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3.
NICOCLE
Sono alcuni, i quali hanno l’animo avverso alle lettere, e biasimano i coltivatori di quelle, dicendo che essi seguitano si fatto studio a fine, non di virtú, ma di avvantaggiarsi dagli altri. Io dimanderei volentieri a questi tali, che voglia dir ciò, che laddove essi lodano chi vuol bene operare, a un medesimo tempo fuggono da quelli che vorrebbono parlar bene. Che se spiacciano loro i vantaggi che uno ha dagli altri, veggiamo che piú e maggiori se ne acquistano colle opere che colle parole. Anco sarebbe strano a pensare che questi nemici dei letterati non sapessero che noi facciamo onore agli dèi, pratichiamo la giustizia e seguitiamo le altre virtú, non mica per doverne avere disavvantaggio dagli altri, ma si per vivere con quella maggior quantitá di beni che per noi si possa ottenere. Sicché non sono da riprendere quelle cose per le quali uno può virtuosamente sopravanzare gli altri, ma si quelle persone le quali peccano colle opere, e quelle che colle parole ingannano e che non le usano rettamente. E io mi maraviglio di questi che dicono male delle lettere, che non dicano anche male delle ricchezze, della forza, del coraggio. Imperocché se essi portano odio alle lettere per rispetto di coloro che si vagliono della eloquenza a ingannare altrui, ragion vuole che riprovino medesimamente anco gli altri beni, atteso che non mancano di coloro che vaglionsi di questi altresí per commetter male e far pregiudizio a molti. Ma certo non è ragionevole, perché altri batta costui o colui, biasimare la forza, né condannare il coraggio per causa dei micidiali, né in somma riferire la malvagitá degli uomini alle cose; ma voglionsi vituperare quei medesimi i quali usano male quelle che verso di sé sono buone, e cercano nuocere ai compagni con quelle che sono atte a giovare. Ma questi tali, lasciate star queste distinzioni, guardano con mal occhio qualunque letteratura, e tanto si discostano dal dritto senso, che non si avveggono che essi portano odio a quella facoltá dell’uomo dalla quale nasce una copia di beni maggiore che da qualsivoglia altra. Imperocché nelle altre, come sarebbe a dire la velocitá, la forza e simili, non che noi sormontiamo gli altri animali, anzi ne stiamo loro al di sotto. Ma per esserci dato dalla natura di poterci persuadere l’un l’altro e significare scambievolmente che che uno vuole, non tanto siamo potuti uscire della vita fiera e salvatica, ma congregati insieme, noi ci abbiamo fabbricato le cittá e posto leggi e trovato arti, e brevemente in quasi tutte le nostre invenzioni e fatture siamo stati aiutati principalmente dalla favella. Questa ha prescritto e statuito del diritto e del torto, del vituperevole e dell’onesto, senza i quali ordini noi non potremmo vivere insieme. Con questa accusiamo e convinciamo i cattivi, e celebriamo i buoni. Per mezzo di questa addottriniamo i semplici, e conosciamo i sensati. Imperciocché il favellare a proposito e acconciamente si è indizio di sensatezza certissimo fra tutti gli altri, siccome un parlare verace, legittimo e retto si è immagine di un animo buono e leale. Colla favella disputiamo delle cose dubbie, e discorriamo tra noi medesimi delle ignote. Perocché quegli argomenti stessi coi quali l’uno, parlando, persuade l’altro, si usano altresí quando l’uomo delibera in sé medesimo delle cose proprie; ed eloquenti sono denominati quelli che sanno favellare nella moltitudine, avveduti poi si stimano coloro che piú saviamente parlano seco stessi di quel che occorre. E a dire di questa facoltá in ristretto, nessuna opera che si faccia con ragione e senno, si fa senza intervento della favella, governatrice e regina di tutti gli atti e pensieri dell’uomo; e trovasi che chi piú intendimento ha, piú la suole usare. Di modo che quelli che si ardiscono mordere i precettori delle lettere e gli studiosi di quelle, non sono manco da avere in abbominazione che sieno coloro che offendono i tempii degl’immortali. In quanto a me, ho cara e pregiata qualunque letteratura; ma bellissimi e regii ed accomodati a me sopra tutti gli altri mi paiono quei ragionamenti che danno consigli e regole sopra gl’instituti e gli uffici e sopra i reggimenti delle cittá, e massime quelli