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LA VEGLIA DELLE ARMI.
II.
Camillo Moles era laggiù, in fondo alla sua stanza da studio, seduto nel suo consueto seggiolone di pelle, quello del suo lavoro: egli appoggiava il capo, un po’ arrovesciato, alla spalliera alta di cuoio bruno, come se riposasse: ma non dormiva. Sul suo volto pallido i suoi occhi erano spalancati: la sua mano destra, abbandonata sulla tavola, entrava nel cerchio della luce: dalle dita schiuse, era sfuggita mezza sigaretta spenta: e la sua mano così virile e così ferma, pareva estenuata. La sorella Magda era entrata pianamente e, così, si era avanzata sino allo scrittoio, e si era seduta dirimpetto a Camillo, senza dir motto: ma egli parve non si fosse accorto della presenza di Magda. Ella sogguardò, un po’, intorno: il largo scrittoio era quasi vuoto dei fascicoli di carte, delle pile di documenti, che sempre lo ingombravano: non un libro, Codice o altro volume di materie forense, vi era schiuso, come sempre: e tutto ciò che serviva per scrivere, per leggere, era posto in un ordine voluto, allineato. Anche il grande calamaio era chiuso: il coverchio di argento, abbassato, scintillava. E un brivido scosse tutta quanta Magda Falcone, la sorella di Camillo Moles, poichè quello scrittoio quasi vuoto, quell’ordine rigido, le diedero una impressione funebre:
— Camillo, Camillo.... — ella chiamò, piano, e distese una mano, a traverso il tavolo, a prender quella di suo fratello, così abbattuta.
— Oh Magda.... — egli rispose, trasalendo. — Sei qui, cara?
— Sono venuta a salutarti, Camillo. È proprio domattina, che vai via?
— Eh sì, sorella mia, domattina, alle sette — rispose l’uomo, con quel suo tono incolore, ma con un sorriso fuggevole, ironico, quasi contro sè stesso.
— Così presto: troppo presto — ella profferì, a capo chino.
— Sempre troppo presto, Magda mia — soggiunse il fratello; e un dolente e beffardo sorriso apparve e sparve, sulle sue labbra smorte.
— Sempre, Camillo! — ella esclamò, senza sorridere. — E dove ti dirigono, caro?
— A Treviso: dopo, non so.
— Non sai?
— Non so. Non sappiamo nulla. Non dobbiamo saper nulla.
— Mi farai saper qualche cosa, subito?
— Se posso, Magda. Ma non so, se potrò. Non credo, di potere.
— Che sgomento! — ella proruppe, piano, fremendo, tremando.
— Sì, cara, è uno sgomento — egli replicò, questa volta, senza sorridere, ma contraendo nervosamente le dita della sua mano, che giaceva inerte.
E vi fu un silenzio, fra i due, presi e uniti nella medesima nera tristezza. Fu il fratello a rompere quel silenzio:
— Mario ti resta, ancora, è vero, Magda?
— Sì, per fortuna, mi resta: non so come, ma resta ancora — e guardava intorno a sè, con quel suo ricercare incerto, che indicava la confusione del suo animo innamorato.
— Speriamo che non te lo portino via, tanto presto, Magda — egli cercò di racconsolarla.
— Chi sa, Camillo! Non so niente. Spero.... spero! Che farò io, mai, senza te, senza lui?
— Sei buona e devi esser paziente: e dalla pazienza, ti verrà il coraggio di vivere — le disse gravemente e dolcemente, il fratello. Essa lo guardò, come a una fonte di conforto, annuì col capo chino. Tacquero, di nuovo, insieme. Dal solotto, arrivò un suono debole di pianoforte e qualche suono leggiero di voce muliebre. Ambedue, si scossero.
— Chi vi è di là, Magda?—domandò il fratello, in un tono, ove sorgeva una ira improvvisa.
— Vi è Mario: solamente Mario.... — ella disse, confusa. — Era venuto anche lui, a salutarti.
— Ma chi suona? Chi canta? Barberina, è vero, canta? —egli proruppe, levandosi, seguendo l’impulso della sua collera.
— Sì, è Barberina che canta — ella rispose, timidamente.
— Stassera, canta: proprio stassera! — e le parole fischiarono, fra i denti stretti.
Il tenue ritornello, nella tenue voce, arrivava, fra i due, che, adesso erano vicini, ritti, uno accanto all’altro.
— Che le debbo fare, Magda, che le debbo fare, a costei, che canta stassera? — E nella domanda violenta, palpitava, anche, come una disperazione dell’impotenza a punire la indifferente.
— Niente, Camillo, le devi fare — gli disse, con una certa forza, la sorella. — Barberina è così: è stata sempre così: l’abbiamo sempre vista così. E leggiera, è spensierata, Camillo, ma, forse, è buona. Forse!
— Canta, Magda, canta! — egli esclamò, dolorosamente.
— La chanson de Barberine — disse, come a sè stessa, Magda Falcone. — E la dice a mio marito — soggiunse, per sè stessa.
— Che hai detto, sorella mia?
— Il titolo di quello che canta, sempre, tua moglie, da un mese, Camillo: La chanson de Barberine, di de Musset!....
— Senza cuore, senza cuore — egli proclamò, tetro.
— L’ha scoverta per l’occasione.... Mario gliel’ha cercata, nei magazzini di musica e gliel’ha portata. È molto carina: è di Mario Costa. Comincia così: Beau chevalter, qui partez pour la guerre!...
— Senza cuore! — egli replicò, ancora nascondendosi il viso fra le mani.
— È così, Barberina — insistette, di nuovo, seria, grave, la sorella. — È tanto diversa, da me, da te. Noi non la comprendiamo. Ella non ci comprende. Chi sa mai che pensa, che sente, così differente da me, da te! Stassera, canta: forse, domattina, quando tu la lascerai, piangerà: e forse, sarà sincera, nel pianto come nel canto. Forse sarà molto infelice, nella tua lontananza: forse tremerà di ogni tuo rischio, Camillo.
— Tu credi a tutto quello che dici, Magda? — chiese, ansiosamente, il fratello. — Non lo dici per illuderti? Non lo dici per placarmi?
— Crediamo sempre al bene, Camillo — disse la sorella, senza rispondere direttamente.
— Dimmi, Magda, tu non la lascerai, Barberina, quando io non vi sarò, libera, alla sua frivolezza, al suo capriccio?
— Essa non mi ama, Camillo: ma, per te, non la lascerò.
— Tu me lo prometti, sorella cara?
— Te lo prometto, Camillo.
— Se Barberina, soffre, come tu dici, tu la consolerai?
— Quanto l’ami — disse Magda Falcone, con un pallido sorriso. — Ebbene, sì, se soffre, io cercherò di consolarla. Cercherò, Camillo, poiché domani, io potrò essere precipitata nella solitudine e nel dolore, tu lo hai dimenticato....
— Egoista, egoista che sono! — egli gridò. — Povera sorella mia, Magda cara, santa sorella mia, Dio protegga colui che tu adori!
— Dio protegga Mario e te, fratello! — ella gridò.
E si strinsero nelle braccia, in un saluto, in una invocazione, in una preghiera.
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Davanti alla lucida spera, ritta, con le braccia levate e nude, che avevano fatto ricadere indietro le larghe maniche del suo vistoso kimono, Barberina aveva disciolto dalle pettinine e dalle forcinelle, i capelli bruni che le formavano un casco sulla piccola testa aggraziata: e con una molle spazzola, li lisciava, per intrecciarli, poi, nella treccia della sua acconciatura notturna. Il kimono, tutto ricamato a fiori dell’Estremo Oriente, si schiudeva, davanti e scovriva i piedini nelle pantofoline azzurre, fini ed eleganti, nelle calze di seta carnicina. Barberina si era tolto il filo di perle dal collo e lo aveva deposto sulla toilette, in una coppa di cristallo, si era tolti gli anelli e li aveva deposti, ugualmente: il suo collo era nudo e sulla mano sinistra, sull’anulare, non vi era che il piccolo cerchio di oro della fede matrimoniale. Si guardò, un’ultima volta, ella, nello specchio: si salutò con un sorriso e si volse verso suo marito, Camillo Moles, che era seduto, immoto e silente, in una poltrona, dall’altro lato del letto coniugale.
— Camillo, non si va a letto? Non sei stanco? Non hai sonno? — ella chiese, dall’altra sponda del letto, ove erano rimboccate le fini lenzuola e le coltri seriche, dischiuse al sonno.
— Non sono stanco. Non ho sonno, Barberina.
— Ma devi levarti presto, domattina. A che ora, è il tuo treno?
— Alle sette.
— Vedi bene, così presto, Camillo, è una levataccia!
Tutto questo era stato detto, da lei, con una naturalezza gentile: e le risposte di lui erano state incolori e monotone, senza che egli si volgesse a lei. Allora, Barberina attraversò la camera coniugale e si accostò al marito, sogguardandolo: e le sovracciglia nere e sottili si stringevano, forse, sovra un pensiero molesto.
— Io vengo, con te, alla stazione, Camillo — ella dichiarò.
— No, Barberina.
— Ma sicuro, che vengo!
— No, tu non vieni.
— Non mi vuoi, Camillo? Perchè non mi vuoi?
— Non è cosa di donna, Berberina.
— Altre donne vi saranno, molte altre per i loro figli, per i loro mariti! — ella esclamò, già turbata.
— Non so. Non credo. Tu intanto, non vi sarai — egli dichiarò, con una fermezza e con una freddezza, che agitarono sempre più la donna.
— Sei cattivo, cattivissimo, non mi vuoi! — ella esclamò, ancora, inquietissima. — E dove ti saluterò, dove ti abbraccerò, dove ti bacerò, Camillo mio?
E gli si buttò addosso, tentò di abbracciarlo, tentò di baciarlo. Con mano pronta, ma con gesto garbato, egli glielo impedì.
