! — esclamò il vecchio, poggiando le mani sui bracciuoli, quasi per levarsi, col volto trasfigurato.
— Pochi hanno amato l’Italia come voi e le hanno offerto la vita, come voi, lo so, lo so!
— Pochi hanno odiato l’Austria, la nostra infame nemica, come me, Giulio... Pochi la odiano da tutta la lor vita, come me.
Taceva, ora, il giovine prete.
— E Iddio mi na consolato, facendomi vivere molto, troppo, ma perchè io vedessi, domani, la distruzione dell’Austria... Io vedrò questo. Giulietto... e morirò contento.
— Perdonatemi, padre mio, perdonatemi — disse il prete, dal cuore spezzato dal dolore, curvando la bianca pura fronte, sulla mano magra del vecchio, baciandola, e lasciandovi, infine, cadere le sue lagrime.
Con un gesto amoroso, paterno, don Francesco Soria sfiorò quella fronte, carezzò quei capelli.
— Giulietto, anima pia, anima bella, pensa quanto tu possa far bene, in guerra, sul campo di battaglia...
— È vero — mormorò, fioco, estenuato, don Giulio Lanfranchi.
— Quanto sarà più cara, al Signore, la tua presenza, la tua opera, colà... fra i feriti, fra i morenti...
— E vero, è vero...
— Sai che il soldato caduto in battaglia, è destinato alla gloria celeste? — continuò, più austeramente, il vecchio.
Con gli occhi incerti, in una mortale perplessità, il prete ascoltava. Un profondo sospiro gli sollevò il petto.
— Nel Vecchio Testamento, che tu devi conoscere, che tu devi ricordare, figliuolo mio, vi è il nome del Dio delle battaglie. Te lo rammenti?
— Dio, per me, si chiama Dio — disse, quasi a sè stesso, il prete.
— Il Dio delle battaglie, si chiama Sabaoth. È quello che tu, domani, devi invocare: Sabaoth! — proclamò, trionfalmente, il terribile vecchio.
Un singulto, senza lacrime, si franse sulle labbra del sacerdote. Un lungo silenzio si fece. 11 vecchio, stanco, ma felice, col capo arrovesciato sul cuscino, con la bocca schiusa, si riposava della forte disputa, in cui il suo animo rimasto fierissimo, aveva vinto il tenero, il pietoso, il dolente sacerdote.
— Ecco il nostro signor Guido — rientrò a dire, dall’anticamera, la governante, precedendo il nipote di don Francesco Soria, Guido Soria. E dalla soglia, il giovine, con voce gaia e vibrante, disse:
— Nonno, nonno caro, sono qua, con grandi notizie....
E si avanzò, rapido, nella sua alta e vigorosa statura, coi capelli di un biondo acceso, buttati indietro dalla bianca fronte, e tutto il volto bello e giovanile, animato di una espressione intensa di soddisfazione: si curvò a baciare la mano scura e scarna del suo avo, sul bracciuolo della poltrona, mentre don Francesco Soria, crollava il capo, un po’ tremante, diceva» con voce carica di una emozione di amore:
— Nipote mio, figlio mio.... caro, caro, tu solo puoi consolarmi.
E sul capo giovanile, un po’ curvo, egli passava, dolcemente, la sua antica mano, che adesso tremava, come non aveva mai tremato.
— È deciso, dunque, è deciso? — balbettò, quasi, nella sua traboccante commozione.
— Decisissimo, nonno! — gridò, lietamente, il nipote.
— Ne sei certo? Ne sei certissimo?
— Certissimo, come della mia vita e della mia morte! — proclamò l’ardente e giocondo nipote.
— La morte mia, Guido caro! — protestò, subito, il vecchio.
— Nè la mia, nè la vostra, nonno! La morte di tutti gli austriaci, nonno! Li vogliamo distruggere. Li vogliamo sterminare!
— Distruggere, sterminare, sì. Guido — confermò il vecchio, con voce forte e calma. E stese la mano per prenderne una del giovane, per stringerla energicamente.
Un sospiro si udì. Era don Giulio Lanfranchi, dimenticato, solo, poco distante.
— Oh! buona sera, don Giulio! — salutò, sorridente, Guido Soria, di cui tutta la fisonomia, subito riflesse la bontà e la cortesia. — Stamane avete visto mamma, è vero?
— La vedo, quasi ogni mattina, a san Camillo... — mormorò, a occhi bassi, il pretino.
— Don Giulio, ve ne prego, persuadetela, persuadetela, mammina mia, che la guerra è una necessità... Ella è così pia... Voi stesso, siete così pio, diteglielo, in nome di Dio...
— Lo tenterò, don Guido — rispose, fiocamente, il prete. — Ma le mie forze sono così deboli... Vostra madre soffre tanto... Tutte le madri soffrono immensamente... — E tacque, come soffocato dalla sua invincibile tristezza.
— Guido, lascialo stare, Giulietto: è prete, il suo cuore è di pasta frolla! Giulietto, sai che, ti voglio bene, e non ti offenderai... — disse il vecchio — Guido, dimmi, dimmi, donde la tua certezza?
— Si mobilita, nonno, segretamente: ogni notte cominciano a partire treni, ogni mattina giungono ordini, che a stento si tengono celati. Vi sono già raggruppamenti... È certo, è certo!