che insegnano ai potenti come sia da trattare la moltitudine, e ai privati come sia da procedere verso i principi. Perocché io veggo per questi si fatti ammaestramenti le cittá essere felici e crescere in grandezza oltremodo. Dell’altra parte, cioè come uno debba regnare, avete udito il ragionamento composto da Isocrate. Quella che le tien dietro, la quale si è degli uffici dei sudditi, vedrò di spiegarla io, non con animo di soverchiare Isocrate, ma in quanto che egli mi si conviene di favellarvi sopra tutto di questa materia. Perocché se non avendovi io dato a conoscere quello che io voglio che voi facciate, intervenisse che voi vi discostaste dall’intenzione mia, non me ne potrei giustamente crucciare. Ma se, avendovelo io mostro, non seguisse l’effetto, ben ragionevolmente riprenderei chi non ubbidisse. Io credo che meglio mi verrá fatto di persuadervi, e meglio vi recherò a tener bene a memoria e mettere in pratica quello che io sono per dire, se non istarò solamente in sul consigliarvi, e annoverato che io v’abbia i miei precetti, farò fine, ma se da vantaggio dimostrerovvi, prima, che lo stato presente della cittá si vuol aver caro e contentarsene, non solo per rispetto alla necessitá, né anco perciò solamente, che sempre siamo vissuti con questa forma, ma per rispetto eziandio che ella è la migliore di tutte. Poi, che questo principato che io tengo, io non l’ho per modo illegittimo e non è d’altrui, ma tengolo lecitamente e di ragione, si avendo riguardo a’ miei progenitori primi, si a mio padre e si ultimamente a me stesso. Dimostrate che sieno le quali cose, nessuno ci dovrá essere che, pure da sé, non si giudichi degno di qual si sia maggior pena, in caso che egli contravvenga ai consigli e ai comandamenti miei. Quanto si è adunque agli stati delle cittá, poiché da questa parte ho proposto di dover cominciare, io penso che a tutti paia malissimo fatto che in una medesima condizione sieno i malvagi e i valentuomini, e giustissimo per lo contrario che le cose sieno distinte in modo che ad uno non tocchi quel medesimo che ad altri diversi da lui, ma ciascheduno riceva ed abbia secondo il merito. Ora le signorie di pochi, e medesimamente le repubbliche popolari, cercano la egualitá fra quelli che partecipano dello stato, ed havvisi in pregio se l’uno non può di qual si sia cosa trapassare l’altro, il quale ordine ridonda in utilitá dei tristi. Le monarchie danno il piú e il meglio a chi similmente vai piú, la seconda parte a chi vien dopo, la terza e la quarta agli altri secondo la stessa regola. Che se questo modo non si trova usato da per tutto, nondimeno la proprietá della monarchia vorrebbe cosi. Distinguere le nature e gli andamenti degli uomini nessuno vorrá negare che non si faccia piú nelle monarchie che negli altri stati. Ora dimando io, chi non bramerebbe, essendo di sano intendimento, di vivere in quella repubblica dove, se egli è persona d’assai, per tale debba essere conosciuto, anzi che starsene confuso tra la moltitudine, senza che gli uomini sappiano quel che ei si vaglia? Oltre a tutto questo, di tanto è piú discreta e piú facile la monarchia che non sono le altre repubbliche, quanto è piú leggera cosa aver l’occhio alla volontá di un solo, che sforzarsi di aggradire a molti e diversi ingegni. Dunque che lo stato monarchico sia piú comodo, piú discreto e piú giusto, si potrebbe anco provare con piú ragioni, ma pure per le anzidette si è bastevolmente chiaro. Nelle altre parti, quanto stieno di sopra le monarchie per rispetto si al deliberare e si all’eseguire convenientemente, si potrá considerare meglio che in altro modo, se noi porremo a riscontro quello che interviene ai diversi stati circa ai negozi principali. Coloro dunque che entrano ai magistrati d’anno in anno, prima ritornano nella condizione privata, che eglino abbiano potuto intendere alcuna parte delle occorrenze del comune, e farvi la pratica. All’incontro quelli che sempre stanno al governo delle medesime cose, quando pur fossero di natura manco adatta, certo però in quanto alla pratica, sono di gran lunga da piú che gli altri. Poi, quelli trascurano molte cose, riposandosene gli uni negli altri scambievolmente; ma questi non lasciano cosa alcuna a cui non pongano cura, sapendo