— Mi saluterai qui, in camera nostra, mi abbraccerai e bacerai qui, Barberina — egli le disse, sempre calmo, ma freddo. — Credi, è meglio.
— È meglio?
— La gente non deve vedere: la gente non deve ridere — egli mormorò.
— Camillo, la gente ride, quando una donna piange? — ella osservò, non dominando più la sua agitazione.
— Piangere? Non si piange — egli disse, guardando in aria, enigmaticamente. — E se si piange, la gente ride, te lo assicuro.
Irritatissima innanzi alla gelida insistenza del marito, ella si morse le labbra, senza dire altro. Dopo un momento, Camillo Moles levò gli occhi, sulla moglie, che era sempre ritta innanzi a lui, col kimono che, ora, le nascondeva i piedi e le gambe, mentre le lunghe e larghe maniche cadenti, celavano le braccia e le mani.
— Che cantavi, un’ora fa, Barberina? — egli le domandò, con un tono indifferente.
— Cantavo? Come cantavo? Quando cantavo? — ella balbettò, improvvisamente scossa.
— In salotto cantavi, un’ora fa. Ti abbiamo udita, Magda ed io, che eravamo nello studio... Cantavi, amica mia... che cantavi?
— Cantavo... così... per distrarmi — ella mormorò. — Per distrarre Mario... Una canzone triste...
— E come si chiama questa canzone? — egli insistette, con un riso ironico, oramai, amarissimo.
— La chanson de Barberine — ella rispose, imbronciata, a capo basso.
— Porta il tuo nome? Ben trovata, cara! Potrai cantarla molto, durante la mia assenza — e la sua voce stridette, come una lima.
— Camillo, basta! — ella gridò, in collera;
— No, Barberina, non basta — egli rispose, quieto, serio. — Poiché, domattina, tu sarai a veglia e sonno, quando io partirò, vuoi ascoltarmi un poco, adesso? È necessario che ti dica qualche cosa, lasciandoti per molto tempo... forse per sempre...
— Camillo, tu mi spezzi il cuore! — implorò Barberina.
— Non parlare così; non è necessario — egli continuò, serio. — Barberina, sai che ti ho sempre voluto molto bene, troppo bene, forse; troppo bene, certamente, perchè quando mi sono accorto della immensa differenza, fra il tuo carattere e il mio, avrei dovuto amarti meno, o non amarti più...
Ella lo ascoltava, attentamente, con la testina un po’ inclinata e la bella bocca fresca schiusa.
— Così spensierata... così leggiera, così frivola, Barberina — egli riprese, come parlando a se stesso. — E così pericolosa, nella tua frivolezza...
— Pericolosa! Ma questa frivola ti ha amato, ti ama, ti amerà sempre! — e gli gittò le braccia al collo.
Egli non si sottrasse all’abbraccio e al bacio, baciò sua moglie; ma se ne disciolse, lentamente.
— Spero... spero che tu mi abbia amato — egli disse, pensoso, già mostrante tutta la sua tristezza.
— Ma non lo credi? Perchè non lo credi?
— Non so, Barberina... non so. La tua condotta lo sai, mi offende da anni...
— Che ti ho fatto? Che ti ho fatto? Io non ti ho fatto nulla!
— Nulla, Barberina, nulla? Ogni giorno, tu mi hai offeso, un poco o molto, facendoti corteggiare da questo, da quello....
— Non è colpa mia! — ella protestò. — E colpa loro!
— Accettando questa corte sotto i miei occhi, portandomi in casa questi corteggiatori, infliggendomeli e io dovendomeli sopportare, io, tuo marito....
— Camillo!
— .... lo, uomo d’onore, io, figliuolo di una donna onesta, io, fratello di una onesta donna..., — e già tremava tutto di collera e di dolore.
— Camillo, Camillo!
— Che hai fatto, tu, Barberina, del mio nome, della mia pace, del mio onore? Dove hai gittato tutto questo, che era l’unico mio tesoro? In quale fogna di morboso capriccio o di vizio? — E la sua collera faceva spavento.
— Camillo, io non ho avuto amanti!
— Chi ti crede? Chi ti crede?
— Camillo, ti giuro io non ho avuto amanti!
— Taci, non giurare, non spergiurare!
— Per tutti i miei morti, Camillo, io non ho avuto amanti! — E la donna levò le braccia nude, in alto, mentre il grande grido riempiva la stanza del suo spergiuro.
Fosco, cupo, Camillo Moles, guardava il pavimento; e le sue mani, sui bracciuoli della poltrona, sembravano esangui.
— .... perchè ti accuso, io? — egli vaneggiò, come se parlasse a sè stesso. — Sono stato, con te, non solo debole, non solo fiacco, ma vile, sì, vile... Non ho mai voluto conoscere tutta la verità, per non covrirti di fango... ho distolto gli occhi da quello che tutti, forse, vedevano chiaramente... ti ho trovato delle scuse... mi sono assunto dei torti immaginari... sono stato il marito che non è cieco e sembra cieco, e di cui tutti ridono... sono stato il marito vile, quello che perdona sempre.
Vaneggiava l’uomo, mettendo a nudo la sua coscienza.
— ... perchè ti ho perdonato sempre? Perchè eri così incosciente... perchè, forse sei buona, come dice la mia santa sorella Magda... perchè fai il male senza comprenderlo, perchè sei troppo bella, troppo seducente e tutti ti cercano, ti desiderano, ti vogliono... e tu non sai resistere alla tua vanità... o al desiderio altrui...
— Solo al tuo, solo al tuo! — ella disse, con la sua voce carica di voluttà, sedendogli sulle ginocchia, attaccandosi a lui, baciandolo sulla bocca.
Egli impallidì, come se tutto il sangue gli andasse al cuore e la tenne a sè stretta, piccola e morbida, come si era fatta; l’odore di quella carne giovanile, la freschezza di quelle labbra che lo baciavano, lungamente, ancora una volta, riconquistarono i sensi memori e dominarono il cuore fiacco dell’uomo.
— Camillo... Camillo... Camillo — diceva, con un soffio basso e ardente la donna, fra un bacio e l’altro. — Io non ti ho fatto nulla... io ti voglio bene, bene, bene... io sono buona...
— Sarai buona, Barberina, quando io sarò lontano, in rischio, in pericolo di morte...? — patteggiò, il misero uomo, vinto.
— Sì, sì, sì!
— Caccerai di casa quell’odioso spagnuolo?
— Lo caccerò, Camillo! Non m’importa niente di lui.
— Caccerai tutti gli altri? Io posso non tornare più, più mai... Barberina... — mormorò l’infelice — io posso morire, mentre tu mi tradisci...
— Camillo, nessuno verrà alla mia porta... Via, tutti... non sarò che la tua Barberina... la tua, sempre...
— Tu cantavi, un’ora fa, Barberina! — egli gridò, di nuovo, disperatamente.
— Camillo, perdonami!
— Cantavi; e io debbo partire, per uccidere o per morire! Terrore, orrore di questo mio infame destino!
— Perdono, perdono, perdono, a Barberina tua! E Camillo le perdonò, ancora una volta.
— Buona notte — la donna gli augurò, piano rilevandosi i capelli scompigliati, dopo la lunga e violenta ora di amore.
— Buona notte — rispose l’uomo, stanco, sfinito, esausto.
— Svegliami, sai, caro, domattina, non importa che sia presto... svegliami. Buona notte.
E mettendogli la testina sulla spalla, con la sua fresca guancia sul petto, la donna si addormentò subito, come sempre, dopo l’ora di amore; un respiro piccolo ed eguale, esciva dalle labbra rotonde, schiuse sui denti bianchi. Non dormiva Camillo Moles; tutto il suo corpo bruciava ancora del precipitoso calore dei sensi, e il sangue gli rombava, cupo, nelle orecchie; ed egli udiva il battito delle sue più piccole vene. Non dormiva. Lentamente, il suo pensiero che era naufragato nell’ora di amore, si risollevava dal fondo oscuro ove era sommerso, e si precisava, e lo riconduceva alla realtà di quell’ultima notte, alla realtà di quell’indomani, che gli era sopra. Tutto lo spasimo morale di cui soffriva, da che il fantasma della guerra gli era apparso, e che ogni giorno era sempre più diventato una cosa viva, minacciosa, sinistra, questo spasimo lo attanagliò ferocemente. Pesava la testa della donna, sulla sua spalla, sul suo petto; il peso, gli sembrava crescesse, non lo facesse più respirare. Si disgustò di quel contatto, di quella carne; con gesti cauti, tentò di liberarsene, a poco, a poco. Ella, nel sonno, si ritrasse, lo liberò, affondò la testa nell’origliere, senza svegliarsi; respiro calmo, eguale, di carne sazia e quieta. Camillo si era levato sull’origliere; il suo corpo si raffreddava; si allontanava il rombo del sangue; solo le guancie erano calde ancora e gli bruciavano gli occhi. Senza sonno, erano gli occhi, sempre spalancati sulle tenebre notturne; mentre quelli del suo spirito agitato vedevano, sì, vedevano la truce, feroce, devastante figura della guerra, con ruscelli, con torrenti, con fiumi di sangue, e le terre, e i campi, e le valli, coperte di uccisi, tutti giovani... Un profondo, lacerante sospiro, quasi una parola senza sillaba, di disperazione, parve gli squarciasse il petto, giunse sino alla dormiente, ne scosse il placido sonno.
— Che è, Camillo.... che è?
— Niente. Dormi.
Ella si voltò dall’altro lato; si riaddormentò. E dagli occhi brucianti di Camillo Moles sgorgarono lunghe e silenziose lacrime, discesero sulle calde guancie, gli bagnarono le mani congiunte sulle coltri. Solo, nella notte fonda, l’uomo piangeva di sdegno, di ribrezzo e di pietà, sul suo domani di sangue e di morte, invocando, da Dio, cui solamente in quell’istante tragico si dirigeva, la propria morte, subito, prima che la spettacolo atroce del sangue e della morte altrui, gli apparisse. Così, pregò confusamente, sino all’alba. Così salutò, bruscamente, la donna sonnolenta e balbettante: così si avviò solo, nella livida alba, sperando di morire, per non uccidere, sperando di morire per liberarsi.
