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Novella XLI - Infelice esito dell’amore del re Massinissa e della reina Sofonisba sua moglie
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IL BANDELLO

al vertuoso signore

il signor

rinuccio farnese


Non molto dopo il sacco di Roma fatto dagli spagnuoli e dai tedeschi soldati de l’imperadore, voi vi trovaste con la compagnia vostra di cavalli leggeri, essendo alora ai servigi e al soldo dei signori veneziani, nel contado de la cittá di Viterbo; ed essendo i caldi molto grandi, ché era del mese di giugno, voi invitaste a desinar con voi il signor Lucio Scipione Attellano ambasciatore del signor duca Francesco Sforza e voleste che di compagnia anch’io vi venissi. Il luogo ove quel giorno ci conduceste fu una freschissima ed agiata stanza tutta intagliata a scarpello dentro un tofo, e dinanzi al luogo v’era un bellissimo e fruttifero oliveto con una viva, fresca e chiara fontana che fuor d’un sasso ivi vicino sorgeva. Quivi adunque trovammo che v’era prima di noi giunto il gentilissimo signor Giorgio Santa Croce, col quale io aveva giá contratta lunga e dolce domestichezza quando assediandosi Milano il campo de la lega era a Lambrate e quivi d’intorno. Ora essendosi posti a tavola, si desinò con tal apparecchio e con si delicate e varie vivande e con si bell’ordine e si preziosi vini, che non in uno essercito in’campagna pareva che si fosse, ma sarebbe stato assai se il desinare si fosse fatto in Roma innanzi che ella fosse saccheggiata. Dopo desinare ragionandosi di varie cose, voi pigliaste in mano il libro de le divinissime rime del Petrarca, e leggendo alcuni sonetti si cominciò sommamente a commendar da tutti l’alto e candidissimo stile, le belle e scelte e proprie parole con la disposizione e nascosti sensi dal poeta usati. Cominciaste poi a legger nei Trionfi la bella istoria di Masinissa e Sofonisba, 102 PARTE PRIMA la quale tutta piena di compassione quasi ci tirò le lagrime sugli occhi. Alora fu da voi pregato il signor Giorgio Santa Croce che volesse la detta istoria, per contentezza del signor ambasciatore e mia, narrare in quel modo che un’altra volta dicevate che narrata vi aveva, essendo tutti dui con molti signori e gentiluomini a diportarvi sovra il lago di Bolsena. Il che egli disse di fare. E cosi a la presenza vostra e di molti gentiluomini che quivi avevano desinato egli ci narrò la pietosa istoria. Onde avendomi voi imposto che volessi scriverla, vi promisi di farlo. Per questo, essendo a Cortona alcuni giorni dimorato, l’ho scritta come meglio ho saputo e sotto il vostro nome collocata come sotto un forte scudo, a ciò che se alcuno mi mordesse che avendola io sentita recitare ad un eloquentissimo romano l'abbia con parole non romane scritta, possiate scusarmi che ho fatto quanto ho potuto. State sano. NOVELLA XLI Infelice esito de l’amore del re Masinissa e de la reina Sofonisba sua moglie. Dapoi che il caldo del mezzogiorno comincia a pigliar cre- scimento pur assai ed ora non ci accade faccenda che importi, e voi, signor mio, volete che in questo freschissimo luogo io narri l’infelicissimo esito degli amori del re Masinissa e de la sua reina Sofonisba, io vi dico che egli fu figliuolo di Gala re dei massezuli, i quali son popoli numidici ; e militando con i cartaginesi ne la Spagna contra i romani, avendo prima combattuto onoratamente contra il re Siface ne la Numidia, avvenne che Gala suo padre mori, onde il regno fu da altri occupato. Il perché sofferendo con animoso core l’avversa fortuna e variamente con i nemici suoi combattendo, ed ora parte del regno acquistando ora perdendo e talvolta Siface e i cartaginesi molestando, fu spesso vicino ad esser morto o preso. Con questi suoi travagli, non cedendo mai a fatica, riuscì molto famoso, di modo che appo quei popoli affricani s’acquistò chiaro nome di valente e prode soldato e d’avveduto e provido capitano. Era