— Vedo, vedo, vedo! — esclamò il vecchio. — E tu, nepote caro, sai niente di te?
— Io sono fante, nonno mio, lo sai! — esclamò Guido, accendendosi nel volto, scintillando dallo sguardo. — E me ne vanto, nonno, e ne sono soddisfattissimo. Niente cavalleria, nonno, che è sempre corpo di parata. Niente artiglieria: colpisce da lontanissimo. Fante, fante, fante!
— È il mio animo che parla, in te, Guido — disse il vecchio, con voce roca dall’orgoglio e dalla tenerezza. — Fante, fante! Peccato, però....
— Che cosa, peccato?
— Allora, figlio, quando io mi son battuto, sai, erano guerre primitive.... Il fucile parlava.... Si andava uomo contro uomo.... Corpo a corpo.... — parlò il vecchio, come in sogno, come se rivedesse i suoi giorni di battaglia. — Guido, allora, la parola era: O ti uccido, o mi uccidi....
— Anche adesso, nonno — dichiarò fieramente il nipote. — Il fante, anche adesso, esce dalla sua trincea: si slancia contro quella nemica.... E il nemico è là, di fronte, che ti attende.... Anche adesso, nonno mio, per noi, fanti, il motto è: O uccidere o morire.
— Mors tua.... — disse il vecchio torvo, minaccioso.
— Vita mea.... — gridò, con gaio furore, il giovine. — Vita, vita, vita nostra, nonno! Ti giuro, vedi, per i tuoi lunghi anni, sempre da me benedetti, per la testa bianca, da me venerata, per il bene che mi vuoi, che io farò di tutto per non farmi uccidere! Ti giuro, nonno, che questo tuo fante di nipote, che si onora di chiamarsi Soria, come te, cercherà di ammazzarne quanti più ne può, di questi nostri eterni e nefandi nemici, i crudeli nipoti di coloro che ti ferirono a Custoza, che ti lasciarono per morto, a Custoza.... Giuro.... giuro!
— Sangue mio, sangue mio grande! — gridò il vecchio, alto, in piedi.
Don Francesco Soria e Guido Soria si abbracciarono, si baciarono, si tennero stretti, come in una promessa, come in un sacro giuramento, come se in questa promessa e in questo giuramento, si fosse mescolato il loro stesso sangue, vivido e ardente di odio e di vendetta.
Nell’anticamera, presso la porta di entrata, socchiusa, Genoveffa ascoltava colui che le parlava, sommessamente. Ella aveva portato allo zio e al nipote i giornali della sera, che, subito, Guido Soria, aveva cominciato a leggere, con voce sonora, a suo nonno. Ora, tornata in anticamera, dove l’aveva attesa, nel vano della porta, Cesare Pietrangeli, il giornalaio che aveva il suo chiosco di giornali, all’angolo fra via Veneto e Porta Pinciana.
La donna, silenziosa, attenta, seguiva il discorso dell’uomo, che era fatto di parole rapide e concitate, ma con un tono basso; ogni tanto l’uomo scuoteva il grosso capo, in atto di sconforto, ogni tanto egli segnava la sua frase, con un gesto di sconforto della larga mano rossastra. Cesare Pietrangeli era un popolano basso, atticciato, con un largo viso coloritissimo, vestito decentemente, con una grossa catena d’oro, che gli traversava il panciotto; si scorgeva che egli moderava, a stento, la sua voce, mentre il viso esprimeva una pena grande, ma semplice, quasi ingenua. Taceva la prudente Genoveffa; a occhi bassi, acconsentiva, talvolta, col capo, e un velo di malinconica, ingenua compassione era nei suoi cenni, in qualche breve parola, pronunciata come un soffio. Sogguardava, allora, ogni tanto, verso le stanze di don Francesco, quasi temesse di essere chiamata e di non udire, o che, forse, potesse giungere, colà, la voce invano repressa di Cesare Pietrangeli. In questo, sopraggiunse don Giulio Lanfranchi, che si era congedato, quasi inavvertito, dal nonno, dal nipote; col suo passo leggiero, piccola ombra nera, stringendo sul petto il cappello pretino, si dirigeva all’uscita. Egli salutò Genoveffa e fece per uscire; ma gli si parò avanti il popolano romano, che fermò il piccolo prete, al passaggio toccandogli la mano, come per baciarla.
— Che mi dice, reverendo mio, di questa gran disgrazia? — e la tristezza viva, si univa a un’onda di sdegno, che invano Pietrangeli si sforzava a reprimere, — Figliuolo mio, perchè parlate così? — disse, mitemente, il prete.
— E come ho da parlare, io, sfortunato, con questa sciagura che mi piomba addosso? — proruppe il giornalaio, mentre Genoveffa, sgomenta, stendeva la mano, quasi a farlo tacere.
— Pazienza, pazienza, Pietrangeli! — soggiunse il prete, levando gli occhi in alto.
— La pazienza è una cosa di donne, don Lanfranchi mio, e glielo direte alla mia domani, a San Camillo. Ma a me, povero padre di famiglia, con quattro anime di Dio di figli, che pazienza consigliate?... Io sono rovinato, reverendo, se debbo marciare.