che a loro tocca di provvedere a che che sia. Oltre a ciò negli stati di pochi, e il simile nei popolari, quelli che governano nocciono alla comunitá per le gare e le concorrenze che hanno tra sé; laddove i monarchi, non avendo a chi portare invidia, fanno di ogni cosa il meglio che possono. Aggiungasi che quelli fanno il bisognevole troppo tardi, perché il piú del tempo si adoperano nei loro servigi privati, e quando sono insieme a consiglio, piú spesso si veggono quistionare, che deliberare in comune. Per lo contrario i monarchi, non avendo né congregazioni né tempi assegnati al deliberare, e stando di e notte in sul provvedere ai negozi, non restano indietro ai bisogni e alle occasioni, ma fanno ogni cosa a tempo. Di piú, quelli hanno l’animo alieno gli uni dagli altri, e per acquistare essi piú riputazione, vorrebbero che gli uomini stati negli uffici prima, e quelli che vi hanno a essere dopo loro, avessero fatto o fossero per fare della cittá il peggior governo del mondo. Ma i re, avendo in mano il reggimento tutta la vita, sempre amano la cittá di uno stesso amore. E quello che è di momento sommo e principalissimo, questi governano le cose della municipalitá come proprie, quelli come altrui; e gli uni, per loro consiglieri nel governarle, adoperano, fra i cittadini, i piú arditi, gli altri scelgono fra tutti i piú prudenti; e quelli onorano chi sa favellare tra la turba, questi chi sa maneggiare i negozi. E non solo nelle cose ordinarie e in quelle che occorrono alla giornata, va innanzi lo stato monarchico a tutti gli altri, ma eziandio nella guerra ha tutti i vantaggi che si possono avere. Far preparamenti di forze, usarle per modo che elle o si rimangano occulte o sieno manifeste secondo che la utilitá richiede, persuadere gli uni, sforzare gli altri, da questi comperare, quelli guadagnare con altre arti, tutte queste cose meglio si possono fare dalle monarchie che dagli altri stati. E che ciò sia vero, oltre alle ragioni, abbiamo anche gli esempi. Sappiamo tutti che la signoria de’ persiani è venuta in questa tanta grandezza, non per senno e prudenza di quella gente, ma perciocché essi piú che gli altri popoli onorano la monarchia. Veggiamo il re Dionigi, trovato il rimanente della Sicilia desolato e guasto, e la sua patria assediata, non solo averla tratta dai pericoli di quel tempo, ma ridottala eziandio la maggiore delle cittá greche. 1 Cartaginesi, e similmente i Lacedemoni, i quali hanno migliori ordini di repubblica che gli altri greci, troviamo che in casa sono governati da pochi, alla guerra dai re. Si potrebbe anco dare a vedere che gli ateniesi, i quali sopra tutti gli altri portano odio grandissimo ai principati, qualora prepongono agli eserciti molti capi, fanno mala prova, qualora un solo, succedono loro le cose felicemente. Ora, come si potrebbe meglio provare che con questi esempi, la monarchia vincere di eccellenza tutti gli altri stati? nei quali esempi si veggono, da una parte, uomini sottoposti sempre e compiutamente alla signoria d’un solo, avere imperio grandissimo; da altra parte, popoli governati da un convenevole reggimento di pochi, adoperare alle cose di maggior momento, quale la potestá di un solo capitano, quale il governo regio nelle soldatesche; in fine uomini odiatori dei principati, qualunque volta nelle guerre usano l’opere di piú capi, non avere alcun successo buono. Che se noi vogliamo anche toccare alcuna delle cose antiche, è fama che gli dèi medesimamente sieno sottoposti al regno di Giove. Dei quali, se la fama è vera, manifesto è che ancora essi giudicano si fatta constituzione essere la migliore. Se niuno sa certamente il fatto come egli stia, ma solo congetturando noi siamo venuti in questa opinione, segno è che tutti abbiamo in pregio singolare lo stato monarchico, poiché non avremmo mai detto che gl’immortali si valessero della monarchia, se di lungo intervallo non la reputassimo superiore a qualunque altra forma di reggimento. Dunque degli stati delle cittá, quanto si avvantaggino gli uni dagli altri, a pensarne non che a dirne ogni cosa, sarebbe impossibile, ma ora al nostro uopo basta quel tanto che ne è detto. Che poi giustamente e convenevolmente io mi tenga questa signoria, con molto minor numero di parole si può