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Questo testo fa parte della raccolta La Priapea


NICCOLÒ FRANCO.


al signore


CHRISTOFERO PICCA.


Quanta invidia saría degl’ invidi, se le lodi che voi con tutti i buoni mi date, fussero a quest’ora così chiare al mondo, come gli sono le forze della mia penna. Senza dubbio il cuor suo se ne scoppierebbe sì, come il mio tutto giubila nel vedermi esser invidiato. Ma che dich’io? l’invidia non pur se ne struggerebbe, ma se ne morrebbe affatto. Ond’io che ho a caro che la mia virtù sia sempre sollecita nel tormento degl’ invidiosi, e che si pasca non del vedergli in un punto morti, ma del loro vivere con lunga morte vò fuggendo di trafiggerli col fargli leggere quel che di me si scriva da questi e da quelli ingegni, che delle mie lodi son teneri; e per questo m’è paruto di non interporre nel mio volume i quattro sonetti uscitivi della benignità del vostro sapere per glorificarmi il nome, stimando meglio riserbargli per quando sarà ch’io avrò agli iniqui tolto affato quel poco di fiato che respirano. Onde più convenevole sarà che le lodi, i canti, e i giubili de’ dotti ingegni s’odano nel fine de’ miei trionfi, e non pur ora, dove, benchè io sia certo della vittoria, appena (posso dire) aver posto mano alle armi, allora sì che si potranno dare a leggere al mondo le vostre rime, le quali mai non leggo che non torni a rileggerle. Bello è stato il sonetto che fate a’ lettori, e veramente si può egli dire quella vaga delicatezza, che solamente a guardarla in una cena mal’ordinata, invita i satolli non pur a voler assaggiarla, ma a trangugiarla. Bello non manco è il secondo fatto alle belle donne, e tale, che solamente il pensarci mi scancella del volto il rossore stampatoci dallo sdegno della mia penna. E veramente leggendosi avrebbe fatto il medesimo effetto che farà tosto il díalogo della bellezza, dove per reintegrarmi nella vostra grazia darò a vedere non pure alle vostre di Casale, ma a quelle dell’Italia, come io so dar conto non men delle belle donne che saprò darne de’ più infami e famosi uomini che vi siano. E benchè paja ciò poco scudo a difendermi nella lascivia degli scritti, sapendosi che di tutti i poeti sè la carta è lasciva, la vita è buona, non m’affatico a dirne altro, bastandomi questo con esso loro, sì come mi basterebbe appò i dotti dir solamente che il buon Virgilio nella sua giovinezza fece pure il medesimo ch’io nella mia ho fatto, ove i suoi vocaboli non meno erano nell’età sua chiari e da tutti usati, che sono nella mia quelli di che m’è convenuto servirmi per non torre al soggetto i decori suoi, abbenchè assai più colori per iscolparmi si veggano nel rimanente de’ quattro sonetti che voi mi fate, così in quello dove si loda l’opra, come nell’altro che indrizzate a me, ove pare che ecceda tutti i miei meriti, l’udirvi dire che il vizio debba restar oppresso dalla mia penna, perocchè essendo io nato nel più vizioso secolo che mai fusse, troppo gran gloria ne otterrei, e però l’averlo voi detto, mi si da a credere che più tosto, intravenga perche m’amiate, che perche io meriti sì fatta lode. E però se più adagiatamente vedeste quel ch’io mi scrivo, vi parrei senza dubbio assai manco di quel che pajo. La novità delle ciancie delle quali i miei orti son sempre fertili, e quella alle volte che col consonare alle orecchie, i lettori non pare che leggano, ma più tosto odano co i loro occhi; onde sodisfacendosi al senso, che poco giudica nella fretta, non si sodisfà all’occhio che vede più; e però non merito lode alcuna, e massime in un’opera, dove a pena mi ricordo aver respirato in scrivere più di due volte. Parmi solamente di non meritare ch’io sia biasimato, poichè tralle tempeste delle fortune mostro di fare assai, se tutti quasi i miei parti si concepiscano nelle miserie, e si partoriscano nel disagio. Gran cosa a dire che ciò che mai scrissi, dove ebbe il principio non ebbe il fine. Scrivono gli altri nella quiete, negli agi, e ne’ piaceri, ed io ne’ travagli ne’ disagi, e ne’ mali. Non tengo per mia nimica la tristizia degli Aretini, perche gli scherni ch’io ne mostro ne fanno fede. Ho la fortuna per mia nimica, ed avendola, io stesso stupisco come sia possibile che schermendomi da tanti suoi colpi abbia pur tempo di tor la penna. Ecco i dieci libri della mia volgare istoria, orditi già, ma non posti in trama da i due primi in fuori, a i quali averei applicato ogni studio, se la troppa diligenza che ha la mia disgrazia del danneggiarmi non vi si fosse interposta.