NOVELLA XLI 103 poi generalmente da’ soldati molto amato, perciò che con loro non da figliuolo di re o come prencipe viveva, ma da guerriero privato e compagno con loro conversava, nomando ciascuno per proprio nome ed accarezzando ed onorando ciascuno secondo che meritava, servando però tuttavia un certo decoro di superiore. Aveva già egli per mezzo di Sillano, essendo in Spagna, fatta privatamente amicizia con quello Scipione che poi fu chiamato Affricano e che alora con imperio proconsolare gloriosa- mente in quella provincia i cartaginesi debellava. Fece lega poi con i romani, e santissimamente fin che visse l’amicizia del popolo romano osservò e quella ai figliuoli e nipoti lasciò ereditaria. Cominciata adunque la guerra ne l’Affrica dai romani, egli subito con quelle genti che puoté avere venne a trovar il suo Scipione. Non dopo molto essendo Siface rotto e preso, andò Masinissa con Lelio a pigliar le città del reame che già fu di Si- face, e al capo de la provincia, che era la città di Cirta, indirizzò l’essercito. Era in quella Sofonisba moglie di Siface e figliuola di Asdruballe di Giscone, la quale aveva alienato l'animo del marito dai romani con i quali era collegato, e mediante le suasioni di quella s’era messo per diffender i cartaginesi. Sofonisba sentendo che i nemici erano già entrati in Cirta e che Masinissa dritto al reai palazzo se ne veniva, deliberò andargli incontra e veder d’esperimentare la benignità e clemenza di lui. Onde ne la calca de’ soldati che già nel palazzo erano entrati, animosamente si mise e andando innanzi quinci e quindi si rivolgeva, risguar- dando se fra tanta moltitudine poteva a qualche segnalata cosa conoscer Masinissa. Ella in questo vide uno il quale a l’abito e a l'arme che indosso aveva e al rispetto che da ciascuno gli vedeva usare, giudicò quello senza dubio veruno esser il re. 11 perchè dinanzi a quello inginocchiata, in questa maniera pietosamente a parlar cominciò : — Poi che la tua vertù e la felicità insieme con il favore degli dèi hanno permesso che tu abbia ricuperato il tuo antico regno, vinto e preso il tuo nemico e che tutto quello che più t’aggrada tu di me puoi fare, io però da la tua mansuetudine e clemenza confortata prenderò ardire con supplichevoli voci pregarti e prima basciarti le vittrici mani. — 104 PARTE PRIMA E detto questo, postasi in ginocchione dinanzi a quello e le ginocchia di lui abbracciando e le mani basciandogli, disse molte parole piene di compassione. Ella era sul fiore de la sua età e in quei tempi la più formosa, leggiadra e bella giovane che l’Affrica avesse. E tanto di vaghezza il pianger l’accresceva quanto a molte soglia l'allegria ed il soave e moderato riso aggiungere; di maniera che Masinissa essendo giovine e secondo la natura dei numidi molto facile ad irretirsi nei lacci de l’amore, veggendosi tanta beltà innanzi non si poteva saziare con occhio ingordo e a fiamme amorose pieghevole di rimirarla e vagheggiarla. Non se ne accorgendo adunque, egli si fieramente di lei s’accese che mai più non arse si cocente fiamma qual si fosse amoroso core. Onde fattole animo e da terra levandola, quella essortò a seguire il suo parlare, la quale cosi disse: — Se a me tua prigionera e serva lece, o signor mio, pregarti, io umilmente ti prego e ti supplico per la regai maestà ne la quale poco avanti eravamo ancora noi come tu al presente sei, e per il nome numidico stato a te e a Siface commune, e per i dèi tutelari e padroni di questa città i quali con miglior fortuna e più lieti successi e prosperi in quella ti ricevano che fuor Siface non mandarano, che tu di me pietoso esser ti degni. Né pensare che io gran cosa voglia. Usa l’imperio tuo e quello che la ragion de la guerra vuole sovra di me. Fammi se vuoi in dura prigione macerare o quella morte con quelli tormenti che più ti aggradano patire. Che sia la morte che io soffrirò quanto si voglia acerba, fiera