dichiarare, ed è cosa intorno alla quale consentono i giudizi degli uomini molto piú. Tutti sanno che Teucro, ceppo della mia famiglia, presi con sé gli antenati degli altri nostri cittadini, venuto in questi paesi, fondò ai compagni questa cittá, e tra loro il territorio distribuí; e che mio padre Evágora, stata perduta da altri la signoria, esso con pericoli grandissimi ricuperatala, mutò le cose per modo, che non piú i fenici comandano ai Salamini, ma quelli che ebbero questo regno a principio, hannolo anche al presente. Resta che io dica di me stesso, acciocché voi conosciate tale essere il re vostro, che egli, non solo per rispetto degli antenati, ma per sé medesimo, sarebbe anco degno di maggior dominio che questo non è. Io penso che niuno voglia contendere che di tutte le virtú non sieno le piú pregevoli la giustizia e la temperanza, poiché queste, non solo ci sono utili da sé medesime, ma se noi prenderemo a considerare le cose umane, guardando alle nature, alle potenze ed agli usi loro, troveremo che quelle che sono al tutto divise da queste due qualitá, producono mali grandi, e quelle che sono congiunte alla temperanza ed alla giustizia, giovano in molti modi alla nostra vita. Ora se mai per l’addietro fu alcuno che di cosi fatte virtú avesse lode, panni che ancora a me sia dovuta la stessa fama. La mia giustizia potete conoscere massimamente da questo, che avendo io trovato, quando presi a regnare, vóto l’erario regio, consumata ogni facoltá, ogni cosa piena di confusione e bisognosa di cura, di cautela e di spesa grande, benché io sapessi che altri in sí fatti casi non lasciano mezzo alcuno indietro, appartenente a riordinare le cose proprie, e si lasciano sforzare a molti atti diversi della natura loro, non per tanto non fui pervertito da tali difficoltá e da tali esempi, ma governai le cose con tanta innocenza e tanta onestá, che io non pretermisi di fare una menoma parte di quello perché la cittá dovesse crescere e prosperare. Imperciocché verso i cittadini io mi portai con tanta piacevolezza, che sotto il mio regno non si sono veduti esilii né morti né confiscazioni di beni né multe né cosi fatta calamitá nessuna. Ed essendoci per la guerra di quei tempi la Grecia chiusa, e noi predati e spogliati in ogni luogo, i piú di questi travagli io tolsi via, pagando a chi tutto, a chi parte, pregando alcuni d’indugio, con altri componendo le differenze com’io potetti il meglio. Oltre di ciò essendo verso di noi gli animi delle genti dell’isola mal disposti, e l’imperatore riconciliato in parole, ma in fatti pieno di mala volontá, io raddolcii gli uni e l’altro, questo colla diligenza e prontezza negli ossequi e nei servigi, quelli con procedere verso loro dirittamente. Imperocché io sono di tal maniera alieno da ogni appetito dell’altrui, che laddove molti, solo che possano poco piú dei vicini, usurpano parte delle loro terre e cercano di vantaggiarsi contro il diritto, io non volli anco accettare quel tanto di paese che mi era offerto, e mi eleggo di possedere con giustizia il mio territorio solo, piuttosto che per vie torte acquistarne maggiore a piú doppi. Ma che bisogno è dilungarsi ricordando questa e quella cosa, quando io posso con poche parole dire che egli sará manifesto a chiunque ne cercherá, non avere io mai fatto ingiuria ad alcuno, e per lo contrario aver fatto beneficio a un maggior numero si di cittadini e si di altri greci, e dato a questi e a quelli maggiori doni, che non fecero tutti insieme i re predecessori miei? E veramente converrebbe che quelli che si pregiano di giustizia grande, e che fanno professione di non essere superabili dall’amor della roba, potessero dire di sé cose altrettanto insigni. Anche maggiori di queste io mi trovo poter narrare intorno alla mia temperanza. Perocché veggendo che niuna cosa hanno tutti gli uomini generalmente cosi cara siccome le mogli e i figliuoli, e contro a niuno si adirano si gravemente come contro a chi offende loro le une o gli altri; e che la contumeliosa libidine verso quelle o questi è fonte di calamitá grandissime, e molti per sua cagione, cosi privati come principi, essere capitati male; io fuggii per modo ogni imputazione di si fatte colpe, che egli si può trovare che da poi ch’io tengo il