— Non dite, non dite — balbettò, tremante, il prete, — Rovina, rovina mia, — seguitò l’altro, preso dalla sua tristezza e dalla sua collera. — Moglie e quattro figli, e nessuno può lavorare, ancora, e mi sfacchino solo io, per le strade, al sole e alla pioggia, e nel chiosco dei giornali a gelarmi o ad arrostirmi, secondo la stagione, perchè, se no, Mariuccia e i figli non mangiano. E che mangeranno, se mi portano contro gli austriaci?
— Pietrangeli, lasciamo fare a Dio... — disse, fiocamente, il prete.
— Dio? E quello se ne è bello che scordato di noi! Saranno questi peccatacci nostri, si sa.... Ma queste creature mie innocenti, Bettina quindici anni, e Cecchino, dodici, e Biciarella, otto, e il pupo mio, quel pupetto che ha sei mesi, Augustarello, bello mio... che faranno? Cercheranno l’elemosina? Moriranno di fame:?
— Non vi sgomentate, Cesare! Qualcuno ci penserà; qualcuno ci dovrà provvedere...
— Chi, qualcuno? Questi malfattori di governanti, queste canaglie, questi vigliacconi, che mandano noi ad ammazzare, o ad essere ammazzati, per le infamissime ragioni loro, costoro penseranno alle creature mie?
— Come voi, ci sono tanti altri padri.... tanti altri umili lavoratori — mormorò, confuso e disperato, il prete.
— Sì, sì, siamo tantissimi, a essere mandati a macellare, o ad esser macellati, povera gente, che non sappiamo niente di niente! Che abbiamo da spartire, noi, con l’Austria, che non la conosciamo? Che mi hanno fatto, questi austriaci, che sono uomini come me, e cristiani come me?
— È vero — si lasciò sfuggire, il prete, disperato.
— Questi austriaci ci avranno la moglie e i figli come me, le creature loro, non è vero, don Giulio?
— È vero, è vero — disse il prete, nel suo immenso smarrimento.
— Allora, costoro, sono mio prossimo? E voi non predicate ogni giorno, alle donne e agli uomini, di amare il prossimo? Dite che Dio lo consiglia, lo vuole, lo comanda? È adesso che comanda, Dio, di ammazzarci, fra noi e il prossimo?
— Zitto, zitto, per carità, Pietrangeli — esclamò il sacerdote, mettendogli una mano sulle labbra.
— E perdonatemi, reverendo, se ho bestemmiato! Scusatemi, poichè siete un sant’uomo.... — si scusò, parlando trepido, il popolano romano. — Voi consolerete le nostre famiglie, voi che restate a servire Iddio: voi penserete alla mie creature....
— Vorrei farlo, Pietrangeli! — disse il prete, tristemente. — Ma io dovrò marciare, come voi.... Andrò al fronte.... Forse c’incontreremo, figliuolo mio....
— Don Lanfranchi mio, vi chieggo perdono, ancora — mormorò, sempre più contrito, il giornalaio. — Almeno non ci avete famiglia, da lasciare senza sostegno, come me....
— .... io, io, ci ho una madre e una sorella, là, in Umbria, a Città della Pieve. E non hanno che me — soggiunse, piano, il prete, con un sospiro profondo.
— Allora non vi è che Genovieffa, qui, che non gliene importa nulla — cercò di scherzare, il popolano, per vincere il turbamento suo e quello del sacerdote.
Genovieffa levò gli occhi e disse, sottovoce, mestamente:
— Mia sorella Carolina, a Casoli, nel mio paese di Abruzzi, ha tre figliuoli, che debbono marciare, tutti tre.
I suoi buoni occhi si velarono di lacrime, che non sgorgarono. Ella tacque, subito. E i tre si unirono, in un dolente silenzio; e si lasciarono, in un silenzio dolente.
Poichè la penombra cresceva, Loreta Leoni gittò il libro su cui aveva invano tentato di fissare la sua attenzione; e si levò, sviluppando la sua alta e snella statura, facendo nell’ampio salotto qualche passo incerto, fermandosi presso il pianoforte e traendone, con le mani vaganti, qualche suono, allontanandosi verso il vasto verone, schiuso sul giardino della villa, ove si discendeva da due piccole scale laterali al verone. Di là, ella occhieggiava verso il cancello chiuso della villa, cercando di scorgere, fra i ferri, se qualcuno vi giungesse, da via Abruzzi, se si fermasse a bussare al campanello, nascosto fra i rami della glicinia già fiorita, in quei giorni del cadente aprile.... Ma il cancello era lontano; via Abruzzi già si adombrava tutta del crescente crepuscolo; e Loreta Leoni curvava il bel viso di una rara bianchezza, sotto i nerissimi capelli, sollevati in un’onda bruna sulla perfetta fronte; una impazienza la rodeva, e due o tre volte ella fece il giro del salotto, si buttò in una poltrona, come a calmarsi, ad aspettare, si levò con un atto d’insofferenza, tornò sul verone, donde si scorgeva l’entrata; e infine, discese nel giardino, si diresse verso il cancello, quasi non sopportasse più l’attesa. Qualcuno era al cancello; e un servo sovraggiunse, alle spalle di Loreta, andò ad aprire; una donna si avanzò verso la fanciulla, la chiamò, dolcemente:
— Loreta, Loreta mia!...
— Oh madre cara... — salutò distratta, la figliuola, mordendosi le labbra, delusa.