Lesse quella lettera Loreta Leoni, con una perfetta
calmarla rilesse, la ripose nella sua busta, la tenne in mano, sogguardandola, ogni tanto. Seduta poco lontana da lei, sua madre, Carolina Leoni, aveva seguito ogni movimento della figliuola, senza nulla chiederle.
— Mamma, Carletto mi ha scritto.
— Oh! Non viene, questa sera?
— No, non viene. E neanche domani sera, mamma. Nessuna sera, più.
Parlava, Loreta, pacatamente; e nessuna espressione si delineava sul suo viso bello e impenetrabile.
— Come mai, Loreta? Che dici?
— Parte domattina, per il fronte, Carletto.
— Così, improvvisamente? È possibile?
— Non tanto improvvisamente, mamma. Sai che l’ordine si aspettava, da un giorno all’altro.
— Ed è venuto?
— Sì. È venuto. Oggi, per domattina.
— Oh Dio! — esclamò, angosciata, la madre.
Sempre quieta aveva parlato, la figliuola, senza che un muscolo della sua fisonomia indicasse la sua pena, mentre l’ingenuo dolore di Carolina si scorgeva nella faccia e si udiva nella voce tremula.
— Non sapevi, Loreta, tutto questo?
— Lo sapevo. Ho sempre saputo tutto, mamma.
— Figlia mia cara... — disse la madre, tendendole una mano, quasi per sostenerla, quasi per carezzarla. Ma Loreta non parve scorgere il tenero gesto.
— E egli non viene, Loreta, a prendere congedo?
— Non viene, mamma; preferisce non venire... — e, a un tratto, ella aggrottò le ciglia, e tutto fu oscuro, nel suo viso e nelle sue parole.
— E tu, figlia mia, e tu? — chiese ansiosa la madre.
— Preferisco, anche io — disse, seccamente, Loreta.
— Non vi saluterete, figlia mia?
— No — e volse, in là, la faccia.
— ... non soffrirete..., non soffrirete anche più, non congedandovi? — osservò, timidamente, la madre.
— È impossibile, mamma, soffrire più di quello che soffriamo — disse la figliuola, con un tono più insofferente che triste.
— Povera Loreta... povero Carletto — parlò, accorata, quasi fra sè, la madre.
Con un gesto ove entravano il dolore, la fierezza, e anche il fastidio, Loreta fece tacere sua madre. Costei chinò gli occhi. Tacque. Ognuna delle due donne, pur legate dal vincolo del sangue, conosceva la immensa distanza che separava i loro caratteri e i loro temperamenti; e ogni tanto, come quella sera, pur vivendo sotto lo stesso tetto, pur trascorrendo le ore, insieme, si straniavano, prese ognuna dai propri! pensieri, vinta, ognuna, dai proprii sentimenti, che non erano quelli dell’altra. Si straniavano; e talvolta per lunghi intervalli di silenzio, come in quella sera, ognuna dimenticava la presenza dell’altra. Qualche rara parola, molto rara, fu scambiata, fra loro; ed era su cose comuni e indifferenti; e non ebbe nessuna risonanza; e la madre e la figlia lasciarono cadere nel vuoto, queste parole inutili. Solo, verso il tardi, in cui si avvicinava il momento di separarsi, per ritirarsi, ognuna, nella propria stanza, al primo piano di quel grande villino, il cuore materno prese il sopravvento e crollando il capo, Carolina si volse alla figliuola:
— Passerai una cattiva notte, figliuola cara.
— Sì. — Loreta pronunziò, basso, questo monosillabo.
— Vuoi che venga a tenerti compagnia? — e una grande dolcezza era nella materna profferta.
— No, mamma.
— Lasciami venire, Loreta, poiché soffri... — insinuante, soavissima profferta materna.
— Madre, lasciami sola, poiché soffro — ribattè, subito, l’altera fanciulla.
— Loreta, Loreta...
— Tu non potresti nulla, per me — soggiunse, orgogliosamente, la figliuola. — E nessuno, oltre te.
Carolina Leoni non fece che guardare sua figlia. Ma nei suoi buoni occhi era tanta tristezza, che, l’altra soggiunse:
— Sono un’ingrata, mamma, lo so. Non posso essere che ingrata. Sopportami... sopportami...
-— Pregherò per te, Loreta, stanotte... per lui...
— Prega, sì, prega, poiché il Signore ti ascolta e ti ama, madre. E me e lui, non ci può amare.
Ma quando furono separate, a mezzanotte, e Carolina, rientrata nella sua camera, esalò, nelle orazioni, tutta la pena segreta di cui era penetrata la sua anima, pena venutale non solo dal pauroso tragico evento della guerra, ma da quell’eterno dissidio morale, fra lei e la sua unica figliuola, l’unico tesoro della sua vita di vedova, quando ebbe finito di pregare, a notte alta, il suo animo rimase inquieto. Aveva cercato di calmarsi, mettendo in ordine i suoi cassetti, consuetudine antica, venutale da sua madre, ma le sue mani, ogni tanto, si arrestavano, inerti, il suo pensiero diventava sempre più torbido e ansioso. Desiderava, fortemente, andare da sua figlia Loreta, che era laggiù, sola, nella sua stanza, in fondo all’appartamento; andare, e abbracciarla, e tenerla stretta al cuore, fino a che quel cuore acerrimo di fanciulla si spietrasse e si disciogliesse nelle lacrime. Ma non osava. Aveva promesso di lasciarla sola. Promesso: e intanto il suo sangue, la sua carne, la sua figliuola, pativa ed ella non poteva consolarla. Oltre questo, la teneva un oscuro sgomento, di non so quale oscuro pericolo. La povera donna credeva ai presentimenti; e si rammentava, che a ogni sua tristezza familiare, ella aveva sentito, prima, l’avanzarsi dei caso doloroso. Adesso, in quella notte di giugno, dal fondo del suo essere, saliva questa paura di un ignoto fatale, che la faceva tremare tutta; ogni tanto, ricominciava, macchinalmente, le sue orazioni, ma non poteva condurle a termine; ogni tanto tentava di placarsi, cominciando a svestirsi, per andare a letto, poiché era molto tardi, ma non continuava: fino a che, come se una voce glielo avesse imposto, escita da una bocca senza labbra, come se una mano invisibile l’avesse spinta, ella si slanciò verso il balcone chiuso della sua stanza, che dava su via Abruzzi, lo schiuse bruscamente, si affacciò e vide. Sì, vide, laggiù, all’angolo della via, il lume rosso di un’automobile ferma, e udì stridere il cancello della villa, e una figura femminile, vestita di nero, escirne, traversare la via, rapidissimamente, entrare nell’automobile già rombante, e sparire, sparire, mentre solo allora Carolina Leoni ritrovò la forza di gridare, tendendo le braccia verso la strada deserta, nell’ombra notturna, nel silenzio notturno.
— Loreta, Loreta, Loreta!
Vacillò, roteò, su sè stessa, lentamente, come in preda a una lenta vertigine, cadde a terra, semiviva, come una povera piccola forma umana. Nè seppe, Carolina Leoni, quando venne riprendendo i sensi, ma non le forze, giacente sul tappeto della sua stanza, quanto tempo della notte fosse trascorso. Poiché il balcone era restato aperto ed ella giaceva quasi sulla soglia, l’aria frizzante aveva rianimato la povera donna e la conoscenza le ritornava e, con essa, risaliva al sommo della sua anima travagliata, la sua acuta pena. Pensò che tutto quanto era accaduto, fosse un’allucinazione della sua fantasia, nutrita di angoscia: e che la voce misteriosa, la spinta ignota, il balcone aperto, l’automobile fermo, in aspettativa, e l’alta, nera figura di donna, fuggente dal cancello schiuso verso l’automobile, e la sparizione della persona e del veicolo, tutto, tutto fosse creato dal suo travaglio e dalla sua immaginazione. No, non poteva, essa, Loreta Leoni, la sua altiera figlia, sempre ammantata di superbia, sempre fasciata di una invisibile corazza, che la difendeva da ogni contatto volgare, sempre distante da ogni peccato comune e da ogni comune debolezza, una creatura d’orgoglio, sì, ma incontaminata, ma intatta, non aveva potuto fuggire dal tetto familiare, di notte, ingannando sua madre, mentendo a sua madre, andando, sola, chi sa dove... chi sa da chi... E, qui, straziata, la madre si fermava, non andava più oltre, non pensava al dove, non pensava al chi, non pensava al che cosa, ma ricominciava, lì, per terra, a rifare la figura nobile e pura di sua figlia, quale essa l’aveva vista crescere e fiorire, puro e nobile fiore di sua casa, unico fiore della sua grama vita... Ah certo, certo, era stato un sogno atroce, un sogno turpe, che le era passato innanzi, mostrandole la fuga di Loreta, nella notte alta: e bastava che ella si levasse di terra e andasse alla stanza di Loreta, per trovare la figliuola, il suo fiore di nobiltà e di purezza, a cui ella non aveva dato esempio che di virtù, nella lunga e casta vedovanza, per trovarla, levata o coricata, dormiente o insonne, là, nella sua camera di fanciulla, nella sua custodia, ove, tante volte, l’aveva vista dormire, il più innocente fra i sonni...