principato, niuna persona, salvo che la mia donna, ho usata amorosamente: non che io non sapessi che nell’universale hanno lode eziandio coloro che osservando i termini del giusto in quanto si è alle cose dei cittadini, procacciano però di loro diletti da qualche altra parte; ma da un canto io mi sono voluto tenere come piú si poteva lontano da ogni sospetto in questo particolare, da un altro lato farmi esempio di costumatezza a’ miei cittadini, sapendo che la moltitudine suol tenere quegl’instituti e quei modi che ella vede essere usati da’ suoi reggitori. Di poi m’è paruto essere convenevole che siccome i principi sono maggiormente onorati che gli altri uomini, cosi ed altrettanto sieno migliori di quelli; e sconcio essere oltremodo il procedere di coloro i quali costringono gli altri a vivere modestamente, ed essi non dimostrano piú di temperanza che i loro sudditi. Oltre che io vedeva nelle altre cose anche uomini volgari essere continenti, ma queste cosi fatte libidini vincere anco i migliori. Per tanto ho voluto dimostrarmi atto a resistere alla cupiditá in quelle cose dove io non era solamente per superare il volgo, ma eziandio quelli che si pregiano di virtú. Mi pareva anche molto da biasimare chi avendo menata moglie e fattasela consorte di tutta la vita, poi contraffacendo al suo proprio fatto, affligge co’ suoi piaceri quella dalla quale egli si persuade che niuna afflizione gli convenga ricevere; e dove egli in altri consorzi e in altre congiunzioni si porta convenevolmente, non guarda di mancare in questo consorzio che egli ha colla moglie, il quale sarebbe da osservare con tanto piú studio che gli altri, quanto egli è il piú stretto e il maggiore che l’uomo abbia. Ed ecco che questi tali per cosi fatto modo, non se ne avvedendo, dentro alla medesima reggia si creano e si nutricano sedizioni e discordie, laddove egli è pure ufficio dei principi buoni procacciare l’unitá degli animi non solo nelle cittá sottoposte alla signoria loro, ma eziandio ne’ palagi propri e dove che essi dimorino. Né anco mi è piaciuta mai quell’opinione che hanno la piú parte dei principi intorno alla procreazione dei figliuoli, né mi è paruto ben fatto, procreare questo da femmina di minor grado, quello da persona di piú alto affare, e lasciar figliuoli, altri spuri ed altri legittimi; ma ho creduto che quanti nascessero da me, tanti dovessero potere, si dal canto del padre e si della madre, riferire la propria origine a mio padre Evágora fra i mortali, agli Eacidi fra gli eroi, a Giove tra gl’ iddíi, e nessuno dei miei figliuoli dovere essere privato di questa nobiltá di stirpe. E una delle molte considerazioni che mi hanno indótto a volere entrare e perseverare in questi andamenti e in questi propositi, è stata che il coraggio, l’ingegno e le altre qualitá lodate, sono comuni a molti ribaldi, ma la temperanza e la giustizia sono proprie ricchezze degli uomini costumati e buoni. Onde la piú onorata cosa che io potessi fare, mi è paruto che fosse di attendere, lasciate star le altre virtú, a queste due, delle quali nessuna parte hanno i tristi, verissime, durevolissime, grandissime sopra tutte, e degne di grandissima lode. Per questa considerazione, piú che nelle altre virtú, ho posto cura all’esercitarmi nella temperanza e nella giustizia, e delle voluttá non ho scelto quelle che si godono in sul fatto stesso e che niuna sorta di onore portano seco, ma si bene quelle che si colgono dalla gloria prodotta dalla bontá dei costumi e delle azioni. Vuoisi poi giudicare delle virtú esaminandole, non tutte negli stessi casi, ma la giustizia laddove l’uomo trovasi disagiato di roba, la temperanza laddove egli è in istato potente, la continenza, nell’etá giovanile. Ora in tutte queste condizioni si è potuto vedere il saggio delle mie qualitá. Perciocché, lasciato da mio padre in istrettezza di danari, io mi sono portato con giustizia tale che io non ho dato materia di rammarico a un cittadino qual si fosse; venuto in quel grado di potenza dove l’uomo fa quel ch’ei vuole, io mi sono dimostrato piú temperante che non fanno i privati; e l’uno e l’altro a tempo che io mi trovava in quell’etá nella quale veggiamo che i piú degli uomini sogliono nelle loro azioni trascorrere piu che mai. Tutte queste