e crudele: a me più cara assai sarà che la vita, perciò che io nessuna morte rifiuto, pur che io non venga a le superbe mani ed arbitrio crudelissimo dei romani. Quando io altra non fossi che stata consorte di Siface, tuttavia d’un numida e meco in Affrica nato voglio più tosto la fede esperimentare che d’uno degli stranieri. Io so che tu conosci ciò che una cartaginese e figliuola di Asdruballe debbia fermamente da' romani aspettare e da la superbia di quelli temere. Se tu, signor mio, hai sorelle, pensa che in tale si trista ed avversa fortuna potrebbero cadere quale è questa ove io mi ritrovo. Cosi fatta è la rota de la fortuna, la quale ogni di veggiamo instabile, volubile e varia, che ora pace NOVELLA XLI '05 ora guerra, ora bene ora male ne apporta, ora lieti ed ora di inala voglia ne fa essere, ed ora ne leva in alto ed ora al profondo de l’abisso ne fa tornare. Ti sia Siface un vivo e chiaro essempio dinanzi agli occhi che fermezza sotto al globo de la luna non si può avere. Egli era il più potente e ricco re che in Affrica regnasse, ed ora è il più misero ed infelice che si truovi in terra. Né per questo voglio io esserti presaga né indovina d’alcun futuro male, anzi santamente tutti i dèi prego che te e tutti i descendenti tuoi nel regno de la Numidia felicemente regnar lascino. Degnati adunque liberarmi da la servitù dei romani, e se altrimenti non puoi se non con la mia morte, io ti dico che quella mi sarà gratissima. — Dicendo queste parole prese la destra mano del re e quella più volte dolcemente basciò, e già i preghi cominciavano in lusinghevoli e lascive carezze a voltarsi, di modo che non solamente l’animo de l'armato e vincitor giovine a misericordia e pietà mosse, ma stranamente ne l'amorose reti lo avviluppò. II perché il vincitor da la vinta, il signore da la sua serva fu vinto e preso. Indi con tremante voce cosi le rispose: — Pon fine, o Sofonisba, al largo pianto e caccia da te la téma che hai, ché non solamente a le mani del popolo romano non verrai, ma se a te piace io per legitima moglie ti prendo ed accetto, in modo che non prigionera ma reina viverai. — E dette queste parole, lei lagrimante abbracciò e basciò. Ella al volto, ai cenni, ai gesti e a le interrotte parole de l’amante nuovo comprendendo l'animo del numida esser di.ferventissimo amore acceso, per più infiammarlo con un atto di pietade che i ferini cori de le ircane tigri averebbe intenerito e d’ogni fierezza spogliato, di nuovo se gli lasciò cader a' piedi, e quelli cosi armati basciando e con caldissime lagrime irrigando, dopo molti singhiozzi ed infiniti sospiri, essendo da lui sollevata, disse: — O gloria ed onore di quanti regi mai furono, sono e saranno, e di Cartagine mia infelice patria mentre ella ne fu meritevole sicurissima aita e ora presente e terribilissimo spavento, se la mia fortuna dopo si gran rovina può rilevarsi, qual maggior grazia, qual cosa in tutta la vita mia più lieta e fortunata mi può accadere che esser da te chiamata tua moglie? O me più d’ogn' altra felice di tanto e si famoso io6 PARTE PRIMA consorte! O veramente aventurosa e felicissima mia rovina, o fortunatissima mia disgrazia, se cosi glorioso e senza fine da deversi desiderar matrimonio ni’era apparecchiato! Ma perché i dèi a me son contrari e il debito fine de la mia vita è giunto, cessa ormai, signor mio caro, di raccender la mia ammorzata anzi spenta speranza, perciò che in tal stato mi veggio che indarno contra il voler dei dèi ti affatichi. Assai gran dono ed in vero grandissimo riputerò da te ricevere se morir mi farai, a ciò che per tuo mezzo o con le tue mani, ché molto più grato mi fia, morendo esca de la téma di servir ai romani e venir in poter loro, e questa anima libera ai Campi Elisi se ne vada. L’ultimo termine dei miei prieghi e tutto quello che io da te desio e eh’ io supplico è il fuggir le forze romane e non esser a quelle soggetta. Questa è la