Carolina Leoni si sollevò un po’, sui piedi, poiché era molto più piccola della figliuola, e la baciò sulla guancia, mentre quella si curvava, compiacente, a farsi baciare. E ambedue si avviarono verso la scaletta, che conduceva al salotto terreno della villa, senza passare per la grande scala.
— Che hai, Loreta mia? Sei malinconica? — chiese, timidamente, la madre.
— Malinconica, no, madre; molto seccata, sì — rispose, precisando, la figliuola.
— E perchè, cara, perchè? Dillo a mamma tua...
— Non so nulla di Carletto, mamma. Doveva venire, non è venuto; doveva almeno scrivermi, non mi ha scritto, o, infine, telefonarmi, dire qualche cosa. Niente!
— Pazienza, pazienza, Loreta — disse la madre, col suo mite sorriso. — Verrà, verrà, Carletto... verrà.
— Ma non è venuto; ma non viene — rispose, scontenta, Loreta.
Adesso erano entrate insieme, in casa. Carolina Leoni volse il commutatore e il salotto s’illuminò delle sue tre o quattro lampade velate di colori tenui, e le stoffe di un delicato grigio argento, e i mobili di un legno finissimo, chiaro, e i fiorì sparsi, sul pianoforte, su qualche mensola, sul caminetto, dettero il senso di un ambiente ricco e tranquillo, tutto muliebre. Qua e là, la cornice di un quadro dava un lieve scintillìo, una coppa di cristallo, che sembrava un soffio di aria, brillava sottilmente; e tutto in fondo, rassomigliava a Carolina Leoni, dal viso già sfiorito, malgrado non avesse molti anni, dalle labbra impallidite, dai morbidi capelli biondi che già s’imbiancavano tutti, e che conservava, però, Carolina, tutta la sua dolcezza giovanile, nella espressione dei suoi soavi occhi, nella sua pallida bocca, nei suoi gesti carezzevoli, nella sua fine persona ben fatta. E tutto, in fondo, quell’ambiente a cui la madre aveva dato la sua simiglianza, era in contrasto con la superba figliuola ventenne, la cui testa coverta dal casco dei neri capelli si ergeva, altiera, sovra la figura alta e svelta, il cui volto bianco, anche nelle sue linee pure, era segnato di una volontà ostinata. Spesso le sopracciglia sue, sottilmente e nettamente delineate, si accigliavano e rendevano ostile quel bel viso giovanile. Adesso Loreta Leoni non sembrava più annoiata; ma era la tacita collera dell’attesa che le si leggeva in volto. Quieta, pacata, levandosi lentamente i guanti, togliendosi il cappello e appuntandovi gli spilloni, con cura, Carolina Leoni parlava alla figliuola:
— Sono stata da donna Marta Ardore; la carissima amica è molto turbata, ma ha un animo così forte! Siamo andate insieme a santa Maria degli Angeli, peri il vespro. Loreta, quante donne, poverette, come noi, pregavano! Don Filippo Morcaldi ci ha dato queste belle immagini: ecco Gesù, il Principe della Pace; vi è anche una preghiera, dietro.
La figliuola, con occhi vaghi, guardava la madre e l’ascoltava, come se non la vedesse e non la udisse.
— Guarda, guarda, Loreta mia, queste figurette, sono così consolanti e le orazioni, poi, così commoventi — e gliele tese, con atto gentile, ma quasi timido.
Con un gesto del capo e della mano, gesto di fastidio, la figliuola le respinse. — Tienile per te, mamma; a me non servono, lo sai bene — le disse Loreta, con un cenno di rifiuto.
— ... pure, sei cristiana, Loreta — mormorò Carolina, impallidendo e arrossendo.
— Sì, sì, ma lascia andare, mamma, lascia! — esclamò la disdegnosa figliuola.
La madre si ritrasse; covrì, con le mani un po’ tremanti, le immaginette sacre, abbassò le tenui palpebre per celare le lacrime, di cui erano velati i suoi occhi amorosi. In questo, la suonerìa del telefono trillò; Loreta si precipitò a rispondere; ritta, a capo chino, ascoltava le parole che il suo fidanzato Carietto Valli, le comunicava, e a malgrado che le sue corte risposte fossero sempre corrucciate, le linee del suo viso si spianavano man mano; e le sue risposte si facevano più cortesi. E, infine, un vivo fremito di amore, parve vibrasse nella sua voce.
— A che ora? A che ora, Carletto? Non tanto tardi, amor mio caro, è vero? Non puoi, prima delle dieci? Perchè non puoi, dimmi? Almeno non te ne anderai presto, come ieri sera, cattivone mio, rimarrai, rimarrai, tardi, con me? — e sembrava ora che ella palpitasse, contro quello strumento, che portava all’altro la sua voce e l’impulso del suo amore.
— Sì, sì, ti mando un bacio per telefono... eccolo... eccolo, Carletto — e Loreta tentò di formare un rumore di un bacio, mentre sorrideva, beata.
La conversazione telefonica si chiuse. Trasfigurata, Loreta tornò presso sua madre, le buttò le braccia al collo, la baciò tre o quattro volte, mentre Carolina protestava, sottovoce:
— Loreta, Loreta mia... se ti ascoltassero, altri, che scorno!...