cose, forse che a dirle con altri io non mi arrischierei leggermente, non che egli non me ne paia meritar lode o che io non la curi, ma per dubbio ch’elle non mi fossero credute; ben le dico francamente con voi, che al tutto me ne potete essere testimoni. Ora egli si conviene lodare e ammirare eziandio quelli che sono costumati naturalmente, ma piú quelli in cui la costumatezza procede anco da ragione; perciocché ove quella è caso e non consiglio, medesimamente il caso la può disfare; ma quelli che oltre alla disposizione ingenita, hanno stabilita nell’animo per giudizio e conoscimento questa sentenza, la virtú essere il maggiore di tutti i beni, manifesto è che mai non sono per lasciare si fatto stile. Mi sono voluto distendere in questi ragionamenti, cosi di me stesso come delle altre cose dette fin qui, per non vi lasciar luogo a nessuna scusa che voi non dobbiate far prontamente e di buona voglia quanto io vi sono per consigliare e per comandare. Dico dunque che ciascuno di voi faccia quello ufficio al quale è preposto, con accuratezza e rettitudine; perché se voi mancherete dell’una o dell’altra in qualunque parte, necessario è che in quella parte le cose non riescano come dovrebbero. Però non dovete spregiare né trascurare nessuno de’ miei comandamenti, immaginandovi che questi o quegli altri montino poco; anzi dovete pensare che da ciascuna delle parti dipenda che buona o cattiva sia la condizione del tutto, e usar diligenza proporzionata a questa opinione. Tanta cura abbiate delle cose mie, quanta delle vostre proprie; e non vi date ad intendere che piccioli beni sieno quegli onori che hanno i ministri miei buoni. Astenetevi dalla roba d’altri, se volete piú sicuramente possedere la roba vostra; e portatevi verso quelli nel modo che voi giudicate che io mi debba portare verso di voi. Non vi caglia piú dell’arricchire che dell’aver buona fama, perché dovete sapere che qualunque è tra i greci o tra i barbari, maggiormente celebrato dagli uomini per la virtú, ciascuno di questi tali ha maggior quantitá di beni in suo potere. I guadagni fatti per modi ingiusti, abbiate per fermo essere per produrre, non mica ricchezza, ma pericolo. Non vogliate pensare che il ricevere o prendere sia guadagno, il dare, discapito; perocché né l’uno né l’altro importa quel medesimo sempre, ma qualunque dei due fassi a tempo ed onestamente, ritorna in beneficio di chi lo fa. Non abbiate a grave niuna delle mie commissioni, perché quelli di voi che mi saranno utili in maggior numero di servigi, avanzeranno maggiormente le case loro. Fate conto che niuna di quelle cose delle quali ciascuno di voi sará consapevole a sé medesimo, mi debba restare occulta, ma quando io vi sia lontano colla persona, pensate che l’animo mio si trovi presente a ogni cosa; perché con questo pensiero procederete nelle vostre deliberazioni piú sanamente. Non mi vogliate celar che che sia né di quanto voi possedete né di quanto operate o siete per operare; considerando che sopra le cose occulte nascono necessariamente molti sospetti. E cosi non vogliate usar un tenor di vita artificioso e nascosto, ma procedere con semplicitá e scopertamente per modo che niuno, eziandio volendo, possa trovar taglio di accusa contro di voi. Esaminate ogni atto che siate per fare, e abbiate per cattivi quelli che voi non vorreste che io sapessi, per buoni quelli a cagione dei quali io terrovvi, dove io li risappia, in migliore estimazione di prima. Se vi abbattete a scoprire o fatti o disegni contrari alla mia potestá, non ve li conviene tacere, ma dinunziargli, e pensare che quella pena medesima che è dovuta a chi pecca, si conviene ancora a chi nasconde il peccato. Felice dovete riputare non chi male operando non è veduto, ma chi non fa male veruno, atteso che egli è da credere che l’uno e l’altro abbiano a riportare quella mercede che si appartiene al merito di ciascuno di loro. Non fate compagnie né ritrovi senza il mio consenso, perché si fatte congiunzioni in tutti gli altri stati servono ad avvantaggiarsi, ma elle corrono pericolo nelle monarchie. Astenetevi non solo dalle malvage opere, ma da quegli andamenti altresí e da quegl’instituti i quali di necessitá danno materia di sospetto. Abbiate l’amicizia mia per sicurissima e