meta e il fine dei preghi miei e d’ogni mia domanda. L’altre cose che tu la tua mercé mi offerì, io non ardirei non dico chiederle ma desiarle, ché a dir il vero lo stato adesso de la mia fortuna tanto alto salire non presume. Prego bene l’eterno Giove con tutti gli altri dèi che il tuo buon animo verso me riguardando, lungamente l’acquistato regno godere ed a maggior termini quello ampliar ti lascino. Io poi quelle grazie che per me si ponno maggiori ti riferisco. — Furono si efficaci queste parole che Masinissa non puoté mai le lagrime affrenare, ma per pietà de la donna lagrimante piangendo, ultimamente cosi le disse: — Lascia, reina mia, questi tuoi pensieri e rasciugando il pianto metti fine al dolore e sta’ di buon animo, ché questa fortuna a te cosi noiosa ed avversa cangerà stile e i dèi con meglior successo il rimanente de la vita tua perseguiranno. Tu moglie mia sarai e reina, e di questo la fede mia chiamando li dèi in testimonio ti obligo ed impegno. Ma se per caso — o Giove, noi consentire — io mi vedessi astretto a darti a’romani, vivi sicura che in poter loro viva non andarai. — Con queste promesse, in segno de la fede egli diede la destra a Sofonisba e con lei ne le stanze interiori del regai palazzo entrò. Quivi poi pensando Masinissa tra sé come la promessa fede a la donna serbasse, da mille pensieri combattuto e quasi la sua rovina palese veggendo, da temerario e mal sano amore NOVELLA XLI 107 consegliato, quell ’ ¡stesso giorno publicamente per moglie la sposò e le nozze tumultuarie fece, come se Sofonisba più non devesse esser in arbitrio de’ romani poi che da lui era sposata. Venne dopo questo Lelio, il quale avendo inteso queste nozze se ne turbò fortemente e si sforzò mandar Sofonisba come preda romana insieme con Siface a Scipione. Ma dai prieghi e da le lagrime di Masinissa vinto, che il giudicio del tutto rimetteva a Scipione, mandò Siface con gli altri prigioni e preda e attese insieme con Masinissa a la recuperazione degli altri luoghi del regno, per non ritornar in campo se la provincia non veniva tutta in mano dei romani. Aveva ben prima esso Lelio minutamente del successo del matrimonio avvisato Scipione, il quale intendendo queste cose e la celebrazione di cosi precipitate nozze si turbò molto forte ne l’animo suo, meravigliandosi che Masinissa non avesse prima aspettato Lelio e che quel di che entrato era in Cirta avesse fatte queste mal consegliate nozze. E tanto più il fatto di Masinissa a Scipione dispiaceva quanto che egli era da simili disconvenevoli e disonesti amori in tutto alieno, di modo che in Spagna non s’era da bellezza né leggiadria di donna lasciato piegare dal suo onesto e lodevole proposto già mai. Pertanto giudicava l’atto di Masinissa esser stato fuor di tempo, poco onorato e degno d’esser biasimato da qualunque persona lo sapesse. Tuttavia come savio ch’egli era e prudente, dissimulava ciò che nel core aveva, aspettando l’occasione di por rimedio a tutto. Ora devendo insieme con Lelio Masinissa ritornar in campo, quali egli ragionamenti con Sofonisba facesse, quante lagrime spargesse, quanto sospirasse, se io volessi narrare averei troppo che fare e mi mancherebbe il tempo. Egli due o tre notti, che furo a tanti desiri brevi e scarse, a pena era seco giacciuto e già sapeva che Lelio quella come prigionera richiedeva. Il perché di grandissima angoscia pieno e vari pensieri facendo, da lei si parti e in campo se ne ritornò. Scipione onoratamente l’accolse e vide, e a la presenza de l’essercito e lui e Lelio lodando, quanto fatto avevano molto commendò. Poi nel suo padiglione menandolo gli disse: — Io penso, Masinissa mio, che l’openione che de le mie vertù avuta hai, primieramente ti PARTE PRIMA conducesse in Ispagna col mezzo del mio prode Sillano a far meco amicizia, e poi indutto t’abbia qui in Affrica e te e le cose tue metter ne le mie mani. Ma pensando io qual sia quella vertù che a