Provò a sollevarsi di terra: ma tutte le ossa le dolevano: una singolare debolezza aveva disperso le sue forze fisiche: sospirò, attese; e il suo spirito e gli occhi della sua mente si volgevano, nell’attesa, verso quella camera di Loreta, con un sempre più acuto desiderio di ritrovare la sua creatura, il suo purissimo gioiello, il suo purissimo fiore. Potette alzarsi, infine: e chiuse il balcone donde aveva visto o, forse, pensava, aveva sognato la fulminea scena: e con passo incerto, affranta da non so quale enorme fatica, traversò l’appartamento, di cui, andava, man mano, accendendo la luce elettrica: ma come si avvicinava alla camera di Loreta, il suo passo si rallentava: e si dileguava, stranamente, dal suo animo, la certezza, prima, la speranza, poi, di ritrovare la sua figliuola, insonne o dormiente.
Così, quando vi fu arrivata e ne scorse la porta spalancata e la luce illuminante la camera vuota, Carolina Leoni, non ebbe un sussulto, non diede un grido, non versò una lacrima. Ella si lasciò penetrare e invadere da un dolore, mille volte più forte di quello provato sul balcone di via Abruzzi: ma non oppose resistenza: non chiese soccorso: non chiamò alcuno: non invocò, nel segreto del suo animo pervaso da un dolore così di lei più forte, nessun potere divino o umano. Di fronte alla porta aperta della camera di Loreta, cominciava la scala di legno scolpito, che conduceva al pianterreno e da cui era discesa, per fuggire, Loreta: un tappeto rosso e morbido ne covriva gli scalini di legno. Carolina si sedette sul primo scalino e appoggiò la testa alla balaustra di legno, a piloni, che cingeva la scala. Colà, raggricchiata come una inferma, come una mendica, quasi diminuita, stette, immota, fra la stanza vuota e la scala donde era fuggita Loreta.
Tutta la notte trascorse, così, mentre Carolina Leoni, sedeva, lì confitta, raccolte sempre più in sè le membra tremanti di freddo, con una sonnolenza che le scendeva sul capo e sul corpo, e il capo le si abbassava sul petto, scotendosi ogni tanto, trasalendo, sino a che i primi lividi chiarori dell’alba si diffusero nell’ombra della casa silente. Fu allora che Carolina udì, ancora, come un colpo battere sul suo cuore tramortito e ogni nebbia sparire dalla sua mente.
Un’ombra nera ascendeva le scale: pendeva dalle sue alte spalle la serica cappa nera che, quasi, si trascinava sul tappeto: e la sciarpa nera che ne avvolgeva la testa, era sciolta, sui capelli disfatti e sul collo. Rientrava, Loreta, con un passo che appena sfiorava il tappeto: e guardava innanzi a sè, verso la meta, verso la sua stanza, dalla porta aperta e dalla luce accesa. Non si accorse, Loreta, di colei che era seduta sullo scalino, come una pezzente alla porta di una chiesa: i grandi occhi della fanciulla sembravano quelli di una sonnambula. Udì, però, una fioca voce chiamarla a nome, da terra, e una mano fermarle il lembo del cadente mantello:
— Loreta, Loreta... — fu la voce materna.
Si gittò indietro, bruscamente, la figliuola, come se le fosse apparso uno spettro: e il suo viso marmoreo, impallidì e arrossì, ai crescenti chiarori dell’alba. Si curvò, Loreta, verso sua madre e con una mano le toccò i capelli discinti: un lieve tocco di mano bruciante, niente altro. Carezza, saluto? Poi, passò oltre, Loreta, senza dir motto: entrò nella sua stanza: ne rinchiuse pianamente la porta. Anche la luce della lampada fu da lei spenta. E la madre, infine, nascose il suo viso fra le mani e potette sciogliersi in lacrime, colà, sullo scalino, come una mendicante.
— Pupo mio, pupetto mio, su, su, fa una risatina a papà tuo — e curvo sulla culla di legno, che era collocata presso il gran letto coniugale, Cesare Pietrangeli solleticò delicatamente, col suo grosso indice, il mento del suo figliuoletto.
Non solo aliò, sul rotondo viso dell’infante, il lieve, sparente sorriso puerile: ma il piccino agitò i piedini che erano già liberi delle fasce, nei calzerotti, e tese le manine socchiuse, al padre.
— Sempre mi conosce, sempre mi riconosce il pupetto mio... E vieni, vieni, su, a papà tuo, Augustarello mio...
Con le larghe mani rossastre egli sollevò, su, dalla culla, il figliuoletto, se lo mise in collo ed esci dalla stanza da letto. Mariuccia, sua moglie, lo segui, passo, passo, in silenzio, con la sua cera fra noiata e triste. La testina senza cuffia di Augustarello, con un ciuffetto di capelli scuri sulla fronte un po’ bassa, era poggiata al collo robusto del giornalaio: e così, dappresso, i due visi, quello del padre, largo viso, acceso, dagli occhi a fior di testa, dalle labbra grosse come gonfie, sotto i mustacchi tagliati corti e il viso del bimbetto, tondo tondo, già molto colorito, con un nasetto un po’ rincagnato e una boccuccia, schiusa un po’ di sghimbescio, questi due visi si rassomigliavano molto. Nella modesta stanza da pranzo, che era quella ove si tratteneva la famiglia Pietrangeli, erano ancora raccolti gli altri figliuoli, malgrado l’ora avanzata della notte: Cesare Pietrangeli, sempre con il bimbo in collo, si sedette presso la tavola da pranzo, che era stata sparecchiata da un po’: Mariuccia, sua moglie, pallida, alta, dai neri capelli lucidi, dagli occhi di quella tinta bruna e opaca, che rende così attraenti le popolane romane, con quella sua espressione accigliata di mittente, appena appena raggentilita, gli si era seduta, alle spalle a capo basso. E i tre figliuoli, la primogenita, Bettina, la quindicenne, era seduta presso la tavola, un po’ abbandonato il corpo, reggendo la biondissima testa con una mano, mentre le sue trasparenti palpebre arrossite, dicevano il suo lungo pianto; Cecchino, il secondo, si teneva in disparte, in un angolo, con le mani nelle tasche dei pantaloni, come ammusonito, simile nei lineamenti, anche lui, a suo padre, ma in cambio della franchezza e della bonarietà, che spirava dal grosso faccione paterno, con qualche cosa di cattivo e forse di sinistro, nella fronte bassa, divorata dai capelli bruni e nel mento sporgente. E la più piccola, Bicetta, una brunetta un po’ smorta, dalla treccine nere, annodate di rosso che le venivano avanti, dal visino fine, come scorse il padre che stringeva Augustarello, fra le braccia, gli corse vicino, si attaccò alle sue ginocchia e gli disse:
— Papà, papà mio, ma tu vuoi bene a Bicetta tua? Le vorrai sempre bene, a Biciarella?
— O figliarella cara, cara! — esclamò, con poca voce, il padre. E liberato un braccio, reggendo con l’altro il poppante, cinse il collo di Bicetta e se la strinse al fianco.
Muta e sempre più cupa Mariuocia Pietrangeli stringeva la bocca, come a reprimersi; Bettina lasciava scorrere sulle bianchissime gote, le sue lacrime, senza parole e senza singulti.
— E tu Bicetta, gli vuoi bene, al pupo? Lo vedi, quanto è carino il tuo fratellino?
— Fammelo baciare: lo voglio baciare, papà, papà... — strepitò Bicetta, ergendosi sui piedi, tendendo le mani e il viso.
Cesare Pietrangeli curvò cautamente l’infante, verso la sorellina e Bicetta baciò Augustarello sulle due guancette. Il bimbo mugolò lietamente e agitò le manine socchiuse.
— Dammelo, papà, dammelo in braccio, il pupo! — strillò la bimba, tutta rosea di tenerezza materna.
— Eh no, no, Bicetta, sei troppo piccola, ancora.... — scosse la testa, il padre. — Dopo, dopo... più tardi, figlia mia.
— Cesare, dammi il pupo — si chinò, la moglie, verso il manto. — Forse vuol dormire, Augustarello.
— Sì cara, tieni prendilo.... Però se non si addorme, me lo ridai, Mariuccia...
La donna prese l’infante e se lo coricò, fra le braccia: poi, si mise a passeggiare, piano, piano, in fondo alla sala da pranzo. Cesare Pietrangeli se ne stava muto: la sua larga mano rossastra, sull’incerata nera della tavola da pranzo, segnava dei piccoli gesti vaghi, con le dita. La sua primogenita, Bettina, la biondissima, ruppe il silenzio:
— Papà? papà?
— Che vuoi, Bettina?
— Hai pensato, papà mio, a quello che ti ho proposto in questi giorni? — e cercava di rendere più ferma la sua voce trepida.
— Figliuola mia.... — rispose il padre, incerto, perplesso.
— Non hai fiducia in me, papà? Io sono stata molto attenta, a te, quando ti ho tenuto compagnia nel chiosco: io ho imparato da te.... — e le si affannava, nell’ansietà, il respiro. — Io ci so stare nel chiosco, papà, te lo assicuro! E li so fare i conti, dei giornali....
— Sei così giovane, Bettina....
— Ho compiuto a gennaio quindici anni, papà.... tante altre ragazze lavorano, alla mia età.... Che vergogna, per me, papà mio, te alla guerra, il chiosco dei giornali chiuso, e io in casa, a non far nulla.... Scorno, scorno, per me....
E Bettina, scoppiando in lacrime convulse, batteva con la bionda testa, sulla lucida tela incerata della tavola da pranzo.
— Bettina, Bettina... — balbettò il povero padre, soffocando di emozione, posando la mano paterna sulla testa della sua figliuola.
— Consenti, papà, consenti? — ella domandò fra il pianto.
— Acconsento:... ma come farai, sola, a quel duro mestiere?
— Non sola! Tu mi lasci Pippo, è vero, il facchino, che ha cinquant’anni, che non andrà al fronte, e che andrà rilevando i giornali, nelle tipografie...
— Sì, Pippo lo seguiterà a fare, col suo ragazzo... ma è ubbriacone, Bettina, sta in guardia...
