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Novella LXVIII - Messer Marco Antonio Gavazza in meno di due settimane casca in varii e strani accidenti; e fatto schiavo di Mori, vien liberato con sua buona fortuna
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IL BANDELLO

al molto magnifico e gentile

messer

GIOVANNI BIANCHETTO

salute


Mirabile certamente è la instabil varietá del corso de la nostra vita e da esser da l’uomo con intento animo e fermo giudicio minutissimamente considerata, tutto il di veggendosi tante e tali mutazioni, quante e quali ogni ora per l’ordinario accadono, ora d’avversa ed ora di propizia fortuna. Vederai oggi uno nel colmo innalzato d’ogni buona ventura, che dimane troverai caduto con rovina ne l’abisso de l’estreme miserie. E tanto piú degna mi pare di saggio pensiero cotesta considerazione, quanto che la volubile varietá de la fortuna non dura in tutti lungamente in un tenore. Onde l’uomo, che si vede rovinato dal felice grado de l’altezza a l’infimo de la vile e bassa condizione, deve usare e porsi per ¡scorta e guida innanzi agli occhi il chiaro lume de la diritta ragione, di cui da la maestra natura è dotato. E cosí governandosi, non si precipiterá rovinosamente nel profondo e misero baratro de la disperazione, dal quale poi non possa cosí di leggero rilevarsi; ma penserá che mentre qui si vive, anzi pure a la morte con veloci passi si corre, molti indegnamente soffreno piú di lui acerbe e dure percosse e strazi molto maggiori, i quali con lo scudo de la pazienza si bene si sono saputi schermire, che a mal grado di rea fortuna sono virilmente risorti ed ascesi al pristino stato e talora a megliore. Medesimamente quando avviene che uno si vede, senza veruno merito suo e senza alcuna vertú, da un soffiamento di prospera fortuna e sorte avventurosa esser levato fuor de la sporca feccia M. Bandello, Novelle. 66 PARTE TERZA del fango e divenuto repentinamente ricchissimo e al mondo riguardevole, se raggio nessuno del lume de la ragione in lui risplenderà, egli per questo non si leverà in superbia né sprezzerà questi e quelli, i quali a petto a lui sono di vie più valore e merito, ma tacitamente in sé raccolto dirà: — Ieri io era misero e sciagurato, ed oggi, non so come, senza che io lo vaglia, mi trovo felice e beato. Quanti ce ne sono che, se ai meriti, al valore ed a la vertù s’avesse, come sarebbe il debito, il convenevol riguardo, deveriano esser riveriti, ricchi ed onorati, ed io deposto al basso? E perciò conoscendo il cieco giudicio de la Fortuna, che cosi sovente cangia proposito, quanto più ella in volto lieta e favorevole mi ride, quanto più m'essalta e quanto più fortunato mi rende, tanto più io mi delibero divenir affabile, grazioso, liberale, compassionevole e cortese a tutti, e a ciascuno, quanto per me si potrà, largamente giovare e a nessuno non far ingiuria già mai, a ciò ch’io faccia ufficio d’uomo da bene e mi dimostri degno di tanti beni quanti m’ha donati. Chi sa poi se essa Fortuna, volgendo, come è sua natura e costume, la rota e precipitandomi al basso de la mia prima miseria, mi volga le spalle e più non voglia favorirmi? Io averò pure in questo mezzo operato bene e mi sarò reso degno che altri abbia di me compassione. — Ed in vero se gli uomini dal nocivo fumo de la mala ambizione e da l’oscure e folte nuvole de la temeraria superbia e del vanissimo e persuasivo gonfiamento del presumere di se stesso più di quello che si sa e che si vale, e da mille altre tacche- ielle non si lasciassero accecare, e non dessero talora, per lo più del devere stimarsi, il cervello a rimpedulare, averessimo senza dubio questa nostra vita più tranquilla di quello che abbiamo. Ora di queste fortunevoli mutazioni, che cosi spesso si vedono avvenire in ogni sorte d’uomini, ragionandosi questi di in una onorata e sollazzevol compagnia, messer Domenico Ca- vazza narrò un fiero e crudel accidente avvenuto a messer Marco Antonio suo fratello, che in meno di quindici giorni si trovò esser misero e felice. Piacendomi cotal istorietta per la varietà di molti fortunosi casi che