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IL BANDELLO
al dotto giovine
messer cristoforo cerpelio
bresciano
La vostra elegante e latinamente cantata elegia, Cerpelio mio, che, in lode mia composta, m’avete mandata, ho io lietamente ricevuta e con non picciolo mio piacere letta e riletta. E chi è colui che sia cosí stoico ed alieno da le passioni, a cui le proprie lodi sempre non siano care e che con diletto non le senta? Certamente, che io mi creda, nessuno. Quegli stessi filosofi, che nei libri loro essortarono gli uomini a disprezzare la gloria e non si curar de le lodi, andarono con gli scritti loro cercando la gloria e desiderando d’esser lodati. Egli è troppo appetibile e dolce Tesser lodato, e tanto, che non solamente gli uomini, ma bene spesso si sono veduti animali irrazionali, de le lodi che loro erano date, allegrarsi. Non nego adunque che la elegia vostra mirabilmente m’abbia dilettato, anzi liberamente lo confesso. Ed ancora ch’io non conosca esser in me quelle vertuose doti e quelle parti che di me cosí leggiadramente cantate, e porti ferma openione che tale mi predicate quale, amandomi, vorreste ch’io fossi; tuttavia il sentirmi da voi lodare m’è stato molto caro. Onde sommamente vi ringrazio che di me abbiate si buona openione e che a le mie rime volgari attribuiate ciò che a la vostra dotta e polita elegia meritamente si conviene, e vie pili assai che a me. Ma per non parere ch’io voglia rendervi il contracambio di parole, perciò per ora non dirò altro circa essa elegia. Io al presente assai poco attender a le muse posso, per i continovi affari del mio signore. Nondimeno, come io ho modo di rubar alquanto di tempo, mi sforzo pure di tornar 46S PARTE TERZA con loro in grazia. Scrivo poi talora de le novelle che sento narrare, o di cui dagli amici m’è il soggetto mandato. E perché so che vi piace legger de le mie composizioni, vi mando una breve novelletta, che qui in Verona nel suo palagio narrò il generoso ed umanissimo signor conte Alberto Sarrego in una piacevole compagnia. Essa novella ho dedicato al vostro dotto nome, a ciò che resti sempre appo chi la vedrà per testimonio de la nostra cambievole benevoglienza. State sano. NOVELLA LVI Un prele con una pronta risposta mitiga assai l’ira del suo vescovo che voleva imprigionarlo. Non è molto che essendo io andato a Milano a visitar il signor Lodovico Vesconte e Borromeo mio socero, che in casa sua mi fu nari aia una piacevolissima novella, per la quale manifestamente si comprende quanto a luogo e a tempo la prontezza d’un bel detto talora al suo dicitore giovi. Fu adunque, non è molto, vescovo di Como monsignor Gerardo Landriano, patrizio milanese, che fu anco cardinale, persona dotta e d’integrità di vita riguardevole molto e venerabile. Egli, visitando la sua diocesi, come regolarmente fa il nostro vescovo di Verona monsignor Matteo Giberti, riformò molti monasteri di monache e gli ridusse a l’osservanza de la religione. Ma ne trovò uno sovra il lago di Como, detto dai buoni scrittori il « lago Lario ». Esso monastero era da ogni banda aperto e le sue monache vivevano dissolutamente con mala fama. Fece il buon vescovo ogn'opera per riformare il detto monastero e ridurlo a qualche norma di religione. Erano cinque le monache e non più, le quali, perché erano avvezze a vivere licenziosamente, s’ostinarono di non voler cangiare il loro consueto modo di vivere. Il perché il vescovo diede loro per governatore un prete che passava quaranta anni, a cui tutta la contrada rendeva testimonio di dottrina e di santa vita. Comandò poi sotto pene gravissime che più non si ricevesse monaca alcuna. Il prete, presa la cura de le cinque monache, faceva ogni cosa per ridurle a vivere NOVELLA LVI 469 onestamente, essortandole a servar la regola loro. Ma egli vi s’affaticò indarno, perciò che assai più puotèro le cinque male femine che un solo prete. Onde andò si fattamente la bisogna, che elle pervertirono chi loro cercava convertire, perché, a dirla come fu, messer lo prete in meno di tre o quattro mesi tutte le ingravidò. Il vescovo, come intese tale sceleraggine, si fece condurre in Como esso prete, ed aspramente minacciandolo lo riprese e gli disse: — Sciagurato che tu sei, tu hai molto bene adoperato il talento che Iddio t’ha dato di predicare ed ammonir le persone a la tua cura commesse. A questo modo si fa? — E rivolto ai suoi disse: — Menate questo scelerato in prigione, e non se gli dia altro che pane ed acqua. — Era il prete prostrato in terra, ed alzando il capo, disse al vescovo: — Domine, quinque talenta tradidisti mi hi: ecce alia quinque superlucratus sum. — Che vuol dire: — Signore, tu m’hai dati cinque talenti: eccoti che altri cinque sovra quelli ne ho guadagnati. — Piacque tanto la pronta ed arguta risposta al vescovo, ancora che si pervertisse il detto evangelico, che egli, cangiata l’ira in riso, mitigò in parte l’aspra penitenza al prete. Nondimeno lo tenne alcuni mesi in prigione, di maniera che vi purgò la dolcezza che prima gustata aveva. Cosi adunque avendo il vescovo fatta menzion di talenti, non parve che si disconvenisse al già condannato prete col detto del sacro Vangelo aitarsi. Narrano alcuni altri la cosa esser accaduta ad un altro vescovo in altri luoghi. Il che può essere; ma avvenne anco al vescovo di Como