— Va là, va là, povera cara scema di madre, madre così innocente, che al telefono si odono cose molto più peccaminose, di un qualsiasi piccolo bacio, fra fidanzati! Se sapessi! — e Loreta rise, di uno riso fresco, malizioso e sarcastico.
Sedevano, più tardi, i due fidanzati, Loreta Leoni e Cadetto Valli, nel largo vano del verone, i cui cristalli erano schiusi, nella già tiepida sera del cadente aprile: il bel giovane, biondo ed esile, dal viso chiaro e dagli occhi castani, un po’ femineo, nella sua grazia giovanile, come Loreta era un po’ virile, nella sua imperiosa beltà, aveva portato alla fanciulla, un gran fascio di odorose mammole, fra le loro rotonde fogliette di un verde oscuro: e Loreta ne aveva passato un mazzetto alla cintura e ne teneva un fascio fra le mani, appressandolo, ogni tanto, alla faccia, immergendovela tutta, a sentirne, a sorbirne, la freschezza, e il profumo. Poi, fissando negli occhi il suo biondo fidanzato, gli porgeva quel fascio di fiori, ove ella aveva poggiato le labbra schiuse e le sue nari frementi: ed egli stesso, sogguardandola, imitando il gesto di lei, s’impregnava di quella fragranza e di quella freschezza. Dopo, pareva che i loro sguardi non si potessero disgiungere. Un penetrante silenzio era attorno alla villa Leoni, isolata in fondo, al folto giardino di via Abruzzi: ogni tanto giungeva, cresceva, si perdeva, lontano, il rombo sordo di un automobile. I due, spesso, tacevano insieme, guardandosi, come se, insieme, pensassero le medesime cose o diverse, e se le comunicassero, senza parole, con Io sguardo. La sera, così, trascorreva: mentre laggiù, nell’angolo del salotto, presso un largo tavolo, sotto la luce di un’alta lampada velata di una seta color oro pallido. Carolina Leoni, chinava la testa, i cui bei fini capelli biondi s’incanutivano, chinava i suoi teneri occhi un po’ smarriti, color pervinca, sovra le pagine di un libro. Talvolta, ella, levando il capo, si volgeva ai due fidanzati, e li fissava, un istante solo, come se volesse dir loro qualche cosa: ma le sue labbra non si schiudevano, e dalla sua parte non si udiva che il breve fruscio del foglio voltato, con la mano lenta, ove brillava solo il cerchio di oro delle sue nozze, il ricordo di colui che era stato il suo unico amore e che, adorandola, era morto troppo presto. I due fidanzati la dimenticavano, laggiù, in quell’angolo, muta e paziente leggitrice. Ogni tanto le mani di Loreta Leoni e di Carletto Valli si sfioravano quasi involontariamente, le dita s’intrecciavano, le due palme aderivano, e, allora, il sorriso di Loreta diventava intenso, di una passione che pareva la opprimesse, mentre Carletto Valli, trascolorando, si mordeva le labbra... Poi, lentamente, le due mani dei fidanzati si disgiungevano, e ricadevano, inerti, come esauste.
— Si andrà, dunque, Carletto? — ella chiese, pianissimo.
— Si andrà, certo, Loreta — egli rispose, sullo stesso tono.
— Andremo, amor mio — ella replicò, recisa.
— No, Loreta.
— Sì, Carletto.
Sempre pianissimo.
— Non è possibile, Loreta mia.
— Tutto è possibile, quando si ama.
— E se anche l’amore non riescisse, che farai, anima mia?
— Non so. So che non posso esserti lontana. Andrò lassù, e toccherò con la mia persona il limite più vicino a te, Carlo mio... — e la voce esprimeva tutto il segreto ardore di quella passione.
— Loreta mia, creatura mia diletta... — disse Carlo, sconvolto.
— Credi tu che io possa rimanere, qui, in Roma, a morire di angoscia, nell’attesa di una notizia, di una lettera? — proruppe, a voce alta a chiara, Loreta. E parve che quella dichiarazione fosse fatta su quel tono, perchè sua madre Carolina la udisse. Infatti, ella levò il capo, e disse, anch’ella, con voce chiara e tranquilla:
— Migliaia di donne, madri e mogli lo faranno, Loreta.
— Io no! io no! — esclamò la ribelle figliuola.
— Esse saranno pazienti, Loreta, e avranno fede nell’attesa — concluse, fermamente e dolcemente, la madre.
— Donne che hanno il tuo cuore, mamma, non il mio — replicò, in un violento corruccio, Loreta.
— Perchè dici male dei nostri cuori, figlia? — soggiunse la madre, facendo uno sforzo mirabile, per dissimulare, sotto la dolcezza e la fermezza, la sua immensa pena. — Tu non li conosci, questi cuori!
— Non li conosco: e mi sono estranei, madre — dichiarò, torva, Loreta.
— Anche il mio, figlia cara, ti è estraneo? — le chiese, mortalmente pallida, la madre, che si era levata in piedi, e appoggiava la mano al tavolo, forse per reggersi, forse per non cadere.