Ecco le rime d’amore tralasciate nel più caldo fervore del desiderio. Ecco l’opere latine, le quali a quest’ora si leggerebbono se m’avanzasse pur tempo da parlarne con gl’impressori, e però fo oltre il possibile del poter mio, se qualche cosa io fò, nè per altro debbo esser posto in voce da’ virtuosi sì, come insieme con voi par che mi pongano, messer Lodovico Domenichi, Piacentino, e messer Francesco Reuesla, Novarese, con le lettere che di Padova e di Pavia m’hanno scritte, piace la lode a ciascuno, ma molto più a chi per qualche via sia diviso di meritarla. Egli è chiaro che tutte le musiche non vagliono un cece a petto a quella che sente l’uomo quando si smusica delle sue lodi. Io penso che le serpi s’incantino col bisbiglio di qualche lode, e che la vera arte di san Paolo ch’hanno i ciurmatori, sia quella, mentre a’ loro bussoli, ed a’ loro cartocci danno cotante lodi, che diventano predicatori d’un popolo. La lode porta gusto fino agli stomacati, e mi do ad intendere che i sordi ancora non ci son sordi. Drittamente si può ella assomigliare al mal passo d’una scala, dove chi saglia o scenda (per avvedutamente che ’l faccia) sia costretto, che sminuzzandogli il piede ci dia giù. Ma qual lode potrà piacere non piacendo quella ch’esce delle bocche come la vostra? Volete che insuperbisca, perche l’Aretino mi chiami dottissimo nelle sue lettere, il quale non sapendo in che sia differente la lode dal vituperio, allora vitupera le genti quando le loda, ad allora l’esalta quando le biasima? Gli onori vengano da i par vostri, che non ponno tenere il banco, e non da i Pietro d’Arezzo che n’han tanta carestia, che se ne moion di fame. I pari suoi, sebben fussero più che le stelle, vorrei più tosto mi biasimassino che altrimenti, perchè se mi lodassino non mi uscirebbe in quella gloria che farebbe biasimandomi, la dove nella lode tacerei per non ringraziarlo, ma nel biasimo per l’occasion del rispondere gli sotterrerei come io so fare.

E sì come la lode dee venire da persona lodata, così ancora dee esser tale che di gran lunga avanzi i meriti del lodato, non meno che ha fatto la signoria vostra nelle sue rime, e non già perch’io non ne sia indegno, ma per mostrarmi com’ella sa, che è via meglio l’essere gravemente vituperato, che freddamente commendato; perchè colui che vitupera, quanto più acerbamente il fa, tanto più gli è riputato per suo nimico, onde avviene alle volte (se gli biasmi eccedono il vero) che per ciò non gli sia creduto quel che ne dice.

Ma colui che zoppicando corre a lodare, o non è riputato amico vero, o da ad intendere che non ritrova virtù onde il merito di colui meriti la sua lode. Il che certo non dovrei dire, per non più palesare l’indegnità delle mie lodi, delle quali tanto più pajo indegno, quanto conoscerete che non ve ne so rendere il contraccambio, per lo che mi giudicherete, o falso nell’amicizia o ignorante, come che non mi occorra cosa da celebrarvi, poichè le vostre lodi ch’io debbo rendervi parranno tanto piccole nella mia carta, quanto nella vostra son parute grandi le mie. Onde non voglio più dubitare che il tutto sia stata un’arte per scoprire il vostro sapere e la mia ignoranza, perche venendo meco alla prova, mi facciate conoscere che le vene del vostro dire son tali che dove non è campo di lode ne sappian trovare, e che io dove ne sono i mari non ne sappia scorgere per mio difetto. Pure, diciamo il tutto, dove non è quella lode che deve essere (sì come accade in me) vi è stato così facile e possibile a darmene con le parole, quanto a me saria difficile ed impossibile darne a voi, nel quale per essere ogni pregio d’onore, mi bisognerebbe per lodarvi come conviene, pigliar pure da voi le lodi per darle a voi. Talche per non essere onesto, ch’io per lodarvi vi toglia il merito la dove ve ne dovrei aggiungere.

Alla signoria vostra, piacerà pigliare solamente il buon animo della mia lettera sì com’io i belli e lodati affetti ho presi di quel che voi mi scrivete e ch’io meco riserberò per un ampio privilegio d’onore, perche nella piccola eredità del mio nome, debba restare per autentica fede dell’essere io stato quel ch’io non sono.

Di Torino, di giugno del 1541.

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