costantissima, e sforzatevi di conservare lo stato presente né vogliate desiderar mutazione alcuna; considerando che per cosi fatti moti, forza è che periscano le cittá e che le case private rovinino. Fate ragione che l’asprezza o la mansuetudine dei principi non procede solo dalla natura di quelli, ma eziandio da’ portamenti dei cittadini, perché molti signori per la malvagitá dei sudditi sono necessitati di usare un governo piú duro che non vorrebbono. Fondamento di sicurezza d’animo vi debbe essere non piú la benignitá mia che la vostra propria virtú. E abbiate a mente che l’essere io libero da pericoli, dará luogo a voi di poter anco vivere senza timori, perché se le mie cose staranno bene, le vostre eziandio staranno non altrimenti. Voi dovete essere umili verso l’imperio mio, con osservare i costumi introdotti e custodire le leggi reali ; ma splendidi nei servigi della cittá e nello eseguire i miei comandamenti. Studiatevi di menare i giovani alla virtú, non solo colle parole, ma eziandio mostrando loro colle opere come abbiano a esser fatti gli uomini buoni e d’assai. Ammaestrate i figliuoli propri a sapere essere governati dai principi, ed assuefategli a porre nello studio di cosi fatta virtú la maggiore industria e la maggior cura del mondo; perocché se eglino impareranno ad essere governati, saranno poi molto meglio atti a governare; e se eglino riusciranno fedeli e diritti, entreranno a parte dei nostri beni; se tristi, andranno a pericolo di perdere i loro propri. E fate giudizio di avere a lasciare ai figliuoli una ricchezza grandissima e stabilissima, se voi lascerete loro la nostra benevolenza. Abbiate per supremamente miseri e sfortunati quelli che sono mancati di fede a chi si era fidato di loro; necessaria cosa essendo che questi tali vivano il rimanente della loro vita in grande sconforto, avendo sospetto e paura di chicchessia e non si fidando piú degli amici che dei nemici. Paianvi degni d’invidia, non quelli che abbondano di ricchezze piú che gli altri, ma quelli a cui la coscienza non rimorde di nessun atto o pensamento sinistro; perché l’uomo può, con si fatto animo, trapassare la vita piú dolcemente. E non vi date ad intendere che la malizia possa meglio fruttare che la virtú; solo aver nome piú fastidioso a sentire: anzi abbiate per fermo universalmente che la proprietá delle cose corrisponda ai nomi che elle portano. Non vogliate avere invidia a quelli che per disposizione mia tengono i primi luoghi, ma piuttosto emulargli, e sforzarvi, coll’adoperar bene e valentemente, di pervenire agli stessi gradi. Quelli che il principe ama ed onora dovete amare e onorare anche voi, se volete essere da me vicendevolmente onorati ed amati. I pensieri vostri quando io vi sono lontano, fate che corrispondano alle parole che voi dite alla presenza mia; e piú che colle parole, dimostratemivi affezionati colle opere. Guardatevi di non fare agli altri quello che voi non potete portare in pace che sia fatto a voi, e medesimamente di non seguitare in effetto nessuna di quelle cose che voi condannate in parole. Aspettatevi di aver a esser trattati secondo quali saranno i pensieri vostri verso il principe. Non vogliate solo commendare gli uomini da bene, ma prendergli anco a imitare. Abbiate le mie parole per leggi, e studiatevi di osservarle, perché quelli di voi che faranno maggiormente ciò che io voglio, avranno facoltá di vivere come essi vorrebbono. E a recare le molte parole in poche, voi dovete procedere verso l’imperio mio nel modo che voi giudicate che si debbano portare verso di voi medesimi quelli che vi sono sottoposti. E adempiendo voi le predette cose, che starò io qui ad esporvi distesamente gli effetti che seguiranno? Basta che se io continuerò nello stile usato fin qui, e voi farete come innanzi quanto vi si appartiene, non passerá gran tempo che voi vedrete ridotta la vita vostra in istato piú copioso e felice, accresciuto il mio regno, e la cittá in fiore. Nessuno espediente per veritá sarebbe da pretermettere; ogni qual si sia fatica o pericolo che si richiedesse, sarebbe da sostenere di buona voglia per l’acquisto di cosi fatti beni. Ora voi potete senza alcun travaglio né rischio, con solo essere giusti e fedeli, conseguire tutte queste felicitá.