Con uno sguardo suggestivo, Carletto Valli arrestò qualche parola anche più trista, sulle labbra della sua fidanzata. Costei tacque, si levò dalla sedia, si avanzò sul verone, e si appoggiò alla balaustra, come se volesse respirare l’aria notturna, a suo sollievo e a suo sfogo. 11 fidanzato fece un cenno suadente a Carolina Leoni, quasi a consolarla, e a farle indulgere a sua figlia: ella sospirò, profondamente, non altro. Carletto Valli uscì sul verone, accanto a Loreta, le mise il braccio sotto il braccio. Ella trasalì, si volse a lui, nella penombra notturna, e il volto bianco parve s’irradiasse:
— Loreta, tu hai afflitto tua madre.
— Lo so. È destino che i figli affliggano i genitori.
— Essa ti ama teneramente.
— Lo so. È destino che ognuno soffra pel suo amore, Carlo — ribattè, ostinata, Loreta.
— Sei crudele, amor mio... — mormorò, soggiogato, Carletto Valli.
— È vero: ma ti amo... — ella rispose, covrendolo con uno sguardo amoroso.
— Anche io, ti amo, Loreta — egli balbettò, fremente.
— Meno di me, meno di me — ella proruppe, superba e appassionata.
— Loreta mia!
— Tua, tua, tua! — e la donna gli si strinse addosso, volse a lui la faccia, le labbra protese.
Le due bocche si unirono lungamente, nella notte silente di aprile, fra gli aromi freschi del giardino e l’odore della terra, sotto l’alto scintillio delle stelle. Nel salone, Carolina Leoni, che si era nascosto il viso fra le mani, si levò di scatto, fuggì via, nelle stanze lontane, confusa e vergognosa.
Nel leggiero primo sonno, Antonia Scalese trasalì, si scosse, si svegliò: alla luce fiochissima della lampadetta accesa, sovra una mensola, innanzi a un simulacro dell’Addolorata, ella scorse l’ora all’orologetto, che posava sul tavolino da notte. Le due, E sollevata in mezzo al letto, ella raccolse più stretta la massa dei capelli neri, che tanto la ringiovanivano, dicendo a sè stessa, sommessamente, il suo pensiero, il pensiero che l’aveva bruscamente svegliata.
— Gianni non dorme....
Restò un istante indecisa: ma un solo istante. Con moto rapido, rovesciò le coltri, uscì dal letto, cercò le pianelle coi piedi nudi, con mani rapide si vestì, gettandosi sulla persona una vestaglia in cui si avvolse, mentre di nuovo, diceva a sè stessa:
— Gianni non dorme: Gianni veglia....
Cauta, con passi cautissimi, lasciò la sua stanza
e nella oscurità del corridoio, si diresse, più lenta, verso la stanza di suo figlio: giunse innanzi a quella porta chiusa, si curvò, scorse la sottile linea di luce, fra la porta e il pavimento. Gianni non dormiva: Gianni vegliava. Represse un sospiro. Origliò, se giungesse rumore. Nulla. Appoggiata al battente, rimase, così, qualche minuto, dietro quella porta serrata: e udiva crescere il battito del proprio cuore anelante. Non osava entrare: non osava chiamare: e non poteva andarsene, poiché Gianni vegliava. Finché con un gesto involontario stese la mano sulla maniglia, pianamente schiuse la porta, sogguardò. Suo figlio Gianni non si era coricato, dopo averle dato la «buona notte», sulla soglia della sua stanza, due ore prima: il letto era intatto, con il vestito da notte disteso sulla coltre, come le mani materne lo avevano amorosamente preparato, per il buon riposo del figliuolo. Gianni era seduto alla scrivania, volgendo le spalle alla porta, ma non parea che scrivesse. Non aveva udito schiudere la porta, non si accorse della presenza materna, che quando Antonia, gli fu presso e lo chiamò, soffocando la sua emozione.
— Gianni, figlio mio....
— Oh madre cara.... — egli rispose, levandosi, covrendo, con il dorso, la scrivania. Ella lo guardò bene: aveva il suo figliuolo, la espressione perplessa di chi è stato, di colpo, sorpreso, in qualche cosa, un pensiero, un’azione segreta. Ed ella stessa, comprendendo questo, prese un’aria semplice, chiese, con semplicità:
— Non sei andato a letto, figliuol mio? Non avevi sonno?
— Non avevo sonno, mammina — egli accettò, subito, la caritatevole scusa materna.
— Perché.... perchè, Gianni, non avevi sonno? — ella domandò, quasi involontaria.
— Non so, mammina: succede.... — egli disse, vagamente, guardando altrove.
— Succede.... — ella ripetette, a voce bassa, a occhi bassi.
— Anche tu, mammina, non sei a letto: sei qui — egli soggiunse, piano.
— Oh io, Gianni so sempre, quando tu non dormi... da quando eri piccolo...
— Quando era piccolo, tenevo la tua mano, ti rammenti, mammina, nel sonno?... — e un tremore tenero, era nella sua voce di uomo, fattasi infantile.
— ....e mi stringevi, la mano, Gianni, per sentirmi sempre vicino a te! — ella soggiunse, crollando il capo, con un cenno materno consenziente.
— Sei qui, madre cara... sei qui — egli replicò, guardandola, con un’avidità bizzarra di sguardo.
— Come un tempo, Gianni, come allora: ho sentito che non dormivi, nel mio sonno.