ciò mosso t’abbia, essendo tu d’Affrica ed io di Europa, tu numida ed io latino e romano di vari e diversi costumi e idioma differentissimi; pensando, dico, che cosa fosse in me che di ricercarmi spinger ti devesse, giudico io fermamente la temperanza e l’astinenza dai piaceri venerei, le quali in me vedute hai e per cui io più che di cosa che in me sia mi apprezzo e stimo, esser state quelle che ad amarmi ed unirti meco indutto ti abbiano. Queste virtuti vorrei io, Masinissa, che tu a l’altre tue buone doti e ai beni che in te sono da la natura creati e con l’industria tua fatti megliori aggiungessi. Pensa ben bene che tanto non deve la nostra giovenil età gli armati esserciti dei nemici temere, quanto le sparse d'ogn’intorno delicatezze e le voluttuose delettazioni, e massimamente il periglio che a noi sovra sta de le carezze feminili. Onde colui che l’amorose passioni temperatamente affrena o doma e a le lascivie il petto chiude e tra queste sirene con gli orecchi serrati passa, assai maggior gloria acquista che noi acquistato non abbiamo ne la vittoria contra Siface. Annibaie, il maggior nemico che mai avessimo noi romani, uomo fortissimo e capitano quasi senza pari, da le delizie e feminili abbracciamenti d’alcune donne effeminato, non è più quel virile e gagliardo imperadore che esser soleva. I.e cose che in mia lontananza ne la Numidia valorosamente fatte hai, la tua sollecitudine, la prontezza, l’animosità, la fortezza ed il valore, la celerità e tutte l'altre tue buone parti di vera lode meritevoli, volentieri ricordo e di commendarle mai non mi sazio. Il resto più caro averò che teco stesso pensi, a ciò che io dicendolo, non ti sia di vergognarti cagione. Come tu sai, Siface è stato dai nostri soldati preso; il perché egli, la moglie, il reame, i campi, le terre, le città e gli abitatori, e insomma tutto quello che fu del re Siface è preda del popol romano; e il re e la consorte sua, ben che non fosse cittadina di Cartagine, ben che il padre di lei capitano dei nemici non vedessimo, bisognarebbe mandar a Roma e il tutto a l’arbitrio del NOVELLA XLI 109 senato e popolo romano lasciare. Non sai che Sofonisba con le sue ciancie ha il re Siface nostro confederato alienato da noi e fatto prender contra noi l’arme? Vinci l’animo tuo, Masinissa, e guarda che tu non macchi molte altre buone parti che riguardevole ti fanno con un vizio solo, e che tu non guasti tanti meriti e la grazia di quelli con maggior colpa che non è la cagion de la colpa. — Masinissa udendo queste agre e vere riprensioni non solamente arrossi per vergogna, ma amaramente piangendo disse che era in poter di Scipione. Tuttavia quanto più poteva caldamente il pregava che se era possibile gli lasciasse la data scioccamente fede osservare, perciò che a Sofonisba giurato aveva che viva non anderebbe in poter de’ romani. Dopo altre cose dette parti Masinissa ed al suo padiglione andò, ove tutto solo con caldi e frequentissimi sospiri, con dirotte ed amarissime lagrime e pianti di maniera alti che dai circonstanti al padiglione erano uditi, tutto il di piangendo dimorò non sapendo che fare, e de la notte anco buona pezza stette, ed ora una cosa ed ora un'altra pensando, più che mai confuso non puoté mai dormire. Cadevagli in animo passate le colonne de Io stretto da Ercole poste, di navigar a l'isole Fortunate con la moglie. Pensava d’andarsene con lei a Cartagine e in aita di quella città mettersi contra i romani. Deliberava talora col ferro, col veleno, col laccio o in altro modo la vita e i tanti suoi dolori finire. Fu più volte vicino ad ammazzar se stesso, ma non per téma de la morte, ma per non macchiar la sua fama si tenne. Si gettò sovra il letto ed or qua or là dimenandosi luogo di quiete non trovava. Ardeva il misero amante come negli aperti campi la stipa dal fuoco si consuma, e non trovando a le sue pene conforto, cosi a dir cominciò: — O Sofonisba mia cara, o vita