— Lo sorveglierò, sii tranquillo... E Cecchino, qui, è vero, mi aiuterà anch’esso, andrà in giro, nelle case dei buoni clienti... Cecchino, parla! — ella disse, forte al fratello.
— Cecchino, così svogliato, così birbone... — borbottò, scontento, il padre, a viso accigliato.
— No, no, papà, Cecchino ha promesso, a me, di esser buono, di lavorare... poichè tu sei in guerra... e ci lasci, papà nostro... Cecchino, dillo a papà.
Il figliuolo si avanzò, verso il padre, lentamente, lo guardò fiso negli occhi, gli disse, sottovoce:
— Ho promesso a Bettina nostra: prometto anche a te...
— E ti voglio credere — disse il padre, fissandolo seriamente negli occhi, attirandolo a sè, abbracciandolo,
Fu un moto spontaneo e precipitoso, fra i tre ragazzi: gli si strinsero addosso, lo abbracciarono, lo baciarono, convulsamente, formarono, su lui, un grappolo umano, mentre a lui, Cesare Pietrangeli, grasso, largo, acceso, tremavano le mani, e non potea dire, con poca voce, che questo:
— Figli miei... figli cari di papà vostro...
In fondo alla stanza, Mariuccia andava e veniva, piano, tenendo coricato il pupo Augustarello sulle braccia, cantandogli una ninna nanna gutturale, a bocca chiusa...
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Sul cassettone, dal piano di marmo bianco, una lampada votiva era accesa innanzi a una statuetta della Madonna del Buon Consiglio. Curvando il volto verso quella piccola luce, Cesare sogguardava, con attenzione, in certe carte, in certi documenti, in certi libretti, che aveva tirato fuori dal cassettone. Li leggeva attentamente: li rileggeva: e poi li deponeva, un sull’altro, accanto a sè, restando pensoso. Nella sua culla, su cui era stata distesa la lieve tendina di mussola bianca, l’infante dormiva. Accanto, sovra una sedia, addossata al muro, stava seduta Mariuccia, tutta raccolta in sè, con le mani sotto il grembiule:
— Mariuccia?
— Cesare?
— Che fai, moglie mia?
— Dico il rosario.
— Non hai sonno?
— No. E neppure tu.
— Neppure io. Ho da mettere in ordine queste carte... per consegnartele...
— Ma non è che parti, domattina? — ella domandò, piano, ma fremente di angoscia.
— Alle sei, domattina, debbo essere al Distretto... — disse lui, fosco. — E mi terranno... e non ci potrò tornare, più, in casa. Mariuccia... Tanto non ci tornerei, non avrei coraggio... con questi ragazzi miei... E poi, e poi, mi manderanno in su, a crepare... Gente infame!
— Cesare!
— Possano morire ammazzati loro, che mi levano di casa mia, dai figli miei... Ammazzati, tutti — bestemmiò, in uno scoppio del suo represso furore, il popolano.
— Cesare, Cesare, non bestemmiare, per carità, Dio ti punisce! — ella esclamò, spaventata.
— E più punito di così ho da essere, Mariuccia? — gridò l’uomo, alzando le pugna chiuse al cielo.
— Cesare, Cesare, pensa al pupo, pensa ad Augustarello...
— Ma lo sai, moglie mia, che per lui mi dispero, per questa cara creatura di Dio! — e la sua collera si scioglieva in dolore. — Ah quanto te lo raccomando, sto pupo, tienilo in core, non lo lasciare, mai, Mariuccia, se è vero che mi vuoi bene...
— Non dubitare, non dubitare, Cesare...
— Lo vedi, Mariuccia, che Bettina e Cecchino andranno a lavorare, buoni figli miei, e anche Bicetta, così piccola, è brava, lo so, in casa... Ma questo Augustarello, così piccolo, così innocente, senza il suo papà, avrà bisogno che la mamma sua se lo tenga stretto stretto, al suo cuore...
Adesso, agitatissimo, Cesare Pietrangeli andava e veniva, col suo passo pesante: Mariuccia sogguardava il marito e la culla, e ogni tanto faceva un gesto, per calmarlo, temendo si svegliasse il bimbo. 11 marito si fermò, un poco, presso il letto coniugale; taceva, ma scuoteva il grosso capo, come se nulla riescisse a vincere il tumulto del suo spirito, fra il cruccio e lo sdegno. Ogni tanto levava il pugno chiuso, contro un nemico assente. E ogni tanto, parlava a sè, concitatamente o lentamente: la donna ascoltava, a capo chino, a spalle alte, con qualche gesto, ogni tanto, anch’essa, gesto d’inevitabilità, gesto di rassegnazione.
— Io l’ho fatto, al mio tempo, il servizio militare... Sono stato un buon soldato... là sta il libretto di congedo... Ma ora è un’altra cosa, è guerra... ora s’ha da uccidere l’austriaco. Mariuccia, perchè debbo uccidere l’austriaco? Dillo, dillo!
— Se no, l’austriaco ti uccide, Cesare...
— E perchè, mi uccide? Che gli ho fatto, a costui? Che mi ha fatto? Non lo conosco: non mi conosce...
— Noi, poveretti, non si capisce niente: noi, non si sa niente — mormorò la donna, inconscia, vagamente.
— Pecore al macello siamo: carne da cannone. Non si capisce niente: e niente si deve sapere o capire — soggiunse, cupamente, l’uomo, guardandosi intorno, con i suoi grossi occhi sporgenti, carichi di dolore e di collera.
Tacquero, i due, oppressi, abbattuti. Egli si distaccò dal letto coniugale e prese, dal cassettone, le carte che vi aveva esaminate e riunite. Poi, si venne a sedere, sovra un’altra sedia presso sua moglie. E, parlandole, sottovoce, le metteva fra le mani, ad una ad una, quelle carte.
— Mariuccia cara, io credo che potrete tirare avanti, con questi introiti del chiosco, se Bettina e Cecchino sanno fare. Sapranno fare! Però, tu cerca di vivere con la massima economia: non vi è più il tuo uomo, moglie cara, che pensava sempre a farti viver bene...
— Cesare, Cesare... — e si comprimeva la bocca, per non fare scoppiare i singulti.
— Economia, economia! Se ti mancasse denaro, eccoti il libretto della Cassa di Risparmio: vi sono milletrecento lire. Per carità, Mariuccia, toccale solo se è necessario! La pigione di casa è pagata per altri quattro mesi, ecco la ricevuta... Dicono che vi sarà un decreto, per pagare la metà o niente, delle piccole pigioni... Speriamo! Io non posso aiutarti, Mariuccta, dal fronte, perchè sono un misero fante... niente posso fare...
— Ma Cesare, porta via qualche cosa di denaro! Tu patirai: perchè devi patire?
— E debbo patire Mariuccia, purché voi abbiate quel che vi serve... Non un soldo, Mariuccia, porterò via.
— Oh, oh, oh! — si lagnò lei, quasi affogata dalla pena.
— Andiamo, andiamo, moglie mia — egli disse, tutto tremante di emozione, prendendole le mani. — Se gli affari vanno bene, mi manderete qualche lira...
— Sì, sì, sì!
— O ve la manderò io, chi sa mai, tutto può accadere! — e un riso stentato, gli si smorzò sulle labbra.
— Ecco questo fascetto di carte, conservale — egli soggiunse, poi — fede di matrimonio, fede di nascita dei figliuoli... Bada, ti possono servire, bada! Non si sa mai... bisogna esser pronti a tutto...
— Cesare, Cesare! — ella gridò, come se si fosse sciolto il nodo che l’affogava, buttandogli sul petto e lasciando, infine, sgorgare tutte le sue lacrime.
— Zitto, zitto, Mariuccia, il pupo dorme, non lo svegliare — e seguitava a baciarla pianamente, sui capelli, sulla fronte, sulle guancie molli di pianto. — Zitto, che non accadrà nulla di male, Iddio avrà pietà di noi, perchè siamo buoni... Zitto, non ci facciamo il malaugurio!
— Oh! oh! oh! — si lamentava la donna, scuotendo il capo, sotto le carezze del marito.
— ... Mariuccia, ma tu devi seguitare a esser buona, devi seguitare a volermi bene, come se io fossi presente... tu non ti devi scordare che sei la mia moglie... e che il marito tuo, non ti ha mai fatto mancar niente... — E l’uomo parlava confusamente, rocamente, sempre tenendola stretta a sè, perchè ella era convulsa.
— Sì... sì... sì... — rispondeva la donna, sordamente, sul petto largo del marito, nelle braccia del marito.
— Mariuccia cara... chi sa quando ci rivedremo... chi sa quando ci riabbracceremo... — e palpitavano, nelle semplici parole del popolano, tutto il suo semplice amore e la sua cocente disperazione.
E la breve ora di amore, fu piena di una appassionata tenerezza e di una disperazione cocente.