— Mammina, mammina... — egli disse, prendendola nelle sue braccia, tenendola stretta, testa accanto a testa, somigliantissimi. E non piansero, non si baciarono, non parlarono, si tenevano uniti, stretti, così, come se nulla mai potesse dividerli.
— Che facevi, Gianni? — chiese, con un soffio di voce, la madre.
— Scrivevo, mammina — egli le rispose, sciogliendo la cara stretta, passandosi la mano sulla fronte.
— A chi scrivevi? a chi scrivevi? — d’improvviso ansiosa, fu la domanda.
— A nessuno.... lavoravo, per la mia banca.
— Alle due di notte, Gianni? Dillo, dillo, a chi scrivevi, dillo a tua madre!
E si gettò su quelle carte sparse, che erano sulla scrivania, cercò di afferrarle, di leggerle.
— No, madre cara, no — si oppose, fermo, il figliuolo, distaccandone la madre.
— Non posso leggere? Non posso sapere? La tua madre cara? La tua mammina?
E lo scuoteva, con le mani trepide, e si vedeva sollevarsi il suo petto ansante, e tutto il viso era un’ansia.
— Più tardi, mammina... più tardi... dopo — egli rispose, confondendosi.
— Quando, più tardi, Gianni? — Antonia gridò, come folle. — Quando, dopo? — e il suo grido era sempre più folle.
— .... sai, sai... può accadere... — balbettò, già tutto tremante, il figliuolo.
— No, no, no! — urlò la madre.
Ella afferrò Gianni, fra le braccia, e se lo tenne stretto, da soffocarlo, e fra i singhiozzi senza lacrime, nella convulsione del suo corpo, mentre il figliuolo, così a lei somigliante, parte di lei, a lei riunita, singhiozzava senza lacrime ed era, come lei, convulso, Antonia parlò, gridò, urlò:
— Figlio mio, bene mio, amore mio, unico bene, unico amore mio, figlio, figlio, figlio, nessuno mi ti deve togliere, nessuno mi ti deve toccare, colpire, ferire, uccidere! Figlio, figlio, figlio, ti ho procreato fra i dolori, ti ho dato sangue e latte e amore, ho tutto sofferto, per te, ti ho cresciuto senza padre, Gianni, che hai solo il mio nome e tutto hai di me, io non so nulla, non voglio saper nulla, non ti dò a nessuno, Gianni, niente, niente, non ti do!
E Gianni Scalese, il figliuolo cresciuto senza padre, nelle braccia ferree di colei che gli era stata madre e padre, di cui portava il nome, Gianni Scalese stringeva le labbra sulle proprie parole di disperazione e levava al Cielo gli occhi disperati.
Marta Ardore e suo figlio Giorgio tacevano, insieme. Ella aveva levato il capo nobilmente coronato nella sua argentea capigliatura, dai suoi libri di contabilità dove, ogni sera, ella teneva in conto, minuziosamente, il movimento del denaro di casa Ardore. Ella aveva chiuso e accantonato questi libri, in un angolo della grande scrivania e aveva riposto la penna. Ora, ella si era volta verso quell’altro angolo della scrivania, ove Giorgio aveva,
fino allora, tenuto gli occhi fissi sovra un libro:
e ove tante ore tacite e quiete serali, il diciassettenne aveva trascorse, presso sua madre. Quella
così vasta stanza da studio di Fausto Ardore, il maggior fratello, era molto severamente mobiliata,
coi suoi alti scaffali di quercia scolpita, carichi
di libri, coi suoi tendaggi di un verde cupo, con
i suoi sofà e le sue poltrone di cuoio verde bruno,
con la sua immensa scrivania, coverta di volumi,
di riviste, di pacchi di lettere: qua e là, qualche
bronzo, qualche porcellana, qualche avorio, mettevano
un chiarore leggiadro nell’austerità di quella
stanza da lavoro, ove Fausto Ardore, per tant'anni,
aveva trascorso le ore più fruttuose, pel suo spirito
studioso e operoso. E, così, alla madre grave
e pensosa, quella stanza era molto cara, per le
sue ore serali solinghe: Marta Ardore vi finiva,
così, in calma e in silenzio, la sua buona giornata.
Giorgio Ardore, il più giovane figlio, il diciassettene,
dai capelli castani a fulvi riflessi, ricciuti
come quelli del san Giovannino fiorentino,
dagli occhi puri ove brillavano, insieme, il talento
e la dolcezza, vi raggiungeva volentieri sua madre
e volentieri vi si tratteneva, in quella sua serenità
giovanile, che non era spensieratezza, ma equilibrio
morale e fisico di tutte le sue semplici forze virili,
che si sviluppavano in armonia. Vi era, in quello
studio, in un angolo, coverto da una stoffa antica di
un viola smorto ove correva qualche filo d’oro, vi
era il pianoforte: e se esso, da anni, non era toccato
dalle mani di Marta Ardore, il giovinetto lo
prediligeva, traendone, spesso, antiche melodie e
ritmi leggieri di danze. Quasi sentendo sul suo
bel volto bianco, nutritogli buon sangue, lo sguardo
materno, Giorgio aveva posato il libro aperto, sulla
scrivania, e tirata una seconda sigaretta dal portasigarette, l’aveva accesa.
— Questa sera non esci, Giorgio?
— No, mamma, non esco — e seguiva con l’occhio sognante, in aria, le piccole volute del fumo.