de la mia vita e a me assai più che la luce degli occhi miei amabile e dolce, che sarà di noi? Oimè, più concesso non mi sarà veder il tuo vago ed amoroso viso, le bionde chiome, quei begli occhi che mille volte hanno fatto invidia al sole e sentir la soave armonia de le parole, la cui dolcezza può a Giove nel maggior furore, quando irato le folgoranti saette vibra, l’arme tor di mano. Ahi, che più non mi sarà lecito queste braccia gettarti al collo, 1 IO TARTE PRIMA la cui candidezza di convenevol rossore sparsa avanza le ma- tutine rose. Ma non voglia Iddio senza te ch’io viva, ché tanto viver senza te potrei quanto un corpo può senza spirito in vita stare. Siami, o Giove, da te concesso che ambidui un sepolcro chiuda, a ciò che il vivere che qui teco m’è negato mi sia tra l’ombre concesso. E quale, o Dio buono, sarà nei Campi Elisi tra quegli spiriti più di me beato, se io teco potrò per l’ombrose selve degli odorati e verdi mirti andarmene spaziando? Quivi i nostri amari e dolci amori insieme senza impedimento niuno più volte raccontaremo, rammentando le cose passate, gioiendo del diletto e sospirando de la pena. Quivi non sarà già il rigido e severo di marmo Scipione, che le passioni amorose non cura e per questo a le mie acerbe pene non ha compassione, non avendo mai provato che cosa sia amore. Egli alora con le sue troppo crudel parole non verrà già a persuadermi che io ti lasci o che io ne le mani dei romani ti metta e sia cagione de la tua miserabile durissima servitù. Egli non mi garrirà già che io si ferventemente ti ami. Noi staremo pure senza sospetto di lui o d’altri che ne possano separare e la nostra dolcissima compagnia dividere. Deh, avessero voluto gli immortali dèi che egli ne l’Affrica non fosse passato già mai, ma che sempre in Sicilia, in Italia e ne le Spagne dimorato si fosse. Ma che dico io, smemorato e pazzo che sono? Se egli in Affrica navigato non fosse e fatta la guerra contra Siface, come averei io mai veduto la bella Sofonisba, la cui bellezza ogn’altra bellezza avanza, la leggiadria è senza pare, la grazia indicibile ed inestimabile, i modi rari ed incomparabili e il tutto che è in lei non si può con parlar umano agguagliare? Se Scipione qui venuto non fosse, come ti averei, o mia cara speme ed ultimo termine dei miei desii, conosciuta? Certamente né tu mia moglie saresti, né io tuo marito divenuto sarei. Almeno sarebbe questo, che tu ora non saresti in tanti affanni come ti ritruovi, sapendo che la vita tua degnissima di lungo e felice termine è su la bilancia, se viva dèi restare o no; anzi è pur conchiuso che se tu viva resti, che a’ romani in preda sii data. Ma tolgano gli immortali dèi che tu del popolo romano diventi preda. E chi potrà creder già mai che Scipione NOVELLA XLI III in una medesima cosa a me doni la vita e di quella mi spogli? Non mi donò egli la vita essendomi stato la verissima cagione di farmi andar a Cirta, ove la vita mia che è la bellissima Sofonisba ritrovai? E senza lei, lasso me, che fora starmi in questa angoscia e penace vita? Ma, misero me, non mi spoglia egli de la vita e la morte mi dona volendo Sofonisba in suo potere? Oimè, perché subito dopo che Siface fu preso non andò egli in Italia, od almeno perché non si ridusse in Sicilia? Perché non menò egli Siface a Roma a presentar cosi glorioso spettacolo del re de la Numidia al suo popolo romano? Se Scipione qui non fosse, tu, Sofonisba, liberamente mia rimarresti, perciò che con Lelio averei trovato mezzo di salvarti. Ma certamente, se Scipione vedesse una volta Sofonisba e un poco piegasse gli occhi a la sua incredibil bellezza, io non dubito punto che egli di lei e di me non si movesse a compassione e non giudicasse che ella meritasse restar reina non solamente di Numidia ma d’ogn’al- tra provincia. Or che so io se egli la vedesse che di lei non s’innamorasse e per sé quella togliesse? Egli è pur uomo come gli altri, ed impossibil mi pare che a si fatta beltà non intenerisse quella durezza de l'animo suo. Ma oimè, che parlo? che vaneggio? Veramente io m'aweggio bene che, come proverbialmente si dice, io canto a’sordi, e a’ciechi voglio insegnar che cosa siano i colori e come distinti, ed eglino che son nati ciechi come impareranno? Misero me e dei miseri il più misero! Ecco che Scipione domanda Sofonisba come cosa appartenente a lui, perciò che disse quella esser preda e parte de le spoglie dei soldati romani. Che debbo fare? darò io Sofonisba a Scipione? Egli la vuole, egli mi costringe, egli essorta e mi prega; ma io so bene quanto in me ponno l'essortazioni sue e sotto le preghiere che cosa giace. Adunque io Sofonisba in sue mani metterò? Ma prima il sommo Giove le sue fiammeggianti saette in me dirizzi e nel profondo de l’inferno mi folgori, prima s'apra la terra e m’inghiotta, prima sia il corpo mio a brano a brano in mille pezzi stracciato e divenga cibo di fere selvagge ed esca di corbi ed avoltori, che io mai tanta e si empia sceleraggine commetta e rompa la fede che con giuramento ho promessa. Oimè, che 112 PARTE PRIMA dunque farò io? Egli pur ubidir mi conviene e a mal mio grado far ciò che l’imperador de l'essercito comanda. Lasso, che a questo pensando io moro. Adunque per minor male e per serbarti quanto t’ ho promesso, o mia Sofonisba, tu morirai e col mezzo del tuo caro marito fuggirai il giogo de la fiera servitù romana, perché cosi al crudo Giove piace e mi astringono i miserabili cieli che io del mio male sia il ministro. Cosi, o vita mia, quanto per me si fa, solamente è fatto per mantenerti la fede che ultimamente ti confermai. — E pensando mandarle il veleno, venne di nuovo in tanta furia e tanto lo sdegno in lui s’accese che pareva forsennato, e come se Sofonisba dinanzi avuta avesse, cosi seco parlava, cosi le diceva le sue passioni e con lei si lamentava. Piangendo poi buona pezza dirottamente, in parte sfogò il suo dolore, non perciò che totalmente restasse libero. Onde cominciò di nuovo a far chimere e farneticare. Quando io penso a tanto uomo come era Masinissa, che in vero fu un segnalato e nobilissimo re che con tanta prudenza gli acquistati e recuperati reami governò e che cosi costantemente perseverò ne l’amicizia del popolo romano, io prego Dio che gli amici miei e me insieme non lasci entrare in cosi intricato amoroso labirinto come egli si trovava, ma concederne che più temperatamente amiamo. Pertanto io vi essorto, signor Rinuccio, che ora che voi séte sul fiorir de la vostra bellissima fanciullezza vi guardiate da cotesti amori cosi poco regolati, e che tanto innanzi ne la pania amorosa non mettiate il piede che in quella siate astretto ognora più impaniarvi. Ma ritornando al nostro afflitto Masinissa, vi dico che egli diceva: — Adunque io manderò il veleno a la mia vita? Tolgano li dèi che questo sia già mai. lo più tosto la menerò ne l’ultime parti de l’incognita ed arenosa Libia, ove tutta la contrada è di serpenti piena. Quivi più sicuri assai che in qual si voglia luogo saremo, perciò che il crudele ed inesorabil Scipione non ci verrà, e i serpenti veggendo la rara e divina bellezza de la mia bellissima Sofonisba raddolciranno i lor amari veleni e a me per rispetto di lei non noceranno. Moglie mia dolcissima, io delibero che noi ce ne fuggiamo a ciò che tu possa schivar la servitù e la morte. NOVELLA XLI 113 E se non potremo nosco portar oro e argento, non ci mancherà modo di vivere, essendo molto meglio viver con pane ed acqua che restar in servitù. E teco vivendo che povertà potrò io sentire? A l’essilio e a la povertà io .sono avvezzo, perciò che cacciato fuor del mio reame, assai sovente ne l'oscure caverne mi son riparato e con le fiere visso. Ma tu, moglie mia cara, che in tante delicatezze e vezzi sei nodrita e sei solita in piaceri e regalmente vivere, come farai? So che il core non ti daria di seguirmi. E se pur venir tu volessi, ove ho io adesso modo di navigare? In mare è l’armata romana che ogni passo ci chiude. In terra Scipione con i suoi soldati tutte le vie occupa e de la campagna è signore. Che farò adunque, misero me e sfortunatissimo? Io pur vaneggiando vo con gli accerbi miei pensieri e non m’accorgo del fuggir de l’ore, ché a quel ch’io veggio a mano a mano ne verrà il sole, perché l’alba comincia a biancheggiare. Già mi par veder il messo del capitano che Sofonisba voglia ne le mani. Il perché necessario è o darla od ucciderla. Ella più tosto elegge la morte che la servitù. — Onde deliberato mandarle il veleno, cascò in terra tramortito dal soverchio dolor preso. Tornato poi in sé, maledicendo la terra, l’acqua, l’aria, il fuoco, il cielo e li dèi de l'inferno e i celesti, dopo un acerbo e lagrimoso strido chiamò a sé un suo fidatissimo servo che secondo la costuma di quei tempi serbava sempre il veleno, e gli disse: — Piglia la mia coppa de l’oro e porta questo veleno a Cirta a la reina Sofonisba e le dirai : io più che volentieri il maritai nodo averei servato e la prima fede a lei data, ma che il signor del campo in poter di cui io sono me lo vieta. Io ho tentate tutte le vie possibili per far che mia consorte e reina restasse, ma il comandatore e i comandi sono stati si duri e forti che forzato sono d’offender me stesso e d’esser del mio mal ministro. Il veleno le mando con cosi dolenti pensieri come io so bene ed ella il crede e tu in parte veduto hai. Questa sola via le resta a servarsi da la servitù romana. Dille che ella pensi al valor del padre, a la degnità de la sua patria e a la maestà reale dei dui regi stati suoi mariti, e che faccia ciò che più convenevole a lei pare. Va’ e non perder M. Bandello, Novelle. 114 PARTE PRIMA tempo per via. — Partissi il servo e Masinissa come un battuto fanciullo piangendo si rimase. Gionto il messo a la reina e a quella la fiera ambasciata esposta e datole la coppa con il veleno, attese ciò che ella li direbbe. Pigliò la reina la coppa e il veleno e al messo disse: — Come io averò in questa coppa d’oro bevuto il veleno, tornerai al tuo signore e gli dirai che io volentieri accetto il suo dono, poi che altro non ha potuto il marito a la moglie mandare; ma molto meglio morta sarei innanzi a queste funebri nozze. — Né altro al messo dicendo, prese la coppa e dentro il veleno vi distemperò, e quella a la bocca postasi, intrepidamente tutta la bebbe, e bevutola al messo essa coppa rese, salendo sovra un letto. Quivi quanto più onestamente puoté le vestimenta sue a torno a sé compose, e senza lamentarsi o mostrar segno alcuno d’animo feminile animosamente la vicina morte attendeva. Le sue damigelle che a torno le stavano tutte dirottamente piangevano, di maniera che per il regai palazzo il pianto si senti e il romor si levò grandissimo. Ma poco stette Sofonisba che vinta da la vertù del veleno se ne mori. Il messo ritornò a Masinissa con questo si fiero annunzio, il quale pianse assai e fu spesse fiate vicino, se stesso con le proprie mani occidendo, a seguitar l'anima de la sua infinitamente da lui amata Sofonisba. Ma intendendo queste cose, il valoroso e saggio Scipione, a ciò che il feroce e pien di passione suo Masinissa contra se stesso non incrudelisse o altro disordine non facesse, quello a sé chiamato, con dolcissime parole quanto più puoté consolò e poi amichevolmente riprese che cosi poca fede in lui avuto avesse. Il seguente giorno poi a la presenza de l’essercito sommamente il lodò e il regno de la Numidia gli donò, dandogli di molti ricchi doni e di molta stima appresso i romani. Il che il senato e il popolo de la città di Roma approvò e con amplissimi privilegi confermò nomando Masinissa re di Numidia ed amico dei romani. Cotal fine adunque ebbe l’infelice amore del re Masinissa cotanto dal nostro divinissimo Petrarca lodato.

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