Nella notte smorente, era tramontato l’arco tagliente di una fredda luce lattea della luna: il gran cielo di Roma che si curvava sulle larghe vie venienti dalla stazione, sulle Terme di Diocleziano, sui piccoli giardini roridi di rugiada, sulla fontana cantante dell’Esedra, dai nudi, neri, lucidi corpi muliebri, sulle pietre di Roma, che l’umidità notturna ancora bagnava, il cielo di Roma si chiariva dei primi impercettibili albori, che salivano dall’orizzonte al centro: e vi s’illanguidivano nel cielo, vi si smarrivano, le ultime stelle. Una piccola ombra apparve, sfiorando la siepe di uno dei giardini: e dal bavero alzato contro l’aria prima pungente, dal cappello abbassato sulla fronte, si scorgeva solo un piccolo viso pallido e gentile, occhi bassi, labbra strette, mani nascoste dentro il nero terraiuolo talare, stretto alla cintura. 11 prete si fermò, un momento: e, poi, sparve da una porta laterale, quasi nascosta, di Santa Maria degli Angeli, dietro un folto boschetto di alberi del giardino pubblico. Attraversò, il sacerdote, un lungo corridoio gelido, umido, senza luce, che seguiva in parallelo la chiesa; due volte, a sinistra, da una grata fitta, i suoi occhi si volsero nella imponente chiesa, deserta, oscura, e due volte il prete si segnò, trascorrendo oltre, giungendo infine alla larga e alta porta della sacristia, i cui battenti di legno nero intagliato, erano socchiusi. Con un gesto familiare, il prete schiuse un battente, che si mosse lentamente e penetrò nella sacristia di Santa Maria degli Angeli, così vasta che sembrava, quasi una chiesa. Era rivestita di legno nero intagliato a grandi pannelli, sin quasi al soffitto, mentre, in basso, una serie di armadii ne formava il fondo, e vi era disposto, innanzi, un grande e lungo banco: mentre, sui lati, nel legno, eran disposti degli stalli, a sedere: sui pannelli, qua e là, erano sospesi dei quadri antichissimi, di una tinta bruna, ove nulla si potea distinguere, in quella penombra e tutto il soffitto era pinto, in una serie di segmenti, intorno a un quadro ovale centrale. Il prete dette un’occhiata, a diritta e a sinistra, la sacristia pareva del tutto deserta. Ma non era. In fondo, dietro il banco ove si deponevano per indossarli e, dopo, per riporli, i paramenti sacri, un’ombra umana si muoveva, andando da un armadio aperto, al banco. Una voce sottile salutò:
— Buongiorno, don Lanfranchi. Sia lodato Gesù e Maria!
— Oggi e sempre! Buongiorno, Franceschino — disse il piccolo prete, che, a capo scoperto, si era segnato ancora una volta.
Franceschino, il sagrestano, un uomo alto e magro, vestito tutto di nero, con una cravatta bianca intorno al collo esile, e delle lunghe mani agili, abituate a toccare le sacre vesti e tutti gli arnesi della cristiana fede, si accostò pian piano al giovine sacerdote.
— Avete fatto assai presto, don Lanfranchi: ci vorrà un’ora per chiamare la prima messa.
— Sì... ho fatto presto — rispose, pensoso, don Giulio Lanfranchi. — Credo di avere sbagliata l’ora... Ma voi, Franceschino, avete fatto più presto di me...
— Oh io, don Lanfranchi, abito qui dietro... E quando non posso dormire, a casa, me ne vengo a chiesa... Questa è la vera casa mia...
— Anche io, talvolta, non posso dormire la notte... — disse il prete. — Stanotte, per esempio..., ma non abito neppure vicino, a San Camillo... In chiesa non vi è nessuno, Franceschino?
— Nessuno: ma vedrete, vedrete, fra mezz’ora, per questa prima messa che si dedica a chi parte, a chi resta solo... una folla di donne, di madri, di mogli...
— Poverette!
— E di uomini, anche, don Lanfranchi... e si fanno la comunione... alcuni già vestiti da soldati...
— Preparate, è vero, per molta gente? — chiese il sacerdote, guardando il lungo e magro sacrestano.
— Non dubitate.... non dubitate....
Tacquero. Il sacrestano si allontanò verso il banco, vi passò dietro, ricominciò la sua opera, andando, venendo, senza rumore, con quei gesti misurati e discreti della gente di chiesa. Don Giulio Lanfranchi andò a sedersi in uno dei neri stalli, e stette tranquillo e muto, avvolto nel suo ferraiuolo nero, poiché egli’continuava ad aver freddo, per la notte insonne, per quella prima ora gelida, in quell’ambiente bruno di marmi, di legni, di pitture. Quasi spariva, la sua piccola persona, in quello stallo: e solo sul legno bruno, spiccava il suo volto chiaro, sotto la linea sottile dei neri capelli. Malgrado che la luce mattinale crescesse, l’aria della vasta e tetra sacristia rimaneva senza riflessi, come se nulla potesse mai diradarne il bigio colore, nulla muoverne le onde ferme. Gli alti finestroni illuminavano solo la parte superiore della sacristia: ma i vetri istoriati non filtravano grande luce. La testa di don Giulio Lanfranchi si curvava sul petto, mentre, laggiù, il sacrestano, badava ai suoi paramenti sacri, uno disposto dopo l’altro, in bell’ordine, badava alle sue ampolline, si curvava sugli scaffali dei negri armadii, mezzo nascosto nel vano. A scuotere il suo pesante torpore, don Giulio Lanfranchi cavò dalla tasca un libro di religione, piccolo, legato di pelle nera, con una croce di oro, sopra: e tentò di leggere in quella sua Imitazione di Cristo, la cui rude, severa, talvolta terribile parola, egli sentiva così spesso necessaria alla sua troppo snervante tristezza. Ma non distingueva le parole, in quell’aria grigia: e il libro restò schiuso nella sua mano, che pendeva dal bracciuolo di legno dello stallo. Franceschino gli passò davanti, tornando dalla chiesa, dove era andato per qualche incombenza.
— Vi sarà qualcuno, per servire questa messa? — cinese, vagamente, il giovine sacerdote.
— Sì... sì... vi è sempre qualcuno. In chiesa già si prega... Ora vedrete giungere qualche divoto, per voi.
Ma per qualche tempo, ancora, don Giulio Lanfranchi rimase confinato nel suo stallo, minuscola ombra vivente, in tanta solitudine, in tanto silenzio. Poi, un passo risuonò, sul marmo del pavimento: una persona si diresse verso il gran banco degli arredi sacri e parlottò, un momento, col sacrestano Franceschino: la persona si staccò dal fondo e si avvicinò a don Giulio Lanfranchi. Una voce giovane e vivace, salutò:
— Buon giorno, Giulio, buon giorno!
Don Giulio si scosse, sogguardò l’uomo, guardò meglio, si levò, quasi, in piedi, sul nero stallo, vi ricadde, meravigliatissimo.
— Tu, tu, Luigi? Sei proprio tu, Luigi?
Un soldato vestito in grigio verde, con la cintura di cuoio affibbiata sullo stomaco, con la tracolla di cuoio in bandoliera, con le gambe fasciate dalle mollettiere, gli stava avanti, asciutto e snello, quasi piantato in posizione militare, innanzi al suo superiore: un viso colorito di gioventù e di salute, un par di occhi scintillanti, una bocca tumida, i lucidi capelli castani che ondulavano, gittati indietro, ma che, ancora non covrivano il segno rotondo sacerdotale, quello della tonsura. Il soldato teneva marzialmente la mano chiusa sul fianco, donde pendeva il berretto militare. E un sorriso, un crollo del capo, accompagnò le parole.
— Guardami bene... guardami meglio... sono io, Giulio, don Luigi Fratta, il coadiutore di Santa Maria in Via... Sei sorpreso, eh, Giulio mio?
— Molto sorpreso, Luigi... non sapevo più nulla di te, da giorni... Non mi hai fatto saper nulla...
— Ordine improvviso, tre giorni fa: e subito, una trasformazione completa, come vedi...
— Completa? — chiese, perplesso, don Giulio, squadrando l’amico.
L’altro non rispose, voltando la testa in là.
— Stai bene, da soldatino... — disse don Giulio. — Molto bene... Ma non hai sofferto, Luigi, quando hai svestito i panni sacerdotali?
— Mi è parso strano... Sì, ho anche sofferto, ma poco.
— E a lasciar la tua chiesa, Luigi, la tua bella Santa Maria in Via?
— ... sì. Sono stato triste. Poi, caro, mi è passata la tristezza, lo mi adatto subito...
— Non rammarico, non rimpianto?
— Un poco... molto poco... troppo poco. Io non ho un’anima bella come la tua, Giulio...
— Luigi, Luigi, non ti calunniare!
— Non so voltarmi indietro, fratello mio — disse l’altro, fattosi scuro, guardando a terra.
— Pare che si debba obbedire senza tristezza... pare così... — disse don Giulio, come a sè stesso.
— Pare, Giulio... E tu, quando, a tua volta, ti svestirai, saluterai il tuo altare di San Camillo, il tuo altare, qui, di Santa Maria degli Angeli, e ti licenzierai da monsignor Morcaldi, il tuo patrono, soffrirai, ti conosco... soffrirai molto.
— Oh io sono un essere debole e fragile, Luigi — sospirò il piissimo prete.
— Ma sei un’anima chiara e bella... La mia è nerastra, Giulio... — e guardò l’amico, con occhi luccicanti di affetto.
— Grigia, grigia, talvolta. Luigi! — esclamò, con un tenue sorriso, don Giulio.
Poi stettero qualche tempo in silenzio, nell’ampia, deserta, e triste sacrestia, con quella ombra lontana di Franceschino, che frugava negli armadii, in quella sacristia, fra i legni bruni su cui erano trascorsi i secoli, sotto gli antichissimi oscuri quadri di religione, pendenti dalle scurastre pareti.
— E che farai, al fronte, caro Luigi? — riprese don Giulio, con la sua voce suadente, fissando i suoi occhi soavi in quelli dell’amico.
— Mi mandano, come gli altri, in Sanità... Viene con me, anche don Giovanni Monchi, di Santa Croce in Gerusalemme... Infermieri... assistenti... barellanti... pesante mestiere, Giulio.
— Avresti desiderato esser cappellano? Poter continuare a esser prete? Non ti è riescito, è vero?
— Era molto difficile. Ma non ho neppure tentato.
Un silenzio breve, fra i due, presi dal loro interno travaglio.
— Almeno, Luigi, in Sanità, non devi combattere! Non sei costretto a versare il sangue! — esclamò, a un tratto don Giulio Lanfranchi — I preti non si battono, nel nostro grande esercito italiano...
— Se lo chiedono, sì, Giulio: sono, allora, volontari!, e diventano combattenti — disse freddamente, guardando i quadri delle pareti, don Luigi Fratta.
— Luigi, Luigi, che dici? Un prete uccidere? Un sacerdote della pace e dell’amore, uccidere? — e tremava, la sua voce di alta tristezza e di un santo sdegno.
— È guerra, fratello mio... — disse l’altro, sogguardando l’amico suo. — Ma rassicurati, anima bella: sono in Sanità e aiuterò gli altri a sopravvivere. — E un affettuoso sorriso gli spianò il volto duro e contratto, mentre egli stendeva la mano a toccare quella del suo amico.
Un tenerissimo sorriso, s’irradiò sul volto pallido e gentile di don Giulio Lanfranchi.
— Ma potremo, al fronte, dir messa, Luigi? Dove? Come? Quando?
— - Non lo so. Nessuno di noi sa niente: nessuno di noi capisce niente... E pare che nulla si debba sapere. Siamo fantocci.
— La messa, Luigi, al campo!
— Tu lo sai, Giulio, che anche in pace, la messa non è uno stretto obbligo, per noi.
— E, tu non la dicevi ogni giorno, brutto Luigi! — brontolò, affettuosamente.
— Sai, talvolta si è stanchi alla sera... si è distratti, la mattina... e Dio, allora non ci gradisce...
— Non so... Non so risponderti, Luigi. Io non potrei vivere, senza messa. E al campo, che sarà?...
L’altro fece un cenno vago, d’ignoranza. Essi tacquero ancora. Poi, don Luigi Fratta, il soldato in grigio verde, chiese all’amico:
— La «messa prima» è tua, Giulio?
— Sì, caro....
— Vuoi che te la serva io? Per l’ultima volta, in Roma, tu dici messa e io te la servo? Per salutarci meglio, Giulio, ora che ci separiamo? Per salutare Santa Maria degli Angeli?
Era velata di affetto e di malinconia la voce del soldato in grigio verde, che del suo stato sacerdotale non conservava più, nei suoi lucidi capelli, che la rotonda tonsura.
— Oh Luigi, Luigi, fratello mio! — balbettò don Giulio Lanfranchi, fremente di commozione.
— Vatti a vestire, va, anima bella.... È l’ora: Franceschino ti fa segno: va....
Raccolto assolutamente nella sua vita interiore compreso di reverenza per l’ufficio di fede e di religiosa pietà, che andava a compiere sull’altare, portando appoggiato al petto, con mani delicate e ferme il Sacro ciborio, come un prezioso tesoro, mai quest’officiante, venendo dalla sacristia, avviandosi all’altare, ascendendone i gradini, si volgea verso i pochi o i molti osservanti, che erano in chiesa, mai egli cercava di conoscerne il numero, o di distinguerne le persone. Egli era preso, tutto, dal suo sacro ufficio e niuna cosa, e niuna persona, ne lo poteano distrarre: la compunzione del suo pallido viso, lo sguardo senza meta dei suoi occhi, pure intenti in un pensiero dominante, ogni suo gesto divoto erano di una perfetta dedizione e di una perfetta sincerità. Così, quel giorno in quella primissima ora mattinale, in quella «messa prima» di Santa Maria degli Angeli, l’officiante, nei suoi ricchi paramenti sacri, fine tela bianca, antichi e preziosi merletti, broccati lucenti e smaglianti galloni di oro, quest’officiante, col suo servente che era un giovin soldato, vestito in grigio verde, non si volse a scorgere, dappresso all’aitar maggiore e nelle lontane profondità della nobile chiesa, la gente che era accorsa ad ascoltar quella messa. E i primi segni, semplici o simbolici, con cui il sacerdote inizia quell’atto di dedizione e di sacrifìcio al Signore, i segni di croce, le genuflessioni, gli inchini, il bacio all’altare, le preghiere mentali, si svolsero, in quello assoluto distacco da ogni cosa profana. Ma quando, per la prima volta, egli si dovette volgere tutto quanto agli osservanti, agli oranti, per dire loro «Dio sia con voi» la piissima scena balzò innanzi ai suoi occhi mortali che si allargarono, quasi, per tutto comprendere, per tutto chiuderla nella loro visione. Nella vastissima chiesa, creata dal genio possente e mistico di Michelangelo, sovra la maggiore colossale sala delle Terme di Diocleziano, la luce degli altissimi finestroni si diffondea solo in alto, negli strati superiori dell’aria, e giungeva solo fioca e rara, in giù: una penombra eguale avvolgeva la compatta folla, che occupava la maestosa navata: e questa folla quasi innumerevole, appariva come una massa informe, che appena appena si diradava laggiù, verso il portale. Niente brillava, niente riluceva, su quest l’agglomeramento umano: solo qua avanti, verso l’altar maggiore, essa acquistava qualche linea più precisa, essa prendeva qualche colore, e, dalla penombra, ogni tanto, sorgeva, come una fugace apparizione, un volto umano nella sua estasi triste o nella sua rassegnazione fervorosa di preci, ma, subito, spariva novellamente nella penombra, confusa nella massa. Bastò questo solo aspetto della folla, visto e inteso dall’officiante, in un solo lungo istante di benedizione, perchè egli trasalisse sino al fondo del suo cuore ansioso, ritornando alle sue divote orazioni, perchè egli sentisse e misurasse quale impeto irresistibile aveva condotto quella gran gente, poco dopo la gelida alba, a gremire l’immensa chiesa che, in tempi ordinarii, accoglieva solo i pochi fedelissimi consuetudinarii di quel tempio: quella a «messa prima» dedicata, dopo lo scoppio della guerra, alle preghiere per i combattenti, a quelle per i partenti, in quella magnifica chiesa così prossima alla stazione ferroviaria, donde nella notte, nell’alba, si dipartivano le «tradotte» cariche di soldati, quella «messa prima» aveva strappato ai loro letti, forse dove avean trascorso la notte insonne e bagnato, forse, l’origliere di lacrime, uomini e donne, madri, e mogli, e figliuoli di combattenti, di partenti. E il cuore dell’officiante si mise a tumultuare di compassione e di dolore: più intensa sgorgò, dal suo petto, che un gran sospiro di pena sollevava, la sua voce di sacerdote parlante a Dio, negli Evangeli, nei Salmi, nelle orazioni: e le parole latine, così chiare e così penetranti, furon pronunciate alte, lente, con una espressione toccante. Alle sue spalle sembrò, all’officiante che, adesso, si curvava sempre più umile, innanzi alla Maestà del Signore, sull’altare, gli parve, alle sue spalle, ed era vero, che il mormorio delle labbra preganti della folla diventasse più intelligibile, che le parole consuete delle preci ancestrali, fossero pronunciate più alte, più forti, in un bisogno doloroso di farle, quasi, meglio udire, lassù, quasi di udirle con le proprie orecchie mortali, e di sfogarsi, in tale suono dolente: e allora, tutto lo spirito sacerdotale dell’officiante fu ingombro dalla tristezza di quelle anime senza volto e senza nome, che esalavano la loro infrenabile pena segretac... Così, la sorda angoscia che si assopiva, talvolta, in fondo al cuòre ansioso di quell’officiante, ma che, perfida, si risvegliava bruscamente e lo mordeva, quest’angoscia si dilatò, in lui, lo pervase, poiché si era addoppiata, si era moltiplicata, dall’angoscia di quelle creature umane, genitori, consorti, figliuoli, che eran fuggiti dalle loro case nell’alba, e avevan cercato rifugio, conforto, speranza in quella «messa prima». Invece di elevarsi, come sempre, il suo spirito pio, nelle pure sfere della fede, che tutto promette e che terrà, quando che sia, nel dì fissato, ogni sua promessa, egli fu dominato dalla sua risvegliata e mordente angoscia, da quella di quei miseri, di quei desolati credenti che si dibattevano nel loro cruccio mortale e ripetean autotomaticamente le parole delle preci, obbliosi di chi avean vicino, obbliosi del posto ove si trovavano, creature senza sguardo e senza udito, folla senza volto e senza nome, ma tutta quanta grondante sangue, dalla sua piaga segreta. Travolto dal più crudele conflitto spirituale, nel desiderio di staccarsi da tanto terreno dolore, e di darsi nelle mani del Suo Signore, ove, tutto è calma, tutto è serenità, tutto è infinita fiducia, l’officianté tentava, anelante, di sciogliere, di rompere, di lacerare i vincoli che lo legavano alla terra, alle creature umane, ai loro affetti profani: ma le ritorte più si stringevano attorno al suo cuore, alla sua anima. L’offìciante si sentiva debole e caduco, simile all’ultimo orante di quella folla, simile a tutta quella informe, anonima povera gente, che spasimava, nelle preghiere ad alta voce: e tacitamente, con tutte le sue vacillanti energie, egli domandava a Dio, che aveva sempre servito con ogni sua forza e con ogni sua volontà, di prenderlo, di scamparlo, di salvarlo, di dargli quella fermezza, quella certezza spirituale, che sono il dono del Cielo. Due volte, nel volgersi al suo servente, che era vestito da soldato, in grigio verde, costui scorse nel viso sacerdotale, che egli serviva, uno smarrimento indicibile: mentre l’altro, dall’altare, nei tratti giovanili del suo servente genuflesso, lesse una tristezza mortale; la stessa mano di costui, nello scuotere il campanello, che dava il primo accenno della Elevazione, parve tremante, perchè il suono fu debole e interrotto. Nella chiesa, però, fu udito da tutti gli oranti: e un gran rombo di sedie smosse, di corpi che cadevano in ginocchio, di voci che sospiravano, che si lamentavano, accompagnò le prime divozioni della Elevazione. Anzi, a un tratto, mentre la seconda volta suonava il campanello del servente, suono convulso, si udì, distintamente, un lungo, stridulo fischio di treno, che si partiva dalla prossima stazione ferroviaria. Nella gran chiesa crebbe, s’ingrossò il mormorio angoscioso delle donne ploranti, degli uomini oranti: e sovra il fondo confuso e sordo delle voci, già le parole si staccavano, disordinate e incoerenti e si udivano sino sull’altar. maggiore, nè potea il sacerdote astrarsene, distrarsene, non potea non raccoglierle e non esserne turbato sino alle fibre più sensibili del suo cuore.
— Figlio mio... figlio mio, Dio ti accompagni!
— Madonna Santa, due figli!... Due figli... son figli vostri...
— Vergine Santa, egli è nelle vostre mani...
— Signore, Signore... Scampatelo voi... salvatelo voi...
— Ave Maria...
— Ave Maria...
— Salve Regina...
Allora, nel maggior gesto della Elevazione, in cui pare che le vòlte del tempio si schiudano e nel chiaro firmamento Iddio e i suoi Santi appariscano, in gloria, col Corpo del Signore, altissimo sulle genti, mentre l’unanime grido di preghiera e di dolore parea varcasse ogni limite di atmosfera, l’anima dell’officiante, sconvolta e sperduta, formulò una disperata preghiera, con le istesse lontane parole del Divin Figlio:
— Signore, Signore, se è possibile, trapassi da noi questo calice!
Squillò, fremente, a lungo, il campanello del servente: ora fioco, ora nitido; giunse, di nuovo, dalla stazione, il fischio dei treni in partenza: sospiravano, si lagnavano,. proclamavano il dolore a voce alta, immemori di ogni cosa e di ogni persona, le genti genuflesse. Ma già il sacerdote era pentito della sua disperata e vana preghiera, poiché egli sapeva che «tutto era consumato», poiché la guerra ardeva da quattro mesi, al fronte: una immensa contrizione lo invadeva per essersi ribellato. lui, sacerdote, per essersi ribellato alla già espressa e già vivente tremenda volontà di Dio, anche se la sua ribellione avesse ingenuamente e forse peccaminosamente, ripetuto le parole di Nostro Signor Gesù Cristo. Egli si prostrò, curvo quasi sino a terra, invocando perdono sulla sua debolezza, sulla sua miseria, invocando per sè quella sublime rassegnazione che discese sull’anima di Gesù e, dopo, tutto fu silenzio sul Golgotha e, infine, infine, fu la sfolgorante luce di risurrezione. Questa unica grazia chiedeva, l’officiante, quella della rassegnazione. Pesava il cuore nel petto di questo sacerdote, come un macigno: e un gelo mortale correva nelle sue vene. Anche la pietà di tutti quei sofferenti, parve si fosse inaridita. Con quelle preghiere, con quelle invocazioni, con quelle grida convulse, ogni persona di quella folla, si straniava da chi lo circondava, da chi gli era vicino: e si sentiva solo, innanzi a Dio e solo si erigeva verso Dio, in un singoiar dialogo: e non chiedeva altro, in un impeto del suo strazio, alla Divinità, che la grazia della vita, pel suo figliuolo, pel suo fratello, pel suo consorte: un’unica grazia, per un’unica persona: un’unica salvazione pel propio sangue, per la propria carne, data al figlio, per il vincolo del sangue e di carne col fratello, col congiunto: la morte doveva essere risparmiata, da Dio, solo a lui, solo a costui, ognuno pregava per un’unica grazia, per un’unica persona, chiuso nell’assoluto, feroce, implacabile egoismo della tenerezza e della passione. Il vicino, il fratello, il prossimo, non esistevano più: e niuno si accorgeva che l’eccesso di questa preghiera, era una offesa alla Divinità, era un sacrilegio. Crudo, tagliente come un pezzo di roccia, era il cuore del sacerdote, nel suo petto. Curvava la testa, sgomento, inorridito dei suoi cupi pensieri, dal conflitto dei suoi sentimenti, e due o tre volte levò gli occhi al Cielo, perchè lo purificasse, perchè lo suadesse, perchè gli rendesse l’umiltà, la bontà, l’indulgenza, perchè riannodasse fra lui e tutti quei poveri peccatori, che nulla più sentivano, salvo la loro angoscia, che peccavano di egoismo, di crudeltà, ma erano inconsci, fatti inconsci dal loro dolore, il vincolo della umana pietà. Una fila di uomini e di donne, si era avvicinata alla balaustra di marmo, per farsi la comunione: e vi erano donne dai capelli canuti, sotto il velo nero, ma sulla cui bianca mano brillava il gioiello ricco e vi erano contadine aduste, che avevano abbassato il loro fazzoletto, sulla fronte: e vi erano vecchi uomini, un po’ tremanti e dei pallidi giovini e delle giovinette dagli occhi estasiati.... Man mano che il sacerdote dava la comunione, a costoro, le parole consuete del Sacro Dono, si facevano più velate di emozione: una seconda fila si appressò, a prendere il posto della prima, che già si era comunicata: fra questi secondi, vi erano due soldati in grigio verde, uno che aveva oltrepassato i trentacinque anni e uno ventenne, e ambedue erano in grande compunzione, e melanconici, e con un vivo desiderio e una viva speranza negli occhi. Parve, all’officiante, che fosse compiuto il non breve ufficio della Sacra Mensa: si arrestò, un istante, respirando, sospirando di alleviamento, davanti alla vuota balaustra. Ma, a un tratto, egli scorse qualcuno, un’altra persona, che gli si era inginocchiata davanti, con occhi di desiderio e di speranza: era don Luigi Fratta, il suo servente, il prete che era già vestito da soldato, colui che partiva, da soldato, per il fronte:
— Anche a me, Giulio... — egli mormorò, levando la testa.
E il cuore di don Giulio Lanfranchi si strusse di umiltà, di bontà, di amore.
Sulla soglia di Santa Maria degli Angeli, donna Marta Ardore si fermò, venendo dalla penombra della chiesa, abbagliata dal pieno sole mattinale, che faceva scintillare gli alti getti d’acqua della fontana delle Terme. La sua alta figura, vestita signorilmente di nero, conservava quella sua particolar linea d’imponenza: una sottile veletta nera che chiudeva il cappello, gittava una piccola ombra sui canuti capelli e sul composto viso dal pallore di avorio. Accanto a lei, snello, aggraziato, elegante, il suo minor figlio, il diciassettenne Giorgio Ardore, mostrava la freschezza intatta del suo viso, simile a un frutto di primavera, mentre sul capo ancora scoverto, i capelli ricci, castani a riflessi di rame, brillavano al sole. Una piccola signora biondetta e pallidetta li raggiunse, li salutò, li guardò coi suoi occhi di azzurro, che pareano slavati dalle lacrime.
— Oh Carolina, come va, figliuola mia? — disse bonariamente Marta Ardore, a costei, tanto più giovine di lei.
— Va.... — rispose, fiocamente, Carolina Leoni.
— E Loreta vostra? Bene, è vero?
— Credo, sì, bene — mormorò l’altra, voltando in là il viso gentile — È a Treviso.
— A Treviso?
— Da un’amica nostra: per riavvicinarsi a Carletto Valli.
— Siete sola, dunque, Carolina?
— Sola, sì — concluse, con voce fiochissima Carolina Leoni.
Ancora due signore sbucarono da Santa Maria degli Angeli e si accostarono alle altre due. Erano Carmela Soria e Antonia Scalese: la prima aveva le palpebre rosse e gonfie di lacrime, gonfie le labbra del suo piccolo viso di piccola madre. E senza che nessuno le dicesse nulla, sentendosi fra anime gemelle nella pena e nella comprensione della pena, proruppe, subito:
— Donna Marta, donna Marta, Guido, è partito ieri!
— Coraggio, coraggio, cara — le disse Marta Ardore, prendendole una mano, quasi temesse di vederla vacillare e cadere.
— Non solo bisogna aver coraggio, ma bisogna essere allegre, Carmela mia — intervenne Antonia Scalese, che aveva gli occhi splendenti e la bocca sorridente, strano splendore e strano sorriso. E dopo un fugace istante di meraviglia, fra le tre madri che guardavano Antonia Scalese, Marta le disse:
— Avete notizie di Gianni?
— Sempre, donna Marta! Una cartolina, con due o tre parole, ogni giorno. E mi basta — e puntò le sue parole, con un breve riso.
— Tutto bene?
— ....sino a tre giorni fa, tutto — disse l’altra, dopo una esitazione e come se una nube le passasse sul viso. Ma la nube sparve; e Antonia riprese a sorridere.
— Fausto, donna Marta?
— Fausto scrive, scrive lunghe lettere, a Giorgio — quella rispose, distratta, un po’ accigliata, guardando il cielo di Roma sempre più azzurro nel sole.
— Il mio grande fratello è entusiasta — soggiunse Giorgio, con la sua voce fresca e sonora.
Chinarono gli occhi le due madri tristi, Carolina Leoni e Carmela Soria e le loro labbra forse tremarono sulle parole che non dissero. Solo Antonia Scalese aveva il volto irradiato da un sorriso fluente.
— Perchè ridete, mia cara Antonia? — le chiese, austera, donna Marta Ardore.
— Perchè sono allegrissima — rispose, volubilmente, Antonia Scalese.
— Allegrissima?
— Per obbedienza, donna Marta. Gianni mi ordina, ogni giorno, di stare allegra. E io gli obbedisco — disse l’altra, mentre i suoi occhi allucinati si riempivano di pianto.
Poi soggiunse, profondamente:
— Adesso, è tempo che le madri obbediscano ai figli lontani.
E fra il pianto che ella frenava il suo bizzarro riso di obbedienza, la madre di Gianni Scalese si congedò, si allontanò.
— Poveretta — disse, piano, Marta Ardore.
— Poveretta — ripetette Carolina Leoni.
— Poverette noi tutte.... — proruppe Carmela Soria.
E ognuna andò tacita, lenta alla sua strada. Giorgio Ardore, svelto, disinvolto, sereno, aveva messo il suo braccio sotto quello di sua madre, conducendola via: ed ella si lasciava condurre, via, dal suo più giovine figlio.