— Avevi, mi pare, un convegno.
— Sì, con Luigi Moretti, mio compagno di scuola. Dovevamo andare, insieme, alla serata di chiusura del torneo di scherma...
— Non t’interessava?
— M’interessava. La scherma è un esercizio così nobile e così elegante! Ma ho preferito, stassera, farti compagnia, mammà.
Nel pronunciare la parola mammà, la sua bocca fresca e rossa, prendeva una linea puerile e puerile diventava la sua voce. Balenarono di tenerezza gli occhi di Marta Ardore, ed ella sorrise al diciasettenne: tutto il suo volto d’avorio si colorì di quel sorriso.
— Fausto è via: e tu non devi esser sempre così sola, la sera — Giorgio soggiunse, pianamente.
— Figlio caro, tesoro di sua madre... — ella mormorò, quasi a sè stessa.
Un silenzio avvolse e compose la serenità di quelle due fisonomie, la donna già piegata dalle tristezze dell’esistenza e il giovanetto che portava, in sè, l’immensa speranza della vita.
— Mammà, vuoi chiarirmi qualche cosa? — interruppe quel silenzio, a un tratto, Giorgio Ardore.
— Parla, caro.
— Che significa mai: la guerra è di origine divina?
Ella trasalì, le sue palpebre batterono, due volte, sul suo sguardo che guardava, sperduto, nelle penombre della stanza, ove pareva si avanzasse un bieco fantasma.
— Chi ti ha detto questo, Giorgio? — e non potette impedire alla sua voce di essere aspra.
Il fanciullo arrossì nella sua trasparente carnagione, ma soggiunse, tenace:
— Qualcuno, madre cara, lo ha detto: la guerra, è di origine divina.
— Questa parola è disumana, Giorgio. Chi ti ha detto questo, è un uomo senza cuore e senza coscienza — ella giudicò, duramente.
Aveva abbassato gli occhi, il diciassettenne e stava assorto, o, forse, esitava a continuare. Ma il suo animo aveva, già, una forza segreta che lo sospingeva.
— Madre cara — egli riprese, mentre la sua mano bianca e fine, tastava qualche oggetto, sulla scrivania — queste parole sono state pronunciate da Fausto, il mio grande fratello, in un sermone di propaganda, a Torino. Non sono sue: ma egli le ha svolte e difese, ed esaltate.
E vide, vide bene, vide perfettamente Giorgio, la faccia materna contrarsi in una disperazione così violenta, che essa non poteva dissimularla.
— Il mio grande fratello ha suscitato l’entusiasmo della folla, madre cara... — egli soggiunse, pensoso, ma insistente.
La madre aveva, per un istante, nascosto la faccia fra le mani: ma vi restava impresso uno strazio senza fine.
— Tu soffri, è vero, mamma? — e la guardava, con occhi filiali.
— Ah sì, sì, soffro, soffro, Giorgio! — ella gridò, nella esasperazione della sua pena: e si morse le labbra, per punirsi di quel grido incomposto.
— È Fausto, madre mia, che ti fa soffrire?
— È Fausto. Egli mi ha chiesto di soffrire per lui; e io ho accettato.
— Povera madre grande nostra! — egli disse, sogguardandola, amoroso. — Tu hai, madre, orrore della guerra?
— Orrore, Giorgio: orrore.
— Fausto ne parla come di una legge del Signore.
— No, Giorgio... No!
— Egli è in buona fede, madre. È un’anima di bellezza e di bontà, Fausto.
— Ah questa è la mia disperazione! -— ella disse, con voce roca di dolore.
Un pesante silenzio, fra i due. Allora Giorgio si avvicinò alla madre, sedendosele vicino, le prese una mano, la carezzò infantilmente, ne baciò, a una a una, le dita che l’età già deformava.
— Mamma mia grande — egli disse, con voce più grave della sua età e del suo viso. — Io ti amo con tutta la mia tenerezza; e amo Fausto teneramente. Io non debbo giudicare ciò che divide così aspramente, le vostre anime. Sento che ambedue avete ragione e siete in profondo dissidio: se uno di voi è in errore, io non so quale sia. Voi siete così lontani, mamma, con Fausto: ma io vi unisco, stretti, a me, nel mio amore.
Due lunghe lacrime, infine, scesero sulle guancie ardenti di Marta: e vi si disseccarono.
— Resta fra noi, figlio diletto: e saremo sempre uniti — ella mormorò, prendendo il suo figliuolo, fra le braccia materne, e tenendolo stretto al petto.
— Benedicimi, mamma — egli soggiunse, infantilmente.
— Benedetto, benedetto!
— E benedici, mamma, con me, l’assente.
Ella levò gli occhi dolenti al cielo e profferì le parole sacre, obbedendo alla volontà del secondogenito.
— Signore, benedite il mio figlio assente.
Egli si staccò, graziosamente, dalle braccia materne e si sedette, lì accanto, muto. Il tempo trascorse. Cheto, Giorgio si levò: con passi discreti, andò al pianoforte, lo schiuse. Assiso, nella penombra, con le mani delicate e agili, che sfioravano i tasti, egli suonò, in sordina, delle musiche antiche, delle musiche lente e tristi, che piacevano a sua madre. Ascoltava ella, in silenzio, con la tempia appoggiata a una mano.