v’intravennero, subito quella NOVELLA LXVIII 67 scrissi, per accumularla al numero de l’altre mie novelle. Pensando poi a cui donar la devessi, non avendo io altro che dare agli amici miei che carta ed inchiostro, voi a la mente mia in un tratto m'occorreste, come quello .che io prima amai che veduto avessi, con ciò sia cosa che madama Gostanza Rangona e Fregosa, padrona mia e de le vostre rare doti indefessa pre- dicatrice, infinite volte di voi m’ha tenuto lunghi propositi. Ma perdonimi ella, ché io in quei pochi di che voi qui a diportarvi nosco dimoraste, v’ ho trovato esser da molto più che non è la fama ch’io udiva di voi. Né per questo voglio adesso dire tutto quello che di voi sento. Basta che voi séte persona gentilissima ed uomo da tutte l'ore, e rassembrate al zucchero che mai non guasta vivanda veruna ove si ponga. Eccovi adunque essa isto- rietta, che a l’onorato vostro nome ho scritta e dedicata, a ciò che al mondo resti testimonio del mio amore che vi porto e del desiderio che in me vive di potervi fare alcun servigio, se bene le forze mie sono assai deboli e poche. State sano. NOVELLA LXVIII Messer Marco Antonio Cavazza in meno di due settimane casca in vari e strani accidenti e, fatto schiavo di mori, vien liberato con sua buona fortuna. Non deviando punto, signori miei, da la materia de la quale si ragiona — e s'è assai tenzionato de la variazione che bene spesso fa la Fortuna dei casi nostri, che scherzando fa di noi come il gatto far suole del topo, e che insomma l’uomo, per fortunoso caso che l'assaglia e spesso opprima, non deverebbe disperarsi già mai, — io a questo proposito intendo narrarvi alcuni sfortunati accidenti, che non è troppo a Marco Antonio mio fratello, che tutti domesticamente conoscete, occorsero con grandissimo suo periglio, e dirvi insiememente come in pochissimi giorni egli la Dio mercé fu avventurosamente liberato. Devete adunque sapere che, avendo determinato l’illustrissimo e reverendissimo prencipe, monsignor Giorgio d'Armignac, cardinale di santa Chiesa dignissimo, di trasferirsi con tutta la corte sua a Roma, prima che da Rodez egli partisse, chiamato a sé Marco Antonio 68 PARTE TERZA mio fratello, gli ordinò che si mettesse in ordine per passare per mare a Roma, a ciò che conducesse un palagio convenevole e 10 fornisse di tutto quello che era bisogno a fine che egli, che intendeva far il viaggio per terra, al giungere suo trovasse 11 tutto in punto. E cosi esso monsignore gli diede lettere di cambio in Roma per tremila scudi ed a la mano gli fece consignare settecento cinquanta scudi. Mio fratello, per non portar quel peso di tanti danari a dosso, commise a Beltramo di Bierra, che il cardinale dato gli aveva in compagnia, che se ne cucisse settecento dentro il giubbone, ed egli ritenne i cinquanta in mano per ¡spendergli a la giornata. Indi, circa il principio del settembre, parti esso mio fratello da Rodez e andò con Beltramo di lungo a Marsiglia e, presa una fregata, navigò a Genova, ove trovò una barca da Lerice, che voleva partire per andar a Porto Venere e indi a Roma. Fece egli porre la sua valigia su la barca per navigar con quella; ma in quel punto che volevano uscire del porto, medesimamente si metteva ad ordine uno bregantino barcellonese per far vela. Il padrone di quello, veg- gendo il buon viso del mio fratello, gli disse: — Signore, io in questa medesima ora m’appresto per andar a Roma, ed ho qui meco circa quaranta passaggieri ed alcune gentildonne di questa città, che vogliono venir a ritrovar i lor mariti, che sono banchieri e trafficano a Roma. Voi sarete per ogni rispetto molto più sicuro sovra il bregantino che in una barca. — Il che credendosi Marco Antonio, fattasi dar la valigia, montò col compagno suo sovra il bregantino. Ma egli non la indovinò, e non aveva detto il matino il paternostro di san Giuliano; perché la barca di Lerice navigò senza impedimento alcuno a salvamento a Roma, ed egli sovra il bregantino s'incontrò nei maligni spiriti ed ebbe assai che fare, come nel processo del mio parlare intenderete, perciò che assai sovente l'uomo pensa farsi il segno de la santa croce e si dà de le dita ne gli occhi. Spiegata adunque la vela con prospero vento, non dopo molto entrarono nel canal di Piombino, e secondo la costuma dei naviganti, quando furono dinanzi al porto, quello con dui tiri di artiglieria salutarono, e lietamente navigando andavano al lor viaggio, NOVELLA LXVin 69 senza téma alcuna di ritrovar cosa che gli impedisse o molestasse. Erano quattro galeotte moresche, di quelle del famoso corsale Dragutto, condutte da bali Rais, ne le cose maritarne, e massimamente circa il corso, molto pratico, le quali soggiornavano appiattate in un riposto seno del canale, in aguato per prender a Timproviso qualche legnetto di cristiani, che per quei mari mal accompagnato navigasse. Come i detti mori sentirono i tiri e saluto del bregantino, imaginandosi ciò che era, sboccarono fuor de Taguato e si misero a la posta. Indi, come il bregantino comparve, con i lor gridi moreschi e con tiri di arteglieria furiosamente l’assalirono e lo cominciarono a combattere con grandissima fierezza. I poveri e sbigottiti cristiani, veggendosi a torno le quattro galeotte bene in punto armate e corredate, e conoscendosi non esser atti a poter loro far resistenza e il domandar mercé a quei perfidi e crudeli mori nulla giovare, non sapevano ad altro rivolger il pensiero che a fuggire. Erano sossopra i marinari e passaggieri e molto s'afflig- gevano; ma una gran pietà era sentire le strida de le timide donne, che mandavano le grida insino a l’alto cielo. Quelli che sapevano nuotare si cominciarono a dispogliare per raccomandarsi a l’acqua. In questo ecco venire una palla di moschetto che diede nel petto di botta salda a Beltramo, e subito I’ancise. Rimase Marco Antonio, che a canto gli era, tutto spruzzato del sangue del morto compagno, e tanto vicino gli passò la palla che gli arse in parte ed affumicò i peli del mantello. Pensate come egli in quella mortai tresca si trovava. Faceva voti a Dio e a’ santi, e a quelli si raccomandava. Io per me crederei che alora egli dicesse i paternostri de la bertuccia. Ora molti dei cristiani per fuggir la servitù di quei barbari, sapendo nuotare, si gettarono in mare. Marc’Antonio anco egli fu uno di quelli, ché, raccomandandosi a Dio nostro signore e a la gloriosa Vergine Maria, si mise a nuotare. Ma, come proverbialmente dir si suole, saltarono da la padella nel fuoco, perciò che tutti quelli che a nuoto s’erano messi furono dai mori, che sovra gli schifi li seguivano, presi. Gli altri, cosi uomini come donne, che erano restati sovra il bregantino, non so come, essendovi saliti su 70 PARTE TERZA alquanti mori e tagliando a pezzi e svenando i poveri cristiani, il bregantino si riversò con la carena al cielo, di modo che gli uomini nostri e le sciagurate donne e quei crudelissimi mori col bregantino in capo vi si annegarono. Fu poi condotto Marco Antonio con gli altri prigioni sopra le galeotte, dove tutti, spogliati ignudi come il giorno che nacquero, ebbero per antipasto di molte battiture con alcune verghe sottili di palma, essendo la costuma di quegli scelerati barbari di tal maniera flagellare ed acconciar i presi cristiani per far loro conoscere che sono diventati schiavi. Onde, avendoli di modo percossi che le carni loro piovevano da capo a piedi vivo sangue, cosi ignudi come erano, gli cacciarono sotto coperta. Poi, come furono arrivati a Monte Cristo, misero tutti i cristiani al publico incanto e gli vendettero per ¡schiavi ai medesimi mori de le galeotte, e tra loro divisero quei danari che se ne cavarono. Indi voltarono i remi a la volta de l’Affrica. Quivi si può considerare che core e che animo fosse quello degli sfortunati prigioneri, che si vedevano menare schiavi in Barbaria con nulla o bene pochissima speranza di ricuperare già mai la perduta libertà né di mai più tornar a le lor patrie. A mio fratello doleva senza fine d'aver perduto padre, madre e noi altri fratelli, e, oltra questa miseria sciagurata, vedersi schiavo in mano di gente barbara nel principio de la sua fiorita giovanezza, senza speme d’uscire di tanta e si misera servitù già mai. Ma molto più l’affliggeva e noiosamente gli rodeva la radice del core, di continovo tormentandolo, il non aver potuto sodisfare al desiderio e comandamento del suo signore, non sapendo ciò che quello di lui devesse imaginarsi, non avendo mai avuto nuova alcuna di ciò che egli fatto s’avesse. Con questi ed altri pensieri miseramente mio fratello, in tanta sua calamità pascendosi d’amarissime lagrime, menava una dolente vita. Ma vedete qualmente Fortuna, quando buona pezza s’è di noi preso trastullo, come sa voltarla vela e cangiar stile. Erano i corsali con prospero vento arrivati vicini a le secche de la Barbaria, e sperando in poco d’ora discender in terra e toccar la desiata patria arena, ecco in un volger d'occhi levarsi un impetuosissimo soffiamento di contrario vento, che mal grado loro gli sforzò a voltar le vele e darsi in NOVELLA I.XV1II 71 preda a la rapidissima violenza del tempestoso e adirato mare, che verso la spiaggia romana a viva forza gli cacciava, di maniera che capitarono sopra Nettuno. Quivi, trovando sette barche di mercadanti che tornavano da la fiera di Salerno, e spinti anco essi da la fortuna vi s'erano ridutti, senza alcuna contesa i mori le presero, e fecero tutti schiavi coloro che suso v’erano. I corsali scaricarono le barche di tutta la mercadanzia e la posero sovra le loro galeotte, e tra l’altre cose vi missero alcune some di mandorle. Era stato mio fratello più di tre giorni senza cibarsi. Fecero le mandorle, che a canto a lui erano state poste, venirgli appetito di mangiare; il perché con mani e con denti, a la meglio che puoté, apri uno di quei sacchi e cominciò avidissimamente a romper mandorle e mangiarle. Sentendo questo, gli altri prigioneri: —■ Deh, frate — gli dissero, — per Dio, lascia stare quei sacchi, ché se i corsali se n’accorgono, tu sarai cagione che tutti saremo bastonati senza alcuna pietà. — Ma eglino cantavano ad un sordo. Egli, che vóto e morto di fame era e si sentiva mancare, attendeva pure coi denti a ristorarsi, lasciando garrire chi voleva. Gli uomini nettunesi, che le galeotte dei corsali già scoperte avevano, mandarono subito un ¡spedito messo al capitano Antonio Doria, il quale a Monte Carcelli alora in compagnia di ventidue galere si trovava. Fra questo mezzo andarono i mori per istar quella notte a l’isola de la Palmiruola, per esser poi la matina a Ponzo, per prender quivi acqua per rifrescamento e riprender un’altra volta il camino de l'Affrica. Ma, come proverbialmente si dice, « una ne pensa il ghiotto ed un’altra il tavernaro ». Cominciava già ad appropinquarsi il tempo de la liberazione dei nostri cristiani e la cattività dei perfidi mori, a ciò che qual l’asino aveva dato ne la parete, tale ricevesse. Come il capitano Antonio ebbe l'avviso dei nettunesi, in quella medesima ora mandò due fregate per ¡spiare ciò che i mori facevano. Andarono via le fregate quasi a guisa di pescatori, e manifestamente subito conobbero le galeotte esser moresche ed anco dei corsali. Videro i mori le fregate, ma, stimando in esse andar pescatori, non volsero assalire per non si scoprire, con speranza di far il di alcuna buona presa di legni 72 PARTE TERZA mercantili, massimamente di quelli che pensavano dever tornar da la fiera salernitana. Era venuto quella notte, dopo la spia avuta da le due fregate, il capitano Antonio Doria a l’isola di Ponzo e, poco innanzi che l’alba cominciasse ad apparire, si levò e mandò due galere a scoprir i mori da una de le bande de l’isola, le quali due galere erano con alquanto di distanza seguitate da nove altre galere. Esso capitano Antonio Doria próvidamente da l’altra banda de l’isola lentamente navigava con l’altre undici galere, a ciò che i corsali, o da l’una parte o da l’altra, dessero del capo ne la rete e non potessero scampare a modo veruno. Ora, come i mori videro comparire le due dette galere senza conserva d'altri legni, pensando che altra scorta non avessero, fecero consiglio tra loro e conchiusero che era ben fatto più tosto animosamente combatterle che fuggire. Onde, fatta cotale deliberazione e mettendosi ad ordine per menar le mani, cominciarono a scoprire le nove altre galere, che navigavano appo le dui prima da loro scoperte. Del che, già presaghi de la loro presente rovina e disperati del tutto di potersi salvare, bestemmiando i loro dèi, si pelavano la barba. Tuttavia, non mancando a loro stessi, cominciarono a gettar in mare assai di quelle mercadanzie che a’ cristiani rubate avevano, per alleggiamento dei loro legni, a ciò che più velocemente potessero dar volta a l’altra banda de l’isola, e calandosi in terra, abbandonate le galeotte, appiattarsi fra le selve e boschi, che sono in quell’isola grandi e foltissimi. Ma volendo schifar un periglio, fecero come colui che, desiderando di non dare in Cariddi, percosse e si affogò in Scilla; perciò che s’avvennero a le galere del capitano Antonio, che con l'altre undici da quella costa veniva. Quivi, senza punto poter far diffesa, tutti i mori furono presi e messi a la catena. Bali Rais, il capitano, che in vista mostrava d’esser un bravo uomo, aveva quel giorno indosso una giubba di scarlatto di grana con bottoni grossi d’oro. Egli anco fu spogliato e posto a la catena col remo in mano. I prigioni cristiani tutti furono liberati e messi in libertà. Marco Antonio mio fratello, uscendo di sotto coperta de la galeotta ove era stato in prigione tutto il tempo dopo che fu preso, s'abbatté in uno sacchetto di cuoio pieno NOVELLA LXVIII 73 di scudi d’oro, e sentendolo pesante assai ed imaginatosi il fatto com’era, lieto oltra misura de la racquistata libertà come anco dei danari trovati, avviluppatosi in una schiavina, se ne venne disopra, ringraziando di core nostro signor Iddio, che dopo tante e tali sciagure libero si trovasse. Fece poi vela verso Napoli il capitano Antonio, e navigando ebbero tanto fiera e rovinosa tempesta le sue galere, che per la contraria e fuor di modo veemente fortuna furono vicini a rompere in mare, andando traverse, e affogarsi non molto lontano da Gaietta. Nondimeno col buon governo, aiutandoli nostro signor Iddio, presero a la fine porto a Gaietta. Vi so dire che mio fratello non ebbe minor paura di quella che ebbe quando fu preso da’ mori. Nel porto di Gaietta dismontò egli in terra e s’allontanò alquanto fuor di terra ed entrò in un boschetto assai vicino. Quivi, desideroso di saper ciò che guadagnato avesse, apri il trovato sacchetto di cuoio, cui dentro ritrovò più di duo mila scudi d’oro, e oltra quelli molte anella di valuta, tra le quali ci erano dui finissimimi diamanti, che poi stimati furono da pratichi e giudiziosi gioieglieri più di settecento ducati d’oro l’uno. Potete credere che egli, smenticatosi tutte le passate sciagure, aveva il suo core tanto lieto quanto esser si potesse, e gli pareva che notasse in un mare di mele, trovandosi tanti danari e cosi care gioie, ed esser in libertà; del che, dopo tanti mali, puoté tenersi per ben ristorato. Andarono poi le galere a Napoli, ove, come Marco Antonio fu giunto, rese quelle grazie che seppe le maggiori de la sua liberazione al capitano Antonio Doria, dismontò in terra e attese a farsi far de le vestimenta da par suo. E non volendosi a modo veruno più confidare d’¡sperimentar la poca stabilità de Tacque marine, montato su le poste, se n’andò a Roma. Quivi condusse un onorato palagio, che d¡ tappezzane adornò e forni d’ogni cosa per bisogno ed agio del suo cardinale e de la corte di quello. Gli fu assai favorevole anco in questo la fortuna, perché, dopo tanti travagli e fastidi, egli mandò ad essecuzione tutto quello che dal suo signore gli era stato imposto prima che monsignor lo cardinale a Roma arrivasse; perché, venendo per terra a oneste giornate, ritrovò il 74 PARTE TERZA tutto apparecchiato, arrivando otto giorni dopo che Marco Antonio era giunto in Roma. Quivi il cardinale prima intese la buona sorte di quello che i tanti sofferti infortuni. E però si può ragionevolmente conchiudere che nessuno si deverebbe, per contraria fortuna che lo molesti, disperar già mai, essendo quella in tutte le azioni sue varia ed instabile. FINE